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Una vita da cani secondo Wes Anderson
“Isle of Dogs”, il nuovo film animato di Wes Anderson, è ora in tutte le sale cinematografiche italiane. Una storia di amicizia e resistenza ambientata in un immaginario Giappone del futuro dove a essere protagonisti sono un gruppo di cani (ma dove viene da pensare soprattutto all’America di Trump)
Ultimamente mi è capitato spesso di pensare che molte persone intorno a me amino più gli animali degli esseri umani e mi sono chiesta il perchè. La risposta che mi sono data, dopo averci riflettuto un po’, è che gli animali ci offrono un affetto incondizionato, immune dagli sbalzi d’umore. Gli animali non possono sopraffarci, non possono fraintenderci e non possono escluderci arbitrariamente dal loro universo affettivo. In cambio di una piccole dose di cura, questi esseri viventi capaci di infinita dolcezza, ci danno in cambio tutto quello che possono, senza calcoli di opportunità o riserve. Soprattutto i nostri piccoli amici a quattro zampe non possono in nessun modo dirci che siamo degli idioti. E questo, ci rassicura. Con gli essere umani invece è tutto molto più difficile, loro sono delle minacce ambulanti al nostro ego gonfio e fragile, sono delle calamite in maschera pronte a farci del male non appena ne avranno l’occasione. Questo è forse uno dei motivi per cui capita spesso di sentire persone affermare che darebbero la vita per il proprio cane e udire poi le stesse augurare una morte dolorosa a un loro simile perchè non condividono la sua opinione, o la sua tonalità della pelle. Mi piace immaginare che Wes Anderson nel pensare il suo ulitmo film sia partito dall’osservazione di questi paradossi contemporanei.
Nel mondo fantastico di Isle of Dogs, il nuovo di film di Wes Anderson che ha aperto il concorso della Berlinale, ci ritroviamo nel Giappone del futuro, dove convivono, come spesso accade nella tradizione del cinema animato giapponese, l’iconografia tradizionale e le distopie urbane cyberpunk. Nella metropoli immaginaria di Megasaki, si è diffusa un’epidemia di influenza canina che ha contagiato la quasi totalità dei cani della città e che ora sta minacciando l’equilibrio igienico-sanitario degli esseri umani. Complice l’allarmismo dei media e della politica, tra gli abitanti si sta diffondendo un’ondata di panico e di fobia per i cani, e il gruppo di scienziati che sta lavorando alla scoperta dell’antidoto viene pubblicamente linciato, screditato e messo al bando dalle autorità. Un decreto governativo d’emergenza, emanato dal corrotto sindaco Kobayashi, dichiara fuorilegge tutti gli esemplari di specie canina, avviando un massiccio sistema di deportazione di cani su un’isola al largo della città, già utilizzata come deposito a cielo aperto di immondizia, carcasse industriali, scorie e parchi giochi in disuso.
Nello scenario di Trash Island, le cui immagini sono un capolavoro di poetica post-apocalittica, in un piccolo bolide rudimentale atterra rovinosamente un bambino di dodici anni, Atari Kobayashi, figlio adottivo del sindaco di Megasaki. Il bambino, incurante delle nuove leggi e dei pericoli di Trash Island, sbarca alla ricerca del suo cane, Spots, deportato qualche mese prima. Qui inizia l’avventura, che è l’avventura del piccolo Atari, ma soprattutto quella dei cinque sconclusionati e pulciosi cani che lo aiutano e lo accompagnano attraverso le incognite, gli incontri e le sorprese di Trash Island. In questo viaggio oltre a ritrovare il perduto Spots, la banda scopre anche un piano segreto delle autorità che prevede di avvelenare con un gas tossico tutti i cani dell’isola.
A Megasaki nel frattempo un gruppetto di studenti, guidato dalla piccola americana in vacanza studio Tracy, inizia a protestare contro il decreto mettendo in luce le responsabilità del governo nell’aver diffuso il virus canino e nell’impedire che se ne trovi la cura.
