MONDO
Viaggio nella Siria confederale del Nord: tra guerra, lotta e rivoluzione femminista
DALLA DELEGAZIONE DI YABASTA BOLOGNA NELLA SIRIA CONFEDERALE DEL NORD
Il primo impatto del nostro viaggio è la frontiera, il confine e le barriere artificiali che il potere e gli Stati creano per dividerci. Siamo nel Kurdistan Iracheno e il fiume Tigri, oggi impetuoso sotto una pioggia intensa, ci divide dal Rojava.
Come tutti i confini ci troviamo di fronte un’umanità che in lunghe file aspetta il suo turno per entrare in Siria. Dall’altra parte del fiume la stessa immagine ma di chi si presta a fare il percorso inverso. Inizia così il primo nostro viaggio in Rojava. La guest house di Amuda, cittadina a mezz’ora da Qamishli, sarà la nostra base per i primi giorni.
Appena arrivati incontriamo subito la prima delegazione di internazionali rientrati da Shahbaa, un’area situata a pochi chilometri da Afrin che accoglie i civili in fuga dall’avanzata turca iniziata il 20 gennaio scorso. «La situazione è davvero drammatica e molto difficile», ci spiegano, «neppure nelle città di Raqqa o Aleppo abbiamo visto tanta brutalità. Le condizioni di vita sono quasi impossibili e le persone sono in uno stato di completo shock. La guerra siriana non aveva colpito questo territorio dove invece avevano trovato rifugio milioni di vittime di internal displacement che scappavano dalla Siria. Questo attacco è stato davvero un fulmine a ciel sereno».
«Siamo state le prime internazionali a entrare nel campo. La cosa che più ci ha colpito sono le condizioni dei bambini, senza possibilità di distrarsi dagli orrori della guerra che Erdoğan sta combattendo. È una vergogna per l’intera umanità quello che sta accadendo e nessuna delle grandi organizzazioni internazionali è intervenuta, dalle Nazioni Unite alle grandi ONG. Dove sono ora, come si può permettere che tutto questo accada in silenzio?». Tra un tè e un altro continuano a raccontarci che nel campo di Shahbaa viene praticata una vera e propria forma di resistenza: «Sono circa 180.000 le persone che sostano lì, in attesa di rientrare nelle proprie case ad Afrin. Non si illudono, sanno che è complicato ma non si vogliono spostare: sono determinati e vogliono rientrare nella loro città, nella loro terra».
Inizia così il nostro viaggio nella terra della rivoluzione: con la consapevolezza che la guerra è reale, crudele e devastante e molto più vicina di quanto si possa immaginare.
JINWAR- LA RIVOLUZIONE DELLE DONNE DEL ROJAVA NELLA PRATICA QUOTIDIANA
Al confine con la Turchia, nel cuore delle terre rivoluzionarie del Rojava, andiamo a conoscere un’esperienza di lotta, di autodeterminazione e di libertà: JINWAR.
Il nome è un gioco di parole tra “jin”, che in curdo vuol dire sia donna che vita, e “war”, che invece indica il doppio concetto di luogo e di casa. Il significato riflette bene l’atmosfera che si respira in questa comunità, abbracciando un nuovo modo di intendere la vita: la libertà della donna.
JIN WAR è un piccolo villaggio per sole donne nato da appena un anno e costruito su un terreno confiscato dopo il ripiegamento del regime siriano. Diverse associazioni di donne hanno costruito uno spazio in grado di creare una self-zone per potersi sentire sicure e libere all’interno di un percorso di autodeterminazione sviluppato in modo collettivo e comunitario.
Trenta case per sole donne, un frutteto e un orto biologico comunitario, una scuola per bambini e bambine, un’accademia per donne e uno spazio in cui incontrarsi per condividere saperi ed emozioni sono solo alcuni dei diversi progetti che stanno nascendo nel villaggio, progetti che prendono corpo in base alle esigenze e alle passioni delle donne che lo vivono.
Mentre visitiamo il villaggio ci raccontano come la costruzione di un forno è diventato un progetto che ha avuto la capacità di coinvolgere le donne dei villaggi vicini.
«Un momento di incontro nel quale condividere la passione per la cucina», ci racconta Nujbin, «È stato bellissimo, le donne dei villaggi circostanti hanno iniziato a relazionarsi con noi, prima per bere solo il tè, poi per socializzare e ora vengono a cucinare il loro pane, ad aiutare nel lavoro nei campi. Si sta costruendo una nuova socialità», continua a raccontarci, mentre spiega come vorrebbero creare un progetto volto alla riscoperta della medicina erboristica e recuperare la conoscenza e la storia delle vecchie sagge del luogo.
Jinwar è un villaggio ecologico che alla monocultura intensiva e all’utilizzo di fertilizzanti chimici risponde con il rimboscamento della zona, coltivazioni bio e case ecologiche costruite secondo metodi tradizionali del posto e usando solo materiali naturali.
La vita quotidiana scorre velocemente tra un lavoro e l’altro e ormai 21 delle 30 case complessive sono state già costruite, anche grazie all’aiuto degli uomini e donne dei villaggi circostanti.
JINWAR è un luogo per donne di qualsiasi età e provenienza: da chi scappa da matrimoni forzati a chi fugge da violenze domestiche, da chi vorrebbe avere la possibilità di studiare a coloro che sono rimaste vedove e magari con figli e cercano un posto sicuro nel quale poter vivere.
L’obiettivo vuole essere quello di offrire alle donne gli strumenti per rendersi indipendenti anche dal punto di vista economico, fornendo loro un’ulteriore possibilità per cambiare il proprio ruolo nella società e rompere ogni schema del patriarcato. Ed ecco dunque che quei frutteti, le verdure e il raccolto prodotto rappresentano anche la possibilità di avviare un percorso di cooperazione.
«La costruzione del villaggio non è ultimata», continua a raccontarci Nujin, «ma manca davvero molto poco!».
Continua quindi, giorno dopo giorno, la crescita di questo sogno divenuto realtà.
Le foto sono state realizzate dalla delegazione di Ya Basta Bologna