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ITALIA

Voci del popolo palestinese in Italia

La comunità palestinese in Italia, in risposta al genocidio che Israele sta compiendo in Palestina, si è mobilitata assieme a migliaia di cittadini nelle maggiori città italiane ed europee per difendere i diritti umani e chiedere il cessate il fuoco. Palestinesi e non solo, a cui è importante dar voce

«Europa fu la principessa della Palestina; secondo un’antica leggenda, trasformata poi dagli antichi greci e romani, la principessa Europa fu rapita dal dio del mare e nascosta. Il re mandò quattro uomini a cercarla, in Italia, Grecia, Spagna e Francia, dicendo loro di non tornare finché non l’avessero trovata. Nessuno di loro mai tornò». Racconta così Ahmed, 24 anni, di origine palestinese ma nato, cresciuto e residente in Italia, alla fine di uno delle decine di presidi e manifestazioni che si sono svolti a ottobre, novembre e dicembre  in Italia e in Europa. «La nostra principessa si chiama come il continente di cui fa parte questa nazione. Il mare che bagna l’Italia è lo stesso che bagna la Palestina. I nostri antenati sono i fenici, inventori della scrittura e di tutti i mestieri e le arti che 5000 anni fa esportarono in nuove terre. Gli italiani e i palestinesi sono cugini per me. Siamo lo stesso popolo».

A un mese dall’inizio dell’ultimo conflitto a Gaza, chi manifesta in Italia è stanco e incredulo. La società civile si sente impotente di fronte a questa tragedia, tradita da una narrazione che non la rappresenta e da una classe politica che sostiene il governo che sta compiendo un genocidio, cancellando un popolo. I palestinesi in Italia rivendicano la loro esistenza e la loro storia. Un’esistenza che nella narrazione di quest’ultima parte di conflitto viene loro negata. Come è stato loro negata negli ultimi 75 anni. Ahmed mi dice da sempre, «da molto di più amico mio».

Karim ha 45 anni e vive a Gaza con la sua famiglia. Sua moglie, figlia, madre, fratello, sorella. Lavora come manager nella striscia di Gaza per un’Ong italiana che coopera nello sviluppo di progetti sociali. È arrivato in Italia il primo di ottobre, insieme a una figlia, per periodiche questioni lavorative. Dall’inizio del conflitto la sua famiglia è a Gaza.

«Mia madre abita a Gaza City. Mia madre è anziana, non si alza dal letto. Mio fratello il 10 ottobre mi ha chiamato. C’è stato l’ordine di evacuare il nord della striscia, in poche ore. La stava per lasciare li. La stava per lasciare in casa. Glie l’ha chiesto lei. In auto, con i bambini e la moglie, non c’era spazio per la nonna. Per miracolo, mentre stavano per lasciare casa, uno sconosciuto, con un camion, si è offerto di caricare il letto di mia madre e di portarla a sud. Un miracolo. Ora sono a sud, da mia sorella. Il pane non basta per tutti, l’acqua potabile è estremamente difficile da reperire. Per far mangiare i bambini, gli adulti non mangiano».

Non è la prima volta che la famiglia di Karim, e Karim stesso, sono coinvolti in prima persona in un attacco armato di Israele nella striscia di Gaza. Karim ne ricorda almeno cinque. «Nel 2014 correvo con mia figlia piccola in braccio per scappare dalle bombe. Mia moglie, incinta, è caduta». Questo episodio ha segnato il rapporto di Karim con sua figlia: «mi guardava impotente e non sapevo cosa dirle. È una sensazione orribile, che non posso descrivere. Ci siamo salvati grazie a Dio, ma in certi istanti, credetemi, si preferirebbe morire».

Questo episodio ha anche segnato la vita della futura seconda figlia di Karim, nata disabile a seguito della caduta di sua madre durante i bombardamenti del 2014. Episodi come questo sono stati frequenti nel corso degli anni nella striscia di Gaza. Come migliaia sono le persone invalide a causa degli attacchi dell’esercito israeliano sulla popolazione della striscia. La striscia di Gaza è il luogo più densamente popolato del mondo. 2.3 milioni di persone vivono in 365 chilometri quadrati. Sei persone per metro quadrato. Più di 15.000 persone uccise negli ultimi 40 giorni e decine di migliaia di feriti. «In queste situazioni – prosegue Karim, – non esiste un centimetro quadrato che sia sicuro per un civile a Gaza».

