MONDO
Viaggio in Turchia, che succede dopo il referendum? Terza tappa
Intervista a Ramazan Türkmen (sindacalista del KESK) dopo l’esito del referendum costituzionale indetto da Erdogan
Come commentate i risultati del referendum? Dopo il voto che ha visto la vittoria del “sì” quali scenari aspettano la Turchia? C’è la possibilità di una nuova rivolta diffusa come successo per la difesa di Gezi Park?
“La maturità del diritto consiste nel suo riconoscimento ufficiale”. L’esattezza di questa frase, nel processo referendario vissuto, mostra due aspetti diversi. Di fatto il sistema presidenziale ha vinto legalmente, ma è uscito chiaramente allo scoperto l’utilizzo di vie illegali per riuscire a vincere la competizione elettorale. Se volessimo commentare i risultati apparentemente contraddittori sarebbe difficile farlo con un’altra frase.
Il risultato del referendum è il prodotto della legittimizzazione di pratiche illegali da parte del governo che va avanti ininterrottamente in Turchia da molto tempo. Da un altro punto di vista emerge ancora più chiaramente il ruolo della borghesia parlamentare.
Sia il MHP (Partito del movimento nazionalista) che il CHP (Partito repubblicano del popolo), anche se da posizioni diverse, portano acqua allo stesso mulino. Il MHP supportando il cambiamento della costituzione affermando, secondo una logica assurda, che bisognava trovare un quadro legislativo ad una situazione già di fatto mutata. Il CHP ricorrendo a vie legali per affermare le ragioni del fronte del No, cercando di avere un ruolo egemone al suo interno. Quelle stesse vie legali che hanno permesso la vittoria di Erdoğan. Lo scarto tra “sì” e “no” è stato molto risicato, ragion per cui possiamo dire che oggi la società sia divisa in due blocchi. Il fronte del no, appena diffusi i risultati, ha capito di dover iniziare ad affermare nelle strade le ragioni del proprio voto. Ma si è visto, sin da subito, nel tentativo messo in campo per alcuni giorni, che non era possibile intraprendere un’ azione comune tra le diverse forze politiche che avevano sostenuto il “no”. Non si sbaglia se si afferma che non si è riusciti a trovare il sostegno necessario sia per alcune azioni spontanee sia per manifestazioni organizzate, al di fuori di piccoli gruppi rappresentati essenzialmente dai promotori di esse. Non sembrano esserci possibilità di raggiungere un livello di mobilitazione pari a quello delle manifestazioni in difesa di Gezi Park. I partecipanti alle rivolte di Gezi presentano delle grosse differenze sia da un punto di vista individuale sia di visione collettiva. Le differenti opposizioni cercano di portare avanti ognuna la sua posizione, senza una reale capacità di coordinamento. In tal modo il cambiamento sociale resterà un desiderio romantico nelle nostre menti a causa della mancanza di volontà nel canalizzare tutte le forze sociali verso la sua attuazione.
La principale causa dell’impossibilità di praticare il cambiamento sociale è possibile ricercarla all’interno dell’attore più importante del fronte del no, il CHP, soprattutto nelle sue politiche attuali improntate nel segno della socialdemocrazia e non delle ragioni di classe.
La socialdemocrazia, tranne in qualche occasione straordinaria dovuta ad una fase di prosperità, dà voce ai movimenti del capitale. Quando ritornano i periodi di stagnazione economica la missione della socialdemocrazia vede la sua fine. Non bisogna collocare al di fuori di questa realtà la prassi politica del CHP durante il periodo referendario.
Una delle ragioni per cui non è partita una forte mobilitazione sta proprio nel fatto che il fronte del no fosse, per più del 50 %, sotto l’ala del CHP. Se le aspettative della stampa e gli interessi che formano questa leadership fossero stati diversi, oggi lo scenario che si presenterebbe davanti a noi sarebbe tutt’altro. Per questo motivo il CHP non è in grado di ottenere una vittoria elettorale, anzi è il più grande ostacolo per raggiungerla. La decisione di appellarsi al Consiglio Elettorale Supremo (YSK), contro la decisione che quest’ultimo aveva preso, è il segnale più evidente di tale realtà. Ogni formazione che si frappone al dinamismo rivoluzionario delle masse diventa un male incurabile per la lotta sociale. Non è possibile andare avanti se non si cura questo male. È ancoro vivo nelle nostre menti il ricordo del ruolo reazionario svolto da partiti come il CHP durante i momenti più duri di rivolta e di conflitto sociale, quali ad esempio la resistenza di Gezi Park. È triste constatare come i due principali partiti del Paese, sia quello al governo (AKP), che quello all’opposizione (CHP), anche se da posizioni diverse e apparentemente contrastanti, spingano entrambi verso la completa pacificazione sociale. La ricerca esclusiva della via legale per opporsi al risultato referendario ha dimostrato quanto il CHP sia distante dai desideri delle masse e non voglia che queste scendano in strada a manifestare il loro dissenso. Ma d’altronde un partito capitalista come potrebbe fare qualcosa contraria al ruolo che gli è stato assegnato dai rappresentati del grande capitale? In tal senso quanto suona ridicola la proposta di boicottare solo i grandi imprenditori che hanno sostenuto il sì…
Ad ogni modo il capitalismo è in forte crisi non solo in Turhcia, ma in tutto il mondo. Segno tangibile di questa crisi è la veloce crescita dei partiti di destra. Ormai al capitalismo per fronteggiare questa crisi è rimasta solo una cosa: un attacco violento senza precedenti alla classe operaia.
