MONDO
Verso Sinjar #4. La sera del villaggio
Dopo aver battuto e combattuto l’Isis, la comunità ezida nel nord-ovest iracheno deve fare i conti con un territorio distrutto e con un tessuto sociale ormai smembrato. Le condizioni economiche sono difficili, ma il tentativo di costruzione di un’autonomia politica lascia intravvedere un po’ di speranza
Al calar della sera, rimangono poche luci accese a Xanasor. Nella regione ezida del Sinjar, nord-ovest dell’Iraq, l’elettricità arriva nelle case quasi solo grazie ai generatori di corrente: per le strade di villaggio sterrate il tramonto porta un buio di tomba, mentre lungo qualche “vialetto” esistono piccoli chioschi e negozi che si attardano a spegnere, locali improvvisati sui tetti dove fumare la shisha, lampioni e fari di automobile a illuminare flebilmente i marciapiedi.
Siamo in una zona “povera”. Da qui, il traffico incessante e il profilo dei grattacieli di Erbil – capitale dell’autonomia curda in Iraq – appaiono ancor più distanti dei duecento chilometri che pur li dividono da Sinjar: niente centri commerciali o ristoranti, poche vie asfaltate, macerie ancora ben visibili dentro lo sfilacciato tessuto urbano.
Già prima del massacro compiuto dall’Isis, le zone della piana di Ninive e di Sinjar erano fra le meno produttive del paese dal punto di vista economico. La comunità ezida viveva principalmente di agricoltura, in un contesto comunque reso difficile da un alto livello di insicurezza (secondo un report dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazione, nel 2009 quello di Ninive era «il governatorato più pericoloso dell’Iraq»).
Poi, l’occupazione da parte dello Stato Islamico – fra il 2014 e il 2015, ma che per alcuni villaggi si è estesa fino al 2017 – non ha certo aiutato: sempre secondo l’Oim, «l’Isis ha ridotto del 40% la capacità di produzione agricola del paese».
Dopo aver sfruttato a proprio vantaggio campi e risorse del luogo, nonché aver posto in maniera strategica sotto il proprio controllo gli approvvigionamenti d’acqua, al momento di battere in ritirata i fondamentalisti islamici hanno distrutto infrastrutture, danneggiato terre e raccolti, lasciando dietro a sé morti e devastazione.
Eppure, nella scarsa luce della sera, ezidi ed ezide sembrano conservare una voglia di riunirsi, di andare avanti nonostante quello che è successo. «Tutti sanno che siete qui», ci dice con un sorriso un ragazzo, aria adolescenziale, che incontriamo per caso vicino a uno dei pochi parchetti curati del villaggio di Xanasor. «Noi vi diamo il benvenuto, perché vogliamo che raccontiate la realtà di questo posto. Il governo non vuole che si veda quello che c’è qui». Ci accompagna per i pochi negozi ancora aperti a cercare degli oggetti, ci offre qualcosa da bere. Il giardinetto di fronte accoglie bambini e bambine che giocano, famiglie a passeggio.
Gli aloni dell’illuminazione stradale assumono tinte calde e accese. Dalle terrazze, alcuni sbuffi di fumo che si disperdono nell’aria.
È evidente come il genocidio del 2014 stia lasciando tracce indelebili presso la comunità ezida. Lo dimostrano, per esempio, alcuni studi riportati sulla rivista “Science” da Emily Underwood, che nell’articolo Surviving genocide: Storytelling and ritual help communities heal scriveva: «Stando a un’indagine del 2016 condotta con 38 minori (ezidi, ndr) in un campo profughi turco, tutti i bambini e tutte le bambine presenti erano affetti da almeno un problema psichiatrico, con disturbi del sonno e depressione fra i più frequenti. In un’altra indagine dello stesso anno condotta con 238 adulti ezidi che erano appena arrivati in un campo turco, almeno il 40% mostrava sintomi compatibili con una diagnosi di depressione o disturbo da stress post-traumatico».
Il ritorno nelle proprie terre è difficile, ostacolato da condizioni poco favorevoli. Come accennavamo, l’Isis ha compiuto veri e propri saccheggi e devastazioni nella regione: secondo quanto riportato dall’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, a Sinjar e nelle zone circostanti, i fondamentalisti «hanno distrutto l’80% delle infrastrutture pubbliche e il 70% delle abitazioni civili, così come molti luoghi di culto».
Lo Yezidi Rescue Office, situato nel Kurdistan iracheno, ha reso pubblico a febbraio di quest’anno che nell’area sono state trovate sino a ora almeno 82 fosse comuni, oltre al resto delle tombe individuali.