Un passo oltre l’odio

Dal 2015 Karim ha scelto di collaborare con l’Ong italiana per facilitare la vita delle persone con disabilità a Gaza. «La vita a Gaza non è normale. Ma è ancora più complessa se con a carico una persona disabile. Non sono mai stato favorevole alla violenza. Ho visto con i miei occhi il dolore che causa. E di come cambia le vite. Da quando è nata mia figlia ho trasformato una tragedia nella possibilità di aiutare centinaia di persone nella situazione in cui si è trovata lei, e quindi anch’io»«. Da inizio ottobre Karim ha avuto sempre meno notizie anche dalle famiglie delle persone che aiuta attraverso l’associazione. Il centro dell’associazione è stato bombardato, come tutto il nord di Gaza. È andato tutto distrutto. La corrente elettrica, le linee telefoniche, internet. Acqua e luce tagliati. Strade, case, scuole, ospedali bombardati. Non c’è cibo. Comunicare con la striscia di Gaza è sempre più difficile. «La società civile è il bersaglio di questa guerra. Voi vi sentite umani?» – chiede Karim più volte durante il suo intervento al presidio. «Non vince nessuno in una guerra, ma la società civile, gli esseri umani, sono già stati sconfitti». È incredulo e impotente, come tutti i presenti. «Non è possibile far entrare un pezzo di pane, o dell’acqua, a Gaza. I miei colleghi hanno perso la speranza».

Anche Jamila interviene durante la manifestazione. Jamila è marocchina, in Italia da 26 anni, trasferitasi qui da bambina con la famiglia. «La mia generazione ha creduto e vissuto per creare un cambiamento reale nella società, che in Europa sembrava possibile. Io ho studiato scienze politiche, lavoro nell’integrazione sociale. Ho creduto nell’ideale di libertà e autodeterminazione di ogni essere umano nella società civile. Siamo delusi. Sono delusa anche dal governo del mio paese di origine, che in questo momento storico continua a intrattenere con Israele rapporti commerciali che sostengono il conflitto armato». Una disillusione che vive anche la generazione più giovane, figli di genitori spesso nati sulle coste meridionali del Mediterraneo, che non trovano nell’Europa i valori di inclusione e rispetto dei diritti umani in cui i loro genitori avevano creduto.

E altri giovani, oltre che delusi, pur essendo in Italia vivono tutti i giorni il conflitto nel proprio quotidiano. Ibrahim, 21 anni, studia all’università, in Italia. La sua famiglia è palestinese e vive nei territorri occupati della Cisgiordania. Lui è in Italia da solo. Ha ereditato la cittadinanza israeliana dal nonno, sopravvissuto alla Nakba del 1948. È di origine araba, di fede cristiana.

Scende in piazza ma non può intervenire, è troppo pericoloso. Sua cugina, israeliana in Israele, è stata arrestata a ottobre per aver postato su facebook un commento in sostegno al popolo palestinese. Sua madre non sa che lui è in piazza, non glielo può dire al telefono.

«Sono deluso anche dal non vedere alcune persone in piazza per il popolo palestinese», prosegue Karim durante il presidio. Alle manifestazioni, in Italia, raramente sono presenti rappresentanti della classe politica, nemmeno i sindaci. Non si esprimono. «È un silenzio causato dalla paura? I mass media chiedono ai cittadini di schierarsi, nascondendo il genocidio che è in atto. La politica è incapace di fermare un genocidio. Questa narrazione è pericolosa soprattutto per voi, giovani in Europa. Indipendentemente da questa narrazione i cittadini di Gaza continuano a venire uccisi. Ma se cambia qualcosa qui, può cambiare qualcosa anche a Gaza».

Testimone dei risultati di questa narrazione è anche Sarah, 32 anni, nata e cresciuta in Giordania. La sua famiglia è palestinese. I suoi nonni paterni sono sopravvissuti alla Nakba del 1948. Ma hanno perso la loro terra, la loro casa. Sono stati cacciati dalla Palestina.

«Oggi non volevo aprire i social, guardare quei video, ma l’ho fatto, e ho visto quello che non volevo vedere. Gazawi che abbandonano le proprie case, che non potranno tornarci mai più. Ricordo che da bambina accompagnavo mia zia al confine tra Giordania e Palestina, insieme a mia nonna. Mia zia era autorizzata a superare il fiume Giordano, a entrare in Palestina. Noi no. Non sono mai potuta entrare in Palestina, non ho mai potuto attraversare quel fiume. Mia nonna nemmeno. Non ha mai potuto mostrare a sua nipote il villaggio vicino ad Haifa in cui è cresciuta, e prima di lei i suoi genitori, da cui sono stati cacciati nel 1948. Un villaggio di contadini, mestiere che i miei genitori hanno continuato a fare in Giordania. Mio nonno ha ancora la chiave di casa in mano. Della sua casa in Palestina. Noi Palestinesi lo sappiamo. Se ci cacciano non riavremo mai la nostra terra, la nostra casa. Mia nonna paterna non si è mai spostata dal campo profughi di Zaatari. Nonostante i miei zii avessero lavorato per avere una casa ad Amman, pensata per ospitare anche lei, non se ne andò mai dal campo. La sua casa era una sola, quella in Palestina e nessun’altra».

Un’altra guerra

Queste sono testimonianze a cui in Italia non viene concesso spazio nella narrazione mediatica del genocidio che si sta compiendo a Gaza, se non in rari casi. La vita di oltre due milioni di persone è appesa a un filo, la loro storia è stata cancellata. I bomardamenti hanno distrutto le tracce lasciate da queste vite. Per la prima volta nella storia stiamo assistendo a un genocidio in diretta, per quanto possibile, non attraverso i mass media, a cui è impossibile accedere a Gaza, ma attraverso le videocamere degli smartphone di chi subisce questo massacro, raggiungendo comunque milioni di persone in tutto il mondo.

