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Venezia 2/ La prima settimana del concorso

Da Polanski a Baumbach, da Brad Pitt su Nettuno fino al raggaeton di Larraín: tempo di fare i primi bilanci alla Mostra del cinema di Venezia, dove il concorso, al giro di boa della seconda settimana, ha già proposto titoli di grande interesse. Abbiamo messo i film che abbiamo preferito in questi primi giorni nelle sale del Lido

Si chiude la prima settimana della 76a “Mostra del cinema di Venezia” e la sensazione è che il meglio sia già passato. Speriamo che non sia così, anche se è innegabile che i primi giorni del concorso hanno mostrato un livello complessivo molto alto e numerosi film importanti.

Tentiamo allora di fare un riepilogo di quanto abbiamo visto e di trarre un primo, provvisorio bilancio. A inaugurare il festival  è stato La vérité, prima opera occidentale dell’acclamato regista giapponese Kore’eda Hirokazu, palma d’oro a Cannes 2018 per Un affare di famiglia. Tutto ruota intorno a Fabienne, anziana attrice francese (ottimamente interpretata da Catherine Deneuve) che, appena pubblicata la sua autobiografia, riceve la visita della figlia Lumir (Juliette Binoche), del genero americano Hank (Ethan Hawke) e della nipotina Charlotte. La convivenza fa emergere l’irresolutezza del rapporto tra madre e figlia e mette alla prova tutte le relazioni che dovrebbero tenere unito il nucleo familiare. Riecheggia un interrogativo di fondo, già presente in Un affare di famiglia: contano di più i legami di sangue o quelli d’amore, in questo caso rappresentati dalla figura sfumata ed eterea di un’amica di Fabienne, tale Sarah, morta prematuramente, che forse è stata per Lumir la vera figura materna? Kore’eda, in questa trasferta europea, mantiene un tratto fondamentale del suo cinema, la leggerezza, quel tocco unico e lieve che consolida l’impressione di un film sussurrato e ricco di piccole sfumature. Tuttavia, al contrario dei film precedenti (si pensi, oltre ai già citati, ad After the Storm, del 2016), questo debutto europeo sembra aprire troppi fronti tematici, non tutti raccolti ed esauriti con una soddisfacente chiarezza, in una struttura drammaturgica che non decolla mai davvero.

 

 

Il bello di un festival sta anche nei contrasti e nelle apparenti contraddizioni: così il secondo giorno sono transitati sul Red Carpet veneziano, uno dopo l’altro, due volti opposti dell’industria cinematografica americana, prima quello controverso di Netflix, che ha prodotto e distribuirà A Marriage Story di Noah Baumbach, e che ha schierato sul tappeto rosso Adam Driver e Scarlet Johansson, e poi la 20th Century Fox, con il cast del kolossal d’autore Ad Astra, firmato da James Gray e capitanato da Brad Pitt.

Partiamo dal primo, che si intitola Storia di un matrimonio, ma che in realtà racconta un divorzio: quello di Charlie, regista teatrale newyorkese, e di Nicole, prima attrice della compagnia del marito, trasferitasi da Los Angeles a New York per amore, quell’amore di cui per entrambi è stato impossibile prendersi cura, tanto che è stato soffocato dalle incomprensioni, dalle frustrazioni e dalla quotidianità. Per tre quarti di film Baumbach costruisce una sua personale fenomenologia della fine dell’amore, scindendo il racconto in due binari paralleli: da un lato c’è l’interazione diretta di Charlie e Nicole, civile e rispettosa, ma anche un po’ contratta, come se i due non fossero più in grado di comunicarsi veramente; dall’altro, ci sono gli avvocati a cui si rivolgono “perché si fa così” (gli strepitosi Laura Dern, Alan Alda e Ray Liotta) che vomitano progressivamente l’uno addosso agli altri quello che i due non riescono a dirsi. Baumbach sembra individuare in questa comunicazione scissa la drammatica faglia che separa i due ex-amanti, uno spazio incolmabile che distanzia ciò che i due provano da come il mondo circostante si aspetta che siano. Solo quando i due piani si ricongiungono e gli ex-coniugi, a colloquio privato, riescono finalmente a scontrarsi in modo violento e aperto, l’interazione tra Nicole e Charlie si libera dall’opprimente giogo del non-detto. Per 136 minuti si ride e si piange, in quello che, a oggi, è indubbiamente il film più maturo e riuscito della carriera di Baumbach, sorretto dalle eccezionali performance di Scarlett Johansson e Adam Driver, letteralmente in stato di grazia. Sarà su Netflix a dicembre e sarà uno dei film da non perdere di questa stagione.

