MOVIMENTO
«Vogliono colpire il dissenso». Parla Jacopo Bindi, ex-militante in Rojava sotto processo a Torino
Si è svolta lunedì l’ultima udienza del processo contro Eddi, Jacopo e Paolo, accusati, sulla base della loro partecipazione alla rivoluzione curda in Rojava e sulla loro militanza in Val di Susa, di essere “socialmente pericolosi” e che per questo rischiano di essere sottoposti a “sorveglianza speciale”. Un attacco frontale della magistratura a chi ha dato il proprio contributo alla causa del nord siriano e a chi è da sempre attivo nel movimento no-Tav.
Il Tribunale di Torino si è riservato 90 giorni di tempo per decidere sulla sorte di Eddi, Jacopo e Paolo (Maria Edgarda Marcucci, Jacopo Bindi, Paolo “Pachino” Andolina). I tre attivisti, che hanno preso parte alla rivoluzione curda nel Rojava (militando, rispettivamente, nelle Unità di protezione delle donne – Ypj, nel Movimento per la società democratica – Tev Dem, e nelle Unità di protezione del popolo – Ypg) durante il periodo in cui infervorava la lotta contro l’Isis, sono accusati dalla magistratura italiana di essere “socialmente pericolosi” e stanno affrontando ora una battaglia legale che va avanti da più di un anno e la cui udienza finale si è svolta questo lunedì 16 dicembre 2019.
Secondo il Pubblico Ministero Emanuela Pedrotta, l’esperienza in Siria del Nord avrebbe consentito a Eddi, Jacopo e Paolo di acquisire “competenze militari” che rischiano di essere utilizzate sul territorio del nostro paese (nonostante, in realtà, non tutti i gruppi di cui hanno fatto parte gli imputati siano unità militari: il Tev Dem, infatti, è un’organizzazione politica che si occupa di applicare i principi del confederalismo democratico nel contesto della Siria del nord). Pertanto, i giudici di Torino, in base a un decreto legislativo del 2011 che aggiorna delle norma fasciste contenute già nel Codice Rocco, potrebbero disporre nei loro confronti di “misure preventive”: dal semplice avviso orale (una sorta di invito ufficiale a “tenere una condotta conforme alla legge”), al foglio di via (che comporterebbe l’allontanamento fino a due anni di Eddi, Jacopo e Paolo dal capoluogo piemontese), alla cosiddetta “sorveglianza speciale” (una consistente restrizione delle libertà di movimento e delle libertà civili che, proprio per la sua natura preventiva e il carattere ambiguo delle sue predisposizioni, è stata tra l’altro contestata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo).
Una vicenda che, a detta di Jacopo a cui abbiamo posto alcune domande, «si è evoluta attraverso salti logici e capriole processuali, fino ad arrovellarsi su fatti di scarsa rilevanza che non sono neanche mai stati oggetto di sentenze».
L’accusa agisce sulla base di pregiudizi nei vostri confronti?
È evidente che la Procura si concentra solo sulle nostre idee politiche. Ci viene contestato di aver preso parte ad azioni del movimento No-Tav, a cortei o presidi mentre, a volte, si fa riferimento a pensieri che abbiamo espresso in libri, nei post di Facebook o durante delle conferenze per dimostrare che siamo “soggetti pericolosi”. Si vuole colpire il dissenso, spesso interpretando i fatti in maniera faziosa: a mo’ di prova è stata portata, per esempio, la nostra partecipazione a un picchetto davanti al locale torinese Buyabes in solidarietà a un ex-dipendente che non aveva ricevuto il proprio stipendio. Un’azione peraltro che si è svolta in modo assolutamente non violento e pacifico. Oppure è stato menzionato l’uso di fuochi d’artificio, durante un presidio di capodanno presso il carcere a sostegno dei detenuti, come dimostrazione di competenze militari.
La realtà è che si è verificata una progressiva politicizzazione di parte della Procura torinese contro il movimento No-Tav e questo sta portando a una serie di contraddizioni interne al sistema di diritto liberale: le “prove” citate a sostegno della nostra colpevolezza si basano su segnalazioni della Digos che, come ho già detto, solo in rarissimi casi si sono tramutate in sentenze. È come se l’operato della polizia fosse di per sé sufficiente a costituire un giudizio, senza bisogno di contro-indagini. Ma il carattere pretestuoso delle accuse è stato esplicitato dalla stessa Emanuela Pedrotta: il Pubblico Ministero ha infatti dichiarato che la nostra esperienza in Rojava non può essere un «salvacondotto i nostri comportamenti in Italia». Eppure, teoricamente, è proprio dalla prima che parte il processo.
Pensi quindi che, col pretesto della partecipazione alla lotta curda, si voglia in realtà criminalizzare il movimento No-Tav?
Credo che siano due elementi strettamente correlati. La Digos e la Procura vedono come “nemico” qualunque forma di espressione del dissenso, qualunque atteggiamento che non sia di conformismo e subordinazione all’ordine di valori capitalista. Perciò, dal loro punto di vista, è “nemico” tanto chi va a combattere per la rivoluzione del Rojava quanto chi si oppone alla costruzione dell’alta velocità in Val di Susa. Sono due facce della stessa medaglia.
Con il nostro processo si sta probabilmente tentando un esperimento che, se dovesse essere legittimato, aprirebbe le porte a nuovi livelli di repressione politica: la limitazione della libertà in via preventiva e solo sulla scorta di congetture non adeguatamente supportate dai fatti. È difficile che tutto ciò possa passare, ma si tratta di un tentativo. Perciò le manifestazioni di solidarietà nei nostri confronti, che si stanno svolgendo anche davanti al tribunale durante le udienze, sono fondamentali e stanno avendo effetto. È palpabile la sempre maggiore difficoltà da parte dei giudici a essere esposti all’attenzione dei giornali e dell’opinione pubblica e, proprio per questo motivo, il processo ha subito rinvii e allungamenti.
Ora, occorre aspettare la decisione della corte. Comunque vada, sappiamo di essere dalla parte giusta della storia.
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