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Venezia 5/ Sguardi dal mondo arabo
A testimonianza del crescente interesse verso le filmografie esterne al mondo Occidentale, all’interno del programma del Festival di Venezia di quest’anno hanno avuto una certa rilevanza varie pellicole provenienti da Vicino Oriente e Nordafrica. Tra questioni di genere, sociali e politiche vediamo le direttive generali del cinema di matrice araba di quest’anno
In realtà, usare l’etichetta di “cinema arabo” sarebbe impreciso e fuorviante, in quanto interseca nel pensiero comune l’identità etnica con quella religiosa (l’umma islamica), ma ahimè necessaria all’individuazione di un soggetto dai contorni più fumosi di quanto non possa sembrare. Lo stesso discorso su quella che potrebbe essere erroneamente intesa come una vera e propria scuola di cinema non sta ad indicare la presenza di unità o programmaticità artistica formalmente condivisa, bensì mera appartenenza macrogeografica e parziale comunanza di influenze culturali, derivanti sia dal sostrato che dalla contemporaneità, dei suoi esponenti. Ad uno sguardo superficiale il fil rouge sembra essere unicamente l’uso della lingua araba; questa ricorre però nelle sue molteplici varianti diatopiche – spesso mutualmente inintelligibili – ed in continuo dialogo con le varie eredità linguistiche coloniali (inglese e francese soprattutto). L’attenzione va spostata piuttosto sui temi, affrontati tramite strategie formali anche radicalmente differenti: si rileva così un’urgenza narrativa in ultima analisi traente forza dai molteplici discorsi contemporanei relativi al rapporto con la tradizione e con il patriarcato e all’interesse induttivo nel descrivere gli effetti della guerra e dell’instabilità politica e sociale usando come mezzo esplicativo le vite dei singoli.
Una selezione particolarmente interessante dunque, che riesce a guardare anche al di fuori dell’asse Egitto/Libano (i due Paesi dalla produzione cinematografica storicamente più consistente in termini di qualità e quantità) dando invece spazio a una molteplicità di voci – in svariati casi, ai primi esordi – da vari angoli del Vicino Oriente e Nordafrica.
Lo vediamo bene nel tunisino Nouri Bouzid, che con Les Épouvantails vuole parlare in primo luogo ai suoi connazionali inscenando un crudo dramma al femminile dal forte sottotesto politico. La storia delle due ventenni Zina e Djo, di ritorno dal fronte siriano dove sono state prima condotte con l’inganno e poi seviziate e usate per soddisfare le esigenze sessuali dei combattenti di Daesh, si intreccia con quella dell’avvocato Nadia, desiderosa di aiutarle a riconquistare la vita che è stata loro tolta. Il tema della Jihād sessuale (intesa come concessione del proprio corpo ai jihadisti ricompensata con l’avvicinamento ad Allah, distorsione ideologica propria della maschera religiosa delle frange terroristiche dell’ISIS) è qui affrontato senza fronzoli, restituendo la complessità di due personaggi vittime – per quanto non automaticamente assolte – prodotte da un ambiente incapace di comprendere e tollerare la richiesta di autonomia del femminile. Una sceneggiatura a tratti confusa e alcune scelte registiche goffe non inficiano eccessivamente l’importanza sociale del film di Bouzid, che tramite gli occhi degli intoccabili (a fianco delle due donne troviamo anche Driss, giovane omosessuale emarginato che stringerà un intricato rapporto di amicizia con Zina) racconta l’ingiustizia e le contraddizioni di un sistema patriarcale che continua a farsi prevaricatore e machista.
Le figure di Maryam – The Perfect Candidate, Saifaa al-Mansour – e Hayat – Scales/Sayidat al Bahr (“la Signora del Mare”), Shahad Ameen – ci parlano della ricerca di rivalsa della donna contro le disparità di genere. Le vicende delle due donne si collocano in due differenti universi. Per la prima il confronto con la contemporaneità avviene tramite un piccolo ospedale di un villaggio dell’Arabia Saudita dove lavora come dottoressa, senza ricevere i riconoscimenti professionali che meriterebbe a causa del suo essere donna: una serie di confronti sempre più accesi con la realtà maschilista che la circonda la trascineranno verso la conquista a piccoli passi di un dialogo paziente ma determinato con gli oppressori. In Sayidat al Bahr invece, l’ucronìa del bianco e nero immerge le brulle insenature del Musandam, estremità settentrionale dell’Oman dove il film è girato, in un’allegoria fantasy paradossalmente attuale. Hayat è una adolescente che vive in un povero villaggio di pescatori dove, secondo un rituale tradizionale, ogni famiglia deve sacrificare la propria figlia femmina alle creature del mare, cacciate a loro volta dagli uomini del villaggio come fonte di cibo. Salvata dal padre che si rifiuta di sacrificarla, Hayat cerca di riscattare la sua posizione di marginalità dimostrando il suo valore pari – se non superiore – ai coetanei dell’altro sesso. Se Maryam però risolve il suo conflitto con la società accettando (con un velo d’amarezza da parte dello spettatore) una sorta di mitigata subalterità, Hayat riesce a divenire strumento di salvezza per quella comunità che tanto la disprezzava. Due messaggi ben diversi che portano la Signora del Mare ad essere più memorabile della prima.
A richiamare le stesse atmosfere fantastiche di Sayidat al Bahr vediamo anche You Will Die at 20 del sudanese Amjad Abu Alala (meritato vincitore del Leone d’Oro per il Futuro). Con un Islam mistico e sincretico sullo sfondo, Muzamil, vittima di una funesta predizione che lo vedrà passare a miglior vita una volta compiuti i 20 anni, cerca di sopravvivere alla cieca pressione sociale poste dalla superstizione e dall’ignoranza: un’intensa chiamata alla presa di coscienza contro il rigido tradizionalismo conservatore in cui vi è sempre rischio di incappare.
Vediamo in ultimo le ripercussioni delle guerre tra entità genericamente “altre” su singole storie di vittime prive di colpa, aventi l’unica colpa di essersi trovate nel posto sbagliato al momento sbagliato. All This Victory/Jeedar al Sot (“il muro del suono”), di Ahmad Ghossein, ispirato da un fatto di cronaca relativo al conflitto libano-israeliano del 2006, racconta l’angoscioso incubo di cinque libanesi intrappolati in un’abitazione nel mezzo di un conflitto armato tra israeliani e milizie ribelli. L’adozione totale del punto di vista dei terrorizzati prigionieri – per cui lo spettatore non vedrà mai i volti dei soldati israeliani insediatisi al piano superiore né avrà modo di prevedere quando cadrà la prossima bomba, in un crescendo di ansia ben congeniato – aggiunge un punto di vista originale alle molteplici narrazioni sul tema e decisamente coinvolgente, anche grazie ad un setting claustrofobico e ad inquadrature serrate che sembrano tagliare continuamente ogni via di fuga ai protagonisti. Il nemico perde progressivamente importanza, mentre la futilità di guerre combattute sempre sulla pelle di chi il conflitto non l’ha mai cercato prende possesso della narrazione. Rimangono solo cumuli di macerie, a cui il personaggio principale Marwan è ancora una volta inchiodato da una superimposta panoramica.
Tutte queste pellicole restituiscono l’occhio di registi cosmopoliti e di valore internazionale, tutt’altro che intimoriti dal ricevere suggestioni dalla filmografia occidentale o dallo sperimentare in rapporto dialettico con le loro molteplici identità, e che riescono a problematizzare lo sguardo orientalista, soverchiato dalla creazione di solidi punti di vista interni ai sistemi culturali d’appartenenza.