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MONDO
Usa, Cina e la nuova “guerra fredda”: da che parte stare?
L’emergere della Cina come attore globale ha innescato a sinistra importanti dibattiti. Da un lato, si difende la Cina “socialista” in quanto sfidante dell’egemonia statunitense in un ordine mondiale capitalistico caratterizzato dalle avventure militarie dal