ITALIA

Valentine aka Fluida Wolf: «Per le sex worker nessuna tutela durante la pandemia»

L’emergenza Covid-19 ha acuito le problematiche già presenti nell’ambito del sex work, quali la presenza di un forte stigma per lavoratrici e lavoratori sessuali e la difficoltà nel portare avanti la propria occupazione. Anche per questo è nata la campagna Nessuna da sola, che raccoglie fondi a favore di chi opera nel campo

Se si parla di mutualismo e mobilitazione di solidarietà dal basso durante l’emergenza Covid-19, un discorso di primo piano lo merita l’ambito del lavoro sessuale. Già dallo scorso aprile, infatti, il collettivo transfemminista di sex worker e persone alleate Ombre Rosse, assieme al Comitato dei Diritti Civili delle Prostitute fondato da Pia Covre e Carla Corso e a una rete composta da numerose associazioni e unità di strada, ha lanciato la campagna di raccolta fondi “Nessuna da sola! Solidarietà immediata alle lavoratrici sessuali più colpite dall’emergenza”. L’iniziativa è riuscita a a recuperare oltre 20mila euro di donazioni a sostegno di lavoratrici e lavoratori sessuali e si è rivelata anche una preziosa operazione di inchiesta e verifica sul campo, tanto da produrre un dettagliato report.

«L’attività si è potuta estendere in maniera piuttosto capillare sul territorio», racconta Valentine aka Fluida Wolf, che è attivista transfemminista, traduttrice militante e alleata del collettivo Ombre Rosse. «In particolare, è stata molto efficace in quei centri in cui ha potuto contare sull’appoggio di realtà preesistenti che portano avanti un lavoro mirato come, per esempio, il Mit-Movimento Identità Trans di Bologna o l’Atn-Associazione Transessuali Napoli del capoluogo campano. Siamo partite ovviamente dall’ascolto di chi faceva richiesta d’aiuto, cercando di comprendere esigenze e bisogni più urgenti. È interessante notare come alla fine quasi due terzi delle domande di aiuto sono arrivate da sex worker trans provenienti dai paesi dell’America latina».

 

Cosa è successo nel campo del lavoro sessuale con lo scoppio della pandemia?

La maggior parte delle persone è entrata in uno stato di crisi e di preoccupazione. Chi ne aveva le possibilità e le capacità ha spostato parte della propria attività on-line, mentre l’estate ha garantito una parziale ripresa del lavoro. Ma intanto gli acquirenti hanno pure iniziato a pretendere tariffe ribassate, facendo leva su una maggiore ricattabilità e vulnerabilità delle e dei sex worker, ormai allo stremo. Va ricordato che chi fa sex work non ha avuto e continua a non avere nessuna tutela, nessuna forma di aiuto, in quanto ciò di cui si occupa non è riconosciuto come lavoro. Esiste cioè ancora un forte stigma, che coinvolge tanto le lavoratrici e i lavoratori che le persone a loro vicine.

Insomma, l’emergenza Covid-19 ha acuito aspetti e problematiche che erano già presenti da tempo. Siamo probabilmente ai minimi storici dell’agibilità nel campo del lavoro sessuale. A tutto ciò si somma un aggravamento dal punto di vista psicologico, con una condizione di solitudine generalizzata e una grossa incertezza dal punto di vista legale per chi magari ha un processo aperto di riconoscimento della cittadinanza o non ha documenti.

 

Avete rilevato bisogni specifici attraverso la vostra campagna di solidarietà?

Con la campagna “Nessuna da sola!” abbiamo provato a rivolgerci alle soggettività più marginalizzate e a rischio. Fin dal primo momento, la principale richiesta è stata quella di cibo, a cui abbiamo provveduto con la distribuzione di pacchi alimentari o l’acquisto di pacchi spesa. Dopodiché, molto alta è stata la difficoltà a sostenere le spese legate alla vita quotidiana, come le bollette o l’affitto, alle quali abbiamo provveduto redistribuendo delle quote di denaro per le situazioni di maggiore indigenza. Infine, un problema diffuso si è rivelato anche quello relativo ai medicinali e ai dispositivi di protezioni e in generale all’accesso alle cure mediche.

Ma, come anticipavo, più riuscivamo a entrare in relazione con lavoratori e lavoratrici migranti e più è emersa come questione principale la preoccupazione relativa alla mancanza dei documenti o al blocco dei procedimenti per ottenerli. Fortunatamente, la maggior parte di queste situazioni a oggi è migliorata o quantomeno ha progredito in qualche modo. Intanto però avanzano anche l’impoverimento e l’affaticamento derivanti da mesi e mesi di stallo. Non c’è facoltà di scelta: è difficile, oltre che rischioso, condurre la propria attività di lavoro sessuale e, d’altra parte, è impossibile trovare un altro impiego, soprattutto a causa dello stigma sulle persone trans o per la lentezza della burocrazia italiana in tema di rilascio dei permessi di soggiorno.

 

Ci sono stati particolari ostacoli nel portare avanti la campagna?

