OPINIONI
Vuoti e pieni per i precari della cultura ai tempi del Covid-19
Un presente sospeso e un futuro incerto. Per combattere una sfida alta è necessario mettersi a lavoro da subito
Questa crisi arrivata con la pandemia con buone probabilità ridisegnerà per diverso tempo – quanto e come ancora non è dato sapere – le nostre modalità dello stare insieme, dello spostarci, del vivere comune e insieme. Lo spaesamento vissuto da tutt* noi, che da anni lavoriamo con fatica e nella precarietà, a progetti culturali e in tutti gli ambiti dello spettacolo, è forte e altalenante nel doppio tentativo di scorgere il futuro da una parte e di cercare di reggere l’urto del presente dall’altra. Si cerca di immaginare come sarà il “poi” della cultura indicando un ritorno alla normalità direttamente alla primavera del 2021, ipotizzando improbabili Drive-In come nuovi modi dello stare insieme pandemico, paralizzandoci pensando a una ripresa che ora ci sembra “impossibile” e per la maggior parte del tempo ci sconfortiamo, nella solitudine delle nostre case, sprofondati nei nostri divani (per chi ne ha uno), immaginando scenari post-apocalittici, nell’inedia di un presente fatto soprattutto di vuoti: quelli delle nostre città, dei teatri, dei cinema, dei club e degli spazi culturali, della totale assenza di diritti per un intero settore quello culturale e dello spettacolo, il cui futuro oggi è più che mai incerto, inafferrabile, a rischio.
Ci chiediamo: che sarà di noi? Saremo in grado di ricominciare a progettare, a creare, a produrre ancora dell’arte e della cultura? In che modi lo faremo? Domande importanti e cruciali, le cui risposte in questo momento – forse mai come in questo momento – devono necessariamente essere trovate contribuendo in tante e tanti. Sarebbe importante cercare però di partire anche da alcuni elementi positivi che stiamo vedendo accadere, per guardare anche ai pieni e non solo a questi angoscianti vuoti.
La prima cosa che colpisce è la necessità sempre più diffusa e da subito urgente di riconoscersi insieme in un mondo, quello della produzione culturale, che per genesi, sviluppo e tessuto è sempre stato diviso, frammentato, precario. Fin da prima del lockdown abbiamo visto una incredibile voglia di sentirsi, parlare e raccontarsi quello che stava succedendo perché in questo scenario apocalittico che ci veniva presentato di ora in ora peggiore, subito si è sentito che da soli, tra le mura delle nostre case, non potevamo trovare delle risposte. Immediata è stata la presa di parola pubblica – per quello che adesso possiamo considerare lo spazio pubblico – una risposta roboante e a tratti anche ridondante per farci vedere, per farci sentire, per non cadere nella solitudine, per non lasciarci cadere nell’isolamento. Il proliferare di contenuti on-line, di dirette, di performance dai balconi, quantomeno hanno avuto la capacità di portare in scena – in modo a volte sgraziato, a tratti populista, urlato o sghembo – nel cadenzare quotidiano della quarantena, la quantità spropositata di lavoro creativo di tutti i tipi che viene prodotto ogni giorno da tante e tanti. Sul tema delle dirette e il loro proliferare altro è già stato scritto, ma qui rilevo un aspetto in particolare: quello dell’idea di coesione e di comunità che hanno assunto di questi tempi la musica, l’arte, la cultura in generale in Italia e nel mondo, in questo momento complesso e difficile.
La seconda cosa che impressiona riguarda il tema del lavoro culturale. Da che ho memoria è da molto che manca un percorso in cui lavoratrici e lavoratori dello spettacolo provano ad auto-organizzarsi dal punto di vista della richiesta di diritti sul lavoro, della legittimità delle loro figure, del riconoscimento della loro professione. Ora sta succedendo in modo massivo: non solo con petizioni on-line, ma con assemblee pubbliche, nazionali e territoriali che vanno dal Piemonte alla Sicilia, in cui si ragiona non solo sul come uscire dalla crisi sulla richiesta di reddito di quarantena (o di emergenza), ma si pensa a come ottenere una riforma legislativa in questo ambito che venga pensata sull’intermittenza e che possa finalmente adeguare le mille forme del lavoro culturale, in un inquadramento legale, sicuro e di diritto. Questo è un passaggio non banale né scontato, perché per decenni in Italia anche noi lavoratrici e lavoratori abbiamo dovuto sguazzare dentro questo sistema per sopravvivere tra lavoro nero, contratti a chiamata, co.co.co, interinali e cooperative del mondo dello spettacolo.
La terza cosa che fa riflettere è l’incredibile solidarietà del pubblico quando più che come pubblico, si legge, si riconosce e si racconta come comunità. L’entusiasmo e l’affetto che stanno raccogliendo le campagne fondi per sostenere i piccoli Club dove si suona musica dal vivo ad esempio sono importanti e commoventi per la capacità di mobilitare in una causa comune operatori, artisti e pubblico con migliaia di euro raccolti in poche ore e con moltissimi messaggi di solidarietà. Ma potrei dire anche di chi in modo generoso e inimmaginabile sta rinunciando al rimborso dei biglietti che aveva già acquistato per spettacoli che non si sono fatti e che forse non si faranno mai. Penso alla solidarietà attorno alle librerie, alle etichette, agli editori indipendenti e in generale a tutte quelle filiere di produzione culturale che fanno del comune e dello stare insieme uno dei loro valori fondamentali.
Ecco di fronte a questi segnali mi chiedo se, nella solitudine dell’isolamento imposto dal contenimento del contagio, ci siano spazi per pensare collettivamente a come prenderci cura di questo mondo della cultura, dentro e per un futuro comune. Se non sia forse il caso che al posto di attendere i Decreti del nostro nuovo padre di famiglia o posticipare a un oltremodo lontano 2021 gli eventi come se niente fosse, non sia il momento di incominciare a immaginare come sarà il nostro nuovo stare insieme e di farlo a partire dal costruire un noi. Se tutta questa capacità di immaginare, pensare, creare non possa essere messa in campo per darci delle nuove possibilità ora e per il prossimo futuro, come stanno provando in modo interessante a fare alcuni, ad esempio i Motus in DreamSuq per Santarcangelo Festival.
Perché, se immagino il futuro, il pensiero è che quando inizieremo a uscire di casa, saremo già al lavoro per un mondo migliore e non per farci ripiombare in uno status-quo che ci metta di fronte gli stessi problemi di precarietà, di non riconoscimento, di assenza di diritti, baronato, frammentazione, sessismo e nonnismo culturale di cui non ho mai tollerato l’esistenza e di cui sinceramente non sento affatto la mancanza. La sfida potrebbe essere alta. Siamo in grado di attrezzarci per esserne all’altezza?
Foto di Andrea Balducci