Inoltre, il numero di ezidi ed ezide rapiti dall’Isis ammonta a 6417 (3548 femmine, 2869 maschi), mentre ci sono ancora 2768 persone appartenenti alla popolazione del Sinjar di cui non si conosce il destino. In più, sussiste la delicata questione delle donne ezide schiavizzate e violentate dai membri dello Stato Islamico che sono rimaste incinte e cercano di far rientro nella comunità.
L’autonomia del Sinjar è nata dopo il 2014, abbracciando i principi del confederalismo democratico per fare in modo che – come afferma lo stesso Consiglio Autonomo della regione – «non accada più nulla del genere». Sono state istituite un’assemblea popolare con le sue sotto-diramazioni e due unità di autodifesa indipendenti, per proteggere la regione dagli attacchi esterni e per mantenere l’ordine pubblico.
Ma, al momento, uno dei maggiori “nemici” della comunità ezida è rappresentato forse dalle “ferite” interne: mancanza di opportunità lavorative, scarse risorse e infrastrutture, difficoltà a costruire un futuro in un contesto dove una grossissima fetta di popolazione è stata uccisa o è scomparsa.
«Le ragazze che riescono a scappare dall’Isis tornano distrutte dal punto di vista psicologico», ci raccontano membri del movimento per la libertà delle donne Taje, associazione ezida che si occupa appunto di fornire supporto alle sopravvissute e a quante si trovano in situazioni di prevaricazione e violenza. «È difficile aiutarle a rielaborare il dolore subito e far sì che possano reintegrarsi nel contesto sociale. Ma vederle acquisire nuovamente un po’ di felicità è per noi qualcosa di grande, di importante».
Tuttavia – stando almeno a quanto spiega l’associazione stessa – non ci sono percorsi psicologici specifici: l’assistenza alle donne sopravvissute è imperniata soprattutto sull’ascolto e sul dialogo oltre che sull’apprendimento di un mestiere, che potrebbe poi costituire un’opportunità di indipendenza economica.
«Le famiglie sono completamente smembrate», incalzano anche i mukhtar (“capi villaggio”) della zona, descrivendo la condizione di ezidi ed ezide più in generale.
«Ci sono persone ferme da ormai sette anni nei campi profughi, che non riescono a tornare perché magari non hanno le risorse o vengono ostacolate dal governo. In questo modo, la nostra identità viene uccisa piano piano».
Non dissimile, allora, è lo stato d’animo dei e delle giovani: «Il genocidio è stato vissuto molto intensamente dalle persone della nostra età», racconta un funzionario preposto dal Consiglio Autonomo a occuparsi appunto della situazione giovanile. «Ma anche per quanto riguarda il presente, spesso c’è molta disperazione nel vedere che le cose non cambiano. Fra Turchia, autorità centrale e curdi di Barzani, siamo ancora attaccati da tutti i lati».
Già nel 2011, un’altra indagine dell’Oim rilevava un alto numero di suicidi e tentati suicidi fra ezidi ed ezide che avevano fra i 18 e i 23 anni. Un alto numero causato soprattutto da «fattori sociali e culturali», tra i quali «le minacce di essere espropriati della propria abitazione, i prezzi degli affitti, [la mancanza] di un ambiente sicuro per i propri figli, della possibilità di praticare la propria religione in libertà, di strutture per la salute mentale».
In poche parole, l’emarginazione subita dalla comunità ezida era motivo di sconforto e difficoltà ben prima del genocidio dell’Isis. «Sono stati costretti a vivere come fossero pellerossa nelle riserve», sostiene con una punta di rammarico la persona che ci guida nella regione del Sinjar. «La povertà diventa un ricatto: per soldi, c’è chi decide di servire per l’esercito iracheno oppure di accettare lavori umilianti».
Il “rovescio” dell’emarginazione, allora, non può che essere costituito dal progetto di autonomia e autodifesa che il popolo ezida sta provando a mettere in campo.
Acquisire una maggiore indipendenza dallo stato iracheno e dalle autorità regionali è un primo passo da compiere. Il secondo, invece, sarà garantire tutele e possibilità di sviluppo a una società stremate e pesantemente colpita da violenze, soprusi, difficoltà economiche.
Lo spirito delle persone che “affollano” la sera di Xanasor infonde speranza. E l’obiettivo, agli occhi della stessa comunità, sembra essere molto chiaro: «Abbiamo di fronte a noi una sola alternativa», dicono i mukhtar dei villaggi. «O ci conquistiamo i nostri diritti, o verremo eliminati».
Tutte le immagini di Francesco Brusa