 

 

Sarà invece al cinema il 26 settembre Ad Astra di James Gray, film attesissimo e più volte rimandato nei mesi scorsi, che ha diviso in modo piuttosto netto i critici presenti al Lido. Brad Pitt veste i panni di Roy McBride, astronauta famoso per la sua freddezza da androide: sotto stress, il suo ritmo cardiaco non supera gli 80 battiti. Roy, però, è anche palesemente anaffettivo, ha un matrimonio fallito alle spalle, non ha mai voluto figli e suo padre è scomparso nello spazio 16 anni prima, vicino a Nettuno, mentre cercava forme di vita intelligenti. A decine di migliaia di chilometri dalla Terra, Roy si sente bene perché non (si) sente più se stesso. Mentre è a manutenere un’antenna spaziale nell’esosfera, una tempesta elettrica di provenienza imperscrutabile attraversa il sistema solare, causando danni, morti e feriti sulla Terra e facendolo cadere vertiginosamente per centinaia di chilometri. Roy si salva, ma qualcosa di più profondo si è rotto: dall’alto delle sue certezze è precipitato nell’abisso del dubbio. Più simbolico che realistico è il viaggio che lo attende, per comprendere i motivi di quella tempesta destabilizzante, la cui origine è stata individuata, guarda caso, nei pressi di Nettuno. Le autorità suppongono si tratti del padre, che non sarebbe morto ma, fuori di sé, starebbe nei pressi del pianeta più remoto del sistema solare. Come in Cuore di tenebra e quindi in Apocalypse Now, Roy inizia un viaggio volto a “terminare” l’antica missione, ma è chiaro che per Roy è giunto il momento di affrontare il trauma dell’assenza del genitore e soprattutto di cercare di farsene qualcosa. Proprio come l’Africa coloniale del romanzo di Conrad e la giungla di Coppola, lo spazio di Gray è tutt’altro che asettico, anzi è fortemente “umanizzato” e rispecchia la follia distruttiva dell’uomo: la Luna, ad esempio, che non ha confini precisi, è per metà luogo di scontri e di pirati, per metà coperta da fast food e centri commerciali, mentre Marte è sede di basi sotterrane e giochi di potere. Anche Roy, come Willard di Conrad e Coppola, in questo percorso simbolico, viene rincorso dalle proprie ossessioni e dai propri traumi, tanto che Gray spinge il film deliberatamente lontano da qualsiasi forma di realismo, e lo orienta verso la dimensione simbolica e metaforica. Accompagnato dal voice over “malickiano” di Pitt, intervallato da frammenti onirici e ricordi stranianti, caratterizzato dalla consueta, seducente lentezza dei film di Gray, Ad Astra è un film potente, un’esperienza, però, che si tiene ben lontana dalla pancia e appaga più intellettualmente che emotivamente, a patto, ovviamente, di concedere alla trama di sacrificare un po’ di coerenza.

 

 

Tra i film che hanno messo d’accordo tutti c’è J’accuse di Roman Polanski, ampiamente anticipato da una serie di polemiche inevitabili. Il regista polacco, come è noto, è stato condannato per stupro negli Stati Uniti nel 1978 ma, dopo aver ammesso le sue responsabilità e poco prima della sentenza, è scappato in Europa e non ha fatto più ritorno in America. I selezionatori di Venezia 76 hanno deciso di accogliere in concorso il suo ultimo film, ma lo hanno fatto nello stesso anno in cui, a presiedere la giuria, hanno chiamato la bravissima regista argentina Lucrecia Martel, che non è solo un’artista raffinata e originale, ma anche una cineasta da sempre schierata in prima linea nella battaglia per i diritti delle donne, in America Latina e in tutto il mondo, e contro il maschilismo imperante nell’industria cinematografica. Nella conferenza stampa d’apertura Lucrecia Martel ha espresso il suo comprensibile disagio, annunciando che avrebbe visto il film di Polanski in una proiezione minore e non a quella di gala, nella quale si sarebbe sentita costretta ad alzarsi e applaudire; ha però precisato, cosa che forse non è stata sottolineata a sufficienza, che avrebbe giudicato il film con lo sguardo obiettivo che deve avere una presidente di giuria. Ovviamente, sono arrivate comunque le minacce di ritiro da parte di Luca Barbareschi, che il film ha co-prodotto, invettive contro la regista argentina o contro i selezionatori, polemiche a non finire e varie uscite inopportune. A placare la tempesta ci ha pensato il film, una ripresa, a oltre un secolo di distanza dai fatti, dell’affaire Dreyfus, il più imbarazzante scandalo antisemita in cui sia incappata la Francia nella sua storia, riletto attraverso il romanzo An Officer and a Spy di Robert Harris, già autore del testo alla base di un altro film di Polanski, The Ghost Writer. L’affaire Dreyfus è innanzitutto il calvario di un uomo perseguitato dal sistema – e qui è stata operata da più parti un’altra sciocca distorsione, sulla spinta però di un’inaccettabile dichiarazione dello stesso Polanski presente nel press kit, che ha invitato a creare un parallelismo tra l’ufficiale francese e se stesso. Polanski, però, si dimentica di una sostanziale differenza, cioè che, a differenza di Dreyfus, totalmente estraneo ai fatti che gli venivano imputati, egli fugge da una colpevolezza accertata che ha egli stesso ammesso. Meglio togliere subito, quindi, le lenti dell’autobiografismo e cercare altrove l’attualità di quest’opera di livello altissimo, che risiede nella presenza, allora come oggi, di un sistema socio-politico autoritario, che ha bisogno di alimentare fobie razziali per gettare capri espiatori in pasto alle folle e distrarle dai veri problemi che le affliggono. Polanski relega in secondo piano Dreyfus (Louis Garrel) e si concentra su Picquard (Jean Dujardin), un militare da poco promosso a capo dei servizi segreti, che – pur non provando simpatia per gli ebrei – quando scopre che le prove a carico di Dreyfus sono nel migliore dei casi inconsistenti e che il traditore sarebbe un altro, un certo Esterhazy, segue in modo quasi ossessivo il proprio senso morale, scontrandosi però con un meccanismo omertoso e bugiardo. Polanski costruisce il film come un legal thriller classico, elegante, impeccabile, formalmente eccelso che, al netto di polemiche e casi a orologeria, sarebbe naturale considerare tra i favoriti per il successo finale.