Se i riferimenti politici del film, che va ricordato viene ideato e prodotto nell’America di Trump, sono piuttosto evidenti, e il tema della coscienza collettiva e dell’accettazione tra diversi è centrale, alcuni elementi meritano di essere evidenziati. Innanzitutto l’idea di Anderson di raccontare il razzismo e i fenomeni di isteria collettiva utilizzando come soggetto discriminato i cani è originale e molto efficace. I cani infatti aprono immediatamente una breccia nell’apparato empatico dello spettatore, che ancora prima di connettere razionalmente i parallelismi con il presente, si ritrova ad essere prfondamente indignato per quegli esseri innocenti tenuti in gabbia o deportati in mezzo alle macerie. In più Anderson non cede alla tentazione di santificare queste bestiole pidocchiose e deperite, per forzare sul sentimento di ingiustizia che la loro emarginazione ispira. I cani sono diversi tra loro, contraddittori, ironici e a volte competitivi, in realtà sono gli unici personaggi umani del film, mentre ai caratteri umani è concessa molta meno profondità.
In una scena del film uno dei cani che aiutano Atari sull’isola, un burbero e rissoso randagio di nome Chief, confessa di aver quasi staccato una volta un braccio a un bambino. Ho avuto paura, aggiunge, e in questa improvviso flash di violenza, agita e subita, piuttosto che diminuire, la partecipazione emotiva dello spettatore aumenta.
Il rovesciamento del rapporto tra umano ed animale è una delle chiavi di volta del film in stop motion di Anderson, e passa innanzitutto per il linguaggio. I protagonisti umani del film infatti parlano in giapponese senza sottotitoli, e rimangono fondamentalmente incomprensibili, tranne in alcuni momenti in cui per esigenze di trama compare nella vicenda una traduttrice simultanea professionale con tanto di cuffie e microfono. Questa aporia linguistica non viene spiegata e si inserisce perfettamente nella tradizione cinematografica del regista come elemento che instaura una complicità con lo spettatore e suscita indulgenza verso i piccoli tradimenti della finzione narrativa. I cani invece parlano in inglese cosi come, unica tra gli umani, la ragazzina americana che organizza la protesta contro il decreto.
Gli umani nel film sono in gran parte personaggi bidimensionali e parlano un linguaggio incomprensibile, i cani invece sono profondi e consapevoli della propria condizione, diffidenti ma inclini al rispetto reciproco, capaci di auto-organizzarsi e di solidarizzare tra loro e con gli uomini. In questo Anderson seppur non idealizzando la soggettività subalterna, sembra comunque riconoscere ai discriminati la potenza e la capacità di trasformare tutti gli altri. E la trasformazione avviene prima di tutto attraverso l’affetto. È infatti lo sviluppo di un rapporto di amicizia tra il randagio Chief e il piccolo Atari che costituisce il cuore pulsante della vicenda. Chief è sempre stato un cane di strada, non ha mai accettato di essere addomesticato e rifiuta il rapporto di sudditanza con gli umani. Chief è un cane libero, mentre Atari è un bambino abituato a dominare i cani e interagisce con loro da una posizione di comando. Ma l’incrollabile amore di Atari per il suo perduto cane Spots, che lo conduce a rischiare la vita sull’isola, genera un moto di tenerezza nel cane Chief, che dopo diversi atti di insubordinazione in una scena a mio avviso cruciale del film decide di riportare al piccolo Atari il bastone che gli ha tirato nel tentativo di addestrarlo. “Non lo faccio perchè me lo stai imponendo” dice Chief “ma perchè mi dispiace per te” trasformando così un rapporto gerarchico in un reciproca tensione di cura. Creando insomma l’unico rapporto tra diversi che contiene i germi di una trasformazione radicale dell’esistente: l’amicizia.
Così Anderson mette in fila diverse intuizioni interessanti: l’amicizia e la scelta empatica di prendersi cura dell’altro come superamento della paura del diverso ma anche della divisione gerarchica dei ruoli (o del lavoro); l’auto-organizzazione come unico antidoto allo stato di emergenza imposto dall’alto; la scienza come appiglio razionale contro lo stigma sociale del degrado e della malattia. In una canzone poco conosciuta di un gruppo indie italiano, I Cani, si parla dei film di Wes Anderson come favole in cui “i cattivi non sono cattivi davvero, e i buoni non sono buoni davvero”. Se la frase può funzionare anche per descrivere l’atmosfera dell’ultimo film animato del regista, funziona invece molto poco se applicata alla realtà. Dubito fortemente che molti cattivi del nostro tempo riusciranno a imparare a instaurare con i propri simili rapporti di amicizia profonda come quelli che hanno con gli animali. E per quanto riguarda noi, cani randagi, riuscire a vivere tra le macerie di una gigantesca Trash Island senza perdere la fiducia negli altri e costruendo forme di sopravvivenza solidale e collettiva, è ancora una sfida aperta.