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ITALIA
Viggiano. Dove la Madonna è nera come il petrolio
Da quando ospita il più grande impianto di estrazione di petrolio d’Europa lo chiamano il “paese dell’oro nero”. A Viggiano, in Basilicata, l’Eni è stata oggetto di denunce per disastro ambientale mentre la popolazione locale vive la contraddizione tra il diritto al lavoro e quello alla salute
È una tranquilla domenica mattina, i raggi del sole illuminano i tetti delle case di Viggiano. Siamo nel cuore dell’Appennino lucano, un paesaggio naturale da cartolina, vicino al santuario del Sacro Monte che ospita la statua della patrona della Basilicata, la Madonna Nera. Viggiano, a lungo conosciuto per il suo volto, è diventato il “paese dell’oro nero”. Dalla piazza del Comune si vedono in lontananza le montagne, ma nel cielo terso si alzano fumi neri. Sono i camini che svettano dal più grande impianto di estrazione di petrolio d’Europa, il Centro olio val d’Agri dell’Eni.
Nell’impianto lavorano alcune centinaia di dipendenti diretti e si calcola che siano circa duemilacinquecento i lavoratori delle ditte appaltatrici. Da quando è arrivato il petrolio, Viggiano si è arricchito. Il motore economico è quello delle royalties: dalla fine degli anni novanta l’Eni versa nelle casse comunali il 10% del valore del gas e del greggio prodotti a terra, circa 10 milioni di euro all’anno. Una cifra notevole per un paese di tremila abitanti. Questo succede perché nel territorio di Viggiano ci sono venti pozzi petroliferi, di più rispetto agli altri paesi lucani con attività estrattive. Siamo in una delle regioni più povere e isolate del Sud Italia, ma c’è un benessere diffuso, qui.
«Da venti anni qui c’è stato il miracolo, forse la nostra Madonna ha pensato finalmente a noi» – afferma un anziano che passeggia nella piazza del paese. «Ora non si emigra più, il petrolio ha dato lavoro ai nostri ragazzi». Una signora gli fa eco: «Ho due figli che lavorano al Centro oli, sono contenta che siano qui e non siano dovuti emigrare». E aggiunge che in passato i viggianesi erano un popolo di emigranti che cercavano lavoro in America e in Australia senza più fare ritorno. «Oggi in paese si vive bene, i miei figli hanno un buono stipendio». Le indichiamo i fumi dell’impianto petrolifero, lei ci interrompe e afferma: «Ogni tanto sale l’odore e la puzza, ma cosa ci possiamo fare? In fondo non possiamo avere tutto».
L’Eni è sotto processo in due cause per i disastri ambientali del 2016 e 2017: dai serbatoi di stoccaggio del Centro oli sono fuoriuscite 400 tonnellate di petrolio che hanno inquinato le terre e le acque per circa 26mila metri quadrati. Eni ha inizialmente negato e poi ammesso gli incidenti. E in quei due anni, per due volte, il Centro oli è stato posto sotto sequestro, le attività si sono fermate per alcuni mesi, a causa delle gravi violazioni sui protocolli ambientali.
Nonostante una certa riluttanza a parlare dell’argomento, un ragazzo che vuole restare anonimo racconta: «Sono rientrato qui, dopo aver tentato di lavorare fuori, ora sono assunto al Centro oli, mi sono sposato e ho fatto un mutuo per la casa». All’inquinamento non ci pensa. L’importante per lui è lavorare. «Non siamo mica a Chernobyl! Chi vive a Milano non ha lo stesso inquinamento?». Il ragazzo è contento del lavoro che fa, così come dei posti di lavoro creati dal Centro oli. Sono pochi quelli che sembrano pensare alle conseguenze negative. Per esempio l’inquinamento. «I viggianesi, con discorso semplicistico, dicono: “Spetta a noi valutare la pericolosità? No, se fosse inquinante sarebbe chiuso”», racconta Enzo Vinicio Alliegro, antropologo dell’Università Federico II di Napoli, autore del libro Il Totem Nero. Petrolio, sviluppo e conflitti in Basilicata, scritto dieci anni fa, presentato in settanta località diverse ma non a Viggiano. «C’è un rapporto di assuefazione, naturalizzazione, i figli lavorano con i padri nel comparto petrolifero. Molti ragazzi sospendono gli studi universitari per andare a lavorare all’Eni», continua Alliegro. «In un contesto di risorse limitate, il petrolio è diventato un grandissimo produttore di sogni e di soldi».
È dello stesso parere Camilla Nigro, presidente della sezione locale di Libera, l’associazione nazionale contro le mafie: «A Viggiano ci sono enormi interessi da difendere, e di conseguenza silenzi e omertà». Nel 2016 si è tenuto in Italia il referendum sulle trivellazioni per l’estrazione di gas e petrolio in mare con cui si chiedeva di non rinnovare le concessioni alle piattaforme a meno di 12 miglia nautiche dalla costa. Il quorum è stato raggiunto soltanto in Basilicata, tranne in val d’Agri, dove si temeva per i posti di lavoro legati agli impianti. «Il lavoro si è rivelato decisivo nel voto. Questo è sintomatico». Oggi, accanto al Centro oli, l’Eni ha in progetto di costruire un impianto di trattamento delle acque, dei fanghi e dei residui petroliferi, detto “Blue Water”, che preoccupa gli attivisti. «Vogliono trattare i fanghi in questa lavatrice delle acque, dicono che esce fuori acqua pulita che vorrebbero farci bere», racconta Camilla Nigro, che negli ultimi mesi ha partecipato a tante proteste contro il progetto.