Alla luce di ciò, cosa dovrebbero fare oggi in Turchia le organizzazioni sindacali e di sinistra?
Nel commentare i risultati del referendum molte organizzazioni politiche e sindacali non hanno dato l’importanza che merita all’annunciata manovra economica che va sotto il titolo di “Documento della strategia occupazionale nazionale”, un vero e proprio attacco alla classe operaia. Prima del conteggio dei voti, la notizia dell’alienazione del fondo della previdenza sociale non ha cambiato l’agenda politica. Le difficoltà del sistema di assistenza sociale rappresentano il vicolo cieco in cui si trova il capitalismo. Il sistema pensionistico individuale, l’alienazione del fondo di previdenza sociale, l’eliminazione della sicurezza sul lavoro, l’abuso di forme lavorative legate al sistema degli appalti e dei subappalti, la flessibilità spacciata come risoluzione dell’insicurezza sociale e lavorativa, sono solo alcune delle disastrose manovre presenti nel documento menzionato in precedenza. Le vittorie delle lotte della classe operaia della Turchia (ed in generale della classe operaia internazionale), e cioè la conquista dei cosiddetti “diritti sociali”, vengono eliminate progressivamente. Non c’è dubbio che l’attacco più intenso sarà rivolto ad una rimodulazione della giornata lavorativa e al processo produttivo che in essa si applica. L’estensione dell’orario di lavoro, tramite il tentativo di allungare sempre di più la giornata lavorativa, oltre le normali condizioni attuali, aumenterà lo sfruttamento. In tal modo, oltrepassando questo confine, sarà completata la trasformazione della depredazione del lavoro. Sappiamo che esiste questa possibilità. I disoccupati, industria di riserva rende possibile l’attuazione di tali misure, sono alimentati sia dall’estensione della giornata lavorativa, sia dal tentativo di abbassare i salari. Questa industria di riserva ha giocato un ruolo importante anche durante il processo referendario, diventando la ciambella di salvataggio dei capitalisti che l’alimentano. Nella lotta per la sopravvivenza chi è senza lavoro è maggiormente ricattabile. Ben consapevoli di ciò i padroni ne approfittano e molti, accettando questa cosa per sopravvivere, hanno ripagato la loro riconoscenza votando per il “sì”.
Il no, infatti, ha vinto, oltre che nelle regioni a maggioranza curda, anche in quelle in cui il capitalismo è maggiormente sviluppato. Nelle regioni in cui è molto forte la presenza della classe operaia ha vinto il no perché le masse hanno votato contro la perdita di diritti, la crisi economica e le paure concrete per il proprio futuro. Nelle regioni in cui ha vinto il sì ovviamente ci sono lavoratori anche lì, ma sono zone maggiormente rurali, in cui la contraddizione tra capitale e lavoro è meno profonda. Allora quale deve essere l’intervento anche in quelle zone, visto che l’attacco al potere del capitale non può venire solo da una parte circoscritta?
Il compito della sinistra e dei sindacati deve essere il radicamento tra le masse popolari anche nelle zone in cui ha vinto il sì, come ad esempio la regione di Bursa e quella di Kocaeli, dove, comunque, c’è un’importante presenza della classe operaia. In queste regioni è successa una cosa a cui dobbiamo prestare molta attenzione. Nonostante siano state aree attraversate da scioperi e manifestazioni, come quelle degli operai metalmeccanini, poi, però, nelle urne il risultato non è andato secondo le aspettative, con l’affermazione del sì. Non è possibile spiegare quanto successo appellandosi solo alla paura e alla repressione. Quando si commenta il periodo che stiamo vivendo focalizzandosi solo sui temi dell’ambizione individualista, dell’oscurantismo religioso, del neo ottomanesimo, inevitabilmente questa prassi discorsiva influenza anche le pratiche di lotta. Il modo giusto di valutare gli eventi che viviamo si basa, invece, sull’affermare che la crisi del capitalismo avanza sempre più, è irreversibile, e quindi bisogna dotarsi dei mezzi e delle strategie politiche adatte per contrastare l’attacco generalizzato del capitale alle condizioni di vita degli oppressi. Il fulcro della nostra battaglia deve essere l’unità internazionale dei lavoratori e la lotta di classe.
Come ultima cosa vorrei mandare i saluti della classe operaia della Turchia alla classe operaia d’Italia.
Le due interviste precedenti
• Viaggio in Turchia, che succede dopo il referendum? Prima tappa
• Viaggio in Turchia, che succede dopo il referendum? Seconda tappa