 

 

Tra gli aspetti della selezione veneziana che maggiormente sono saltati agli occhi al momento dell’annuncio c’era sicuramente la presenza in concorso di un cinecomics, cioè Joker, diretto da Todd Phillips e concepito come una scossa violenta all’asfittico universo DC, grazie a un approccio iperrealistico totalmente nuovo per il genere. Com’è questo stand alone dedicato al più celebre antagonista di Batman? Sicuramente divertente, scritto e girato bene e interpretato alla grande dal solito, eccessivo Joaquin Phoenix, anche se certamente non innovativo nella rappresentazione del male che nasce dall’emarginazione e dalla rabbia. Forse, da Todd Phillips, regista della saga di Una notte da leoni, non era lecito aspettarsi di più. Due aspetti però lo rendono particolarmente interessante: Gotham City, solitamente dipinta come la metropoli decadente di un futuro distopico, viene fatta coincidere spazio-temporalmente con lo scenario infernale della New York anni ‘70, quella brutale e malata del sindaco Abraham Beame, del Son of Sam e di Taxi Driver e Mean Streets. In secondo luogo, è spiazzante il rovesciamento di alcuni aspetti fino a oggi scontati della mitologia di Batman, come la figura di Thomas Wayne, il filantropo magnate padre di Bruce che qui è tutt’altro che uno stinco di santo, anche lui corroso dall’aria malefica e irrespirabile di Gotham. Intuizioni forti, anche se al di là del look & feel, Phillips non pare in grado di farsene qualcosa di più.

 

 

Altro film attesissimo era Ema, di Pablo Larraín, regista cileno di grande talento che nel 2016 ci aveva regalato due biopic strepitosi come Neruda e Jackie. Il titolo di questo suo nuovo film è il nome del personaggio principale – interpretato dall’esordiente e sbalorditiva Mariana Di Girolamo – che è una danzatrice che vive con il suo coreografo Gastón, interpretato da Gael García Bernal, e con il quale ha prima adottato e poi “restituito” in orfanotrofio il piccolo Polo, un fallimento genitoriale che ha lasciato segni indelebili nel bambino e nella coppia. Questa brevissima e inadeguata sinossi potrebbe trarre in inganno: siamo ben lontani dai toni del dramma familiare, perché Ema è un film infuocato e straripante, che si muove, come la sua protagonista, in modo libero e frenetico, un’opera che danza, letteralmente, come i suoi personaggi al ritmo di raggaeton, tra colori acidi e paesaggi urbani. Larraín, cineasta tra i più rigorosi e sorvegliati in circolazione, adotta una spiazzante forma libera, incatalogabile, sublimemente assemblata dal montatore Sebastian Sepulveda, autore di un lavoro davvero incredibile. Con questa libertà di enunciazione ci restituisce perfettamente la vita emotivamente e sessualmente disordinata di questa fanciulla vitale e inquietante, capace di desideri intensissimi e folgoranti e di momenti di gelido calcolo e rendendola indimenticabile, mentre si staglia sui tramonti di Valparaiso con un lanciafiamme in mano. Con grande anticipo, mi sbilancio: a oggi, il mio favorito per il Leone.