Abbandonando il paese e scendendo a valle la segnaletica stradale indica la presenza dei pozzi e degli impianti petroliferi: si entra infatti nel cuore nero del più grande centro di estrazione petrolifera dell’Unione europea. Oggi la zona a ridosso del Centro oli è quasi disabitata. Le case sono vuote, con lucchetti ai cancelli. Sono pochi gli allevamenti di bovini ancora attivi. «Questa era una valle bellissima che viveva di agricoltura e allevamento da duemila anni. Nella val d’Agri abbiamo almeno cinque prodotti di origine controllata e indicazione geografica protetta ma oramai non li vuole più nessuno», spiega Giambattista Mele, medico di Viggiano e referente dell’associazione nazionale Medici per l’ambiente, che fa indagini sull’inquinamento e sulle conseguenze sulla salute degli abitanti. «Cosa pensano i viggianesi del petrolio? Tutto il bene possibile, l’importante è che si lavori. Per la gente di Viggiano viene prima il lavoro poi la salute», sostiene Mele, che nel settembre 2017 ha concluso una indagine epidemiologica coordinata da Fabrizio Bianchi del Consiglio nazionale delle ricerche di Pisa, da Gianluigi De Gennaro dell’Università di Bari e dal Dipartimento di epidemiologia del servizio sanitario della regione Lazio. Sono state esaminate le conseguenze dell’attività petrolifera nell’area di Viggiano su un campione di 200 persone. Lo studio ha evidenziato l’associazione tra i livelli di esposizione agli inquinanti e le patologie cardiorespiratorie nella popolazione. All’aumentare dell’esposizione alle emissioni del Centro oli aumenta il rischio di morte o di ricovero. A Viggiano l’eccesso di mortalità, rispetto al valore medio regionale, risulta statisticamente significativo (+11% per tutte le cause di mortalità per donne e uomini, +14% per le malattie del sistema circolatorio). Si registra inoltre un eccesso di mortalità per tumore del polmone per le donne. Tuttavia, secondo Mele, «il paese di Viggiano è stato quasi indifferente ai risultati di questa indagine».
Isabella Abate, presidente dell’Osservatorio popolare per la val d’Agri, che si impegna da anni per denunciare il disastro ambientale, racconta: «Nelle nostre case dove il tumore era una rarità, oggi si vede sempre di più, a vent’anni dall’inizio dell’estrazione del petrolio le condizioni sanitarie della popolazione sono molto cambiate». Ci ha dato appuntamento davanti al Centro oli, e pronuncia queste parole con lo sguardo rivolto ai cancelli, quasi in tono di sfida: «L’emergenza e il diritto al lavoro distruggono gli altri diritti che sono quelli alla salute, all’ambiente. La val d’Agri è l’emblema di come le multinazionali e i soldi possano condizionare qualsiasi settore della vita civile». Ci racconta che la Basilicata, come la Sardegna, era una delle regioni più longeve, dove le malattie cardiache o tumorali avevano un bassissimo impatto, e invece oggi sono all’ordine del giorno. E aggiunge, mentre la voce si incrina: «Abbiamo perso da poco anche una nostra associata».
Le ciminiere del Centro oli sputano fuori fumi neri. Il rumore dell’impianto è assordante. Alti cancelli con cartelli “area videosorvegliata”, via vai continuo di camion cisterna e numerose postazioni di sicurezza. Sembra di essere davanti a una zona militare. Nella valle i vigneti e gli uliveti sono secchi e abbandonati, la produzione è quasi interrotta. «I terreni sono deprezzati, nessuno vuole più acquistare i prodotti della zona, i residenti alla prima occasione hanno venduto terreni e case all’Eni» aggiunge Isabella Abate. «Sappiamo che al Centro oli la produzione sta già diminuendo, Eni sta grattando il fondo del barile». Infatti l’Eni ha chiesto il rinnovo della concessione petrolifera nella val d’Agri per dieci anni, anziché per trenta, poiché l’Europa ha in progetto di abbandonare i combustibili fossili – carbone e petrolio – entro il 2050. E se chiuderanno l’impianto «noi attivisti vigileremo sul territorio e staremo in guardia perché almeno sia fatta una bonifica seria».
SCHEDA: I “nonincidenti”
Camilla Nigro consulta tutti i giorni i dati della Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente della Basilicata (Arpab), tenendo sotto controllo i valori degli inquinanti. Da anni raccoglie in una lista i cosiddetti “nonincidenti”, quelli legati alle lavorazioni del Centro oli: fiammate, rumori anomali e assordanti, odori nauseabondi ed emissioni di gas velenosi, piccoli terremoti, inquinamenti del suolo, aria, acqua. A partire dal 2001 ci sono stati 143 “nonincidenti”, 110 soltanto negli ultimi otto anni, dal 2012 al 2019.
L’ultimo episodio rilevante è avvenuto lo scorso 4 maggio, quando si è verificata una fiammata anomala. L’Eni in una nota ha precisato che si è trattato della rottura di un compressore. Le centraline dell’Arpab hanno registrato alti livelli di inquinanti (idrocarburi non metano) nelle ore precedenti l’incidente, nonostante l’Eni avesse ridotto al minimo l’operatività dell’impianto per l’emergenza dovuta alla Covid-19.
Immagini di Silvia Pittoni