Le lavoratrici e i lavoratori sessuali se la passavano male anche prima della pandemia e del lockdown. L’arrivo dell’emergenza Covid-19 non ha fatto altro che far sprofondare ancora di più nella povertà e nella disperazione chi con questo lavoro riusciva almeno a mettere insieme i soldi per la cena, affitto e bollette, seppur con fatica. Durante questi mesi abbiamo sperimentato un ulteriore “invisibilizzazione” dei soggetti più fragili: la comunità nigeriana, per esempio, era come scomparsa all’inizio della pandemia… Se viene stigmatizzato tutto ciò che ruota attorno al lavoro sessuale, è ovvio che si creino delle zone d’ombra ancora più oscure. A questo si è aggiunto l’accanimento di alcuni sindaci, che con le ordinanze “anti-decoro” hanno di fatto criminalizzato lavoratrici e lavoratori, e delle questure, che usano spesso la minaccia di espulsione come strumento di ricatto.

 

 

Il fatto è che, fintanto che si è trattato di portare avanti una campagna di sostegno economico per persone che in ultima analisi rischiavano di soffrire la fame, il supporto è stato ampio e privo di controversie. Il problema sorge però quando si tratta di condurre battaglie su nodi politici e ottenere visibilità rispetto ai temi del riconoscimento e della legittimità del sex work tout court. In questo caso a me sembra ci sia un forte scollamento in seno alla società, ma anche all’interno dei movimenti per cui risulta difficoltoso articolare un discorso legato a tali argomenti.

 

Servirebbe un quadro legislativo diverso?

Noi ci battiamo per una decriminalizzazione del lavoro sessuale. I modelli legislativi che più stanno prendendo piede in Europa, come quelli svedese o cosiddetto “nordico”, sono modelli che partono da una visione stigmatizzante o perlomeno che presenta delle lacune, per usare un eufemismo. Al contrario, occorre mettere al centro i diritti di lavoratrici e lavoratori. Quello che invece succede in Italia, dove il lavoro sessuale in teoria è consentito ma è criminalizzato tutto quello che vi sta attorno, è che diventa difficile fare rete, si rende impossibile un riconoscimento reciproco. Le leggi sul favoreggiamento spesso vanno a colpire il legittimo mutuo aiuto di chi fa sex work così come la solidarietà esterna. Non solo: rendono più difficoltose e rischiose semplici operazioni quotidiane, come la sottoscrizione di un affitto di qualsiasi tipo di contratto. Non è un caso che le questioni dell’alloggio e della speculazione sul lavoro sommerso si siano acuite durante la pandemia.

A ogni modo, per quanto riguarda il campo dell’attivismo, si discute molto di “intersezionalità”, poi però si incontrano spesso resistenze quando si tratta di mettere in campo una reale attivazione a favore dei diritti di chi fa sex work. Si fatica a creare connessioni con le assemblee transfemministe e a produrre analisi complesse anche a partire dalle leggi sull’immigrazione: in questo contesto storico e nei paesi occidentali di cui fa parte l’Europa, infatti, la tratta è legata soprattutto alla chiusura dei confini. Il legittimo desiderio di cambiare vita attraverso la mobilità e la migrazione si scontra con leggi criminalizzanti e con una forte militarizzazione delle frontiere, che creano le condizioni per lo sfruttamento: senza documenti sei più ricattabile, e lo status di “clandestina” o “irregolare” che viene attributo aumenta il rischio di deportazione o di detenzione.

 

Ti sembra un problema particolarmente italiano?

Io credo che da noi, più che in altri paesi, l’attivismo transfemminista risulti troppo spesso slegato dal riconoscimento dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori sessuali. Se guardiamo alle lotte in Argentina, come per esempio quella sull’aborto legalizzato che finalmente ha trionfato, notiamo come la marea verde fosse anche composta dai collettivi di sex worker. Oppure a Barcellona, per fare un altro esempio, durante la pandemia si è riuscito a operare in un’ottica di riduzione del danno e a mettere in campo anche dei corsi di alfabetizzazione informatica per chi è occupato nell’ambito del lavoro sessuale. In Italia, invece, nonostante il movimento femminista si sia generalmente opposto al carcere e alla criminalizzazione, le aree di attivismo di stampo abolizionista o neo-abolizionista sono molto visibili e intraprendenti.

A ogni modo, sono contenta di ciò che stiamo riuscendo a ottenere con la nostra campagna di solidarietà. Per un gruppo ristretto di lavoratrici c’è anche la possibilità di ricevere dei sussidi, se si dispone di partita Iva e si riesce a registrare la propria attività sotto il codice Ateco che contempla “altri servizi per la persona”. Ma questi sono dei piccoli privilegi, non dei diritti. A chi chiede aiuto mi piacerebbe rispondere che ci sono alleati e alleate pronte a farsi carico delle difficoltà, che esistono centri e reti attive diffuse sul territorio, che c’è dunque un intero ambiente politico che sostiene e riconosce lavoratrici e lavoratori sessuali. Se diciamo “Nessuna da sola!”, quel “nessuna” deve essere valido al cento per cento.

 

Qui la pagina della campagna di raccolta fondi Nessuna da sola

Qui la raccolta Red Shadows del gruppo Witches Are Back a sostegno della campagna

Immagine di copertina di Matt Zulak da Flickr