Una verità scomoda che Israele cerca di distruggere. 37 giornalisti Gazawi uccisi in un mese. E dei sopravvissuti in alcuni casi sono state uccise anche le famiglie. Tra di loro ci sono Samar Abu Elouf, Motaz Azaiza, Ali Jadallah, Yahya Sobeih, solo per citarne alcuni. Hanno chiesto la protezione internazionale senza ottenere risposta. A Wael Al-Dahdouh, l’unico corrispondente di un canale di informazione internazionale presente a Gaza in quanto Gazawo e residente a Gaza City, sono stati uccisi la moglie e i due figli da un raid nel sud di Gaza, zona indicata come sicura dall’esercito israeliano per i civili palestinesi. Ha ricevuto la notizia mentre era in diretta televisiva da Gaza City. Li aveva accompagnati a sud per poi tornare a coprire il fronte.

«Un attacco mirato contro bambini, donne e civili. E questa sarebbe la zona sicura?». Sono state queste le prime parole che ha espresso nel lutto. Quando alcuni di questi giornalisti sono stati contattati da emittenti televisive per delle interviste, hanno evidenziato come il linguaggio dei colleghi in occidente stia ostacolando una presa di coscienza, quindi di posizione, della popolazione rispetto all’emergenza umanitaria.

Essi proseguono, con inimmaginabile difficoltà, a documentare, a creare documenti tangibili di questa tragica pagina storica, di ciò che i canali main stream occidentali non possono mostrare. Gli stessi canali di comunicazione mainstream che hanno permesso all’ex-ambasciatore israeliano in Italia di esprimersi così in diretta nazionale, lasciando sbalordito chiunque: «a noi non interessano questi discorsi morali sulle vite dei civili. Il nostro obiettivo è cancellare Gaza, il male assoluto, distruggerlo». 

I freelance di Gaza lavorano con enorme frustrazione, ogni giorno in cui è possibile, anche attraverso le proprie storie Instagram. Mostrano a chiunque le conseguenze del conflitto su quella parte di popolazione che non si vuole considerare, a cui si nega di esistere. Ai cui amici, familiari, colleghi, non si vuole dare spazio neanche sui social media, nei telegiornali, nelle piazze, nel tentativo di ridurre il genocidio a un’inevitabile conseguenza di un’inevitabile azione bellica, senza considerare la mancanza di una correttta narrazione mainstream sulla storia del popolo palestinese, ma sfruttando questo vuoto per semplificare e giustificare una narrazione parziale e superficiale.

Un altro elemento che in Italia i media mainstream non discutono riguarda la presenza di gas naturale lungo la costa di Gaza. Il  governo israeliano prevede di concederne l’acquisto anche ad Eni. Fino a ottobre il gas naturale di Gaza era stato dato in concessione a Gazprom, società russa. Gli universitari attivisti di Bologna hanno lanciato l’allarme fin dalle prime manifestazioni, denunciando che già da tempo l’università di Bologna ha accordi di collaborazione con Eni.

“Il rapporto tra energia fossile, governo e grandi imprese private è stato condannato ampiamente nel corso del 2023, specialmente in Emilia-Romagna dove a maggio la crisi climatica ha colpito drasticamente buona parte della regione. Secondo i documenti di Eni del 1970 l’aumento della temperatura globale legata al consumo di combustibile fossile e le sue conseguenze erano state ampiamente previste. Nonostante ciò non è stata cambiata direzione di sviluppo e oggi, di fronte ad un genocidio, governi e grandi imprese private antepongono accordi commerciali al rispetto dei più diritti umani fondamentali. Il governo italiano si è astenuto rispetto alla votazione Onu in materia. Ribadiamo che per noi la collaborazione dell’università in cui studiamo con aziende e governi che non si assumono la responsabilità dei propri crimini è inaccettabile». Queste le parole di Lucia, urlate tra le lacrime e gli applausi di migliaia di manifestanti. L’università di Bologna è stata occupata dagli studenti, che hanno tenuto conferenze informative e assemblee per organizzare manifestazioni e boicottaggi. Lo stesso è successo a Torino, Venezia, Padova, Napoli, Roma. «Vogliamo lanciare un segnale inequivocabile alle istituzioni coinvolte nella costruzione di un futuro a cui i giovani universitari dovrebbero contribuire: non a queste condizioni» – aggiunge Federico.

Dai reporter freelance di Gaza, ai palestinesi in Italia e nel mondo, a tutti i popoli che si affacciano sul Mediterraneo, intorno a Gaza, fino a dove agli esseri umani è concessa libertà di pensiero ed espressione si alza una voce che deve essere ascoltata e rispettata, per tutelare ogni individuo dalle atrocità di una guerra che è molto più ampia nel tempo e nello spazio di quanto tragicamente appare ogni giorno: «vogliamo giustizia per tutti i popoli oppressi, vogliamo avere il diritto di esistere».

Immagine di copertina e nell’articolo di Francesco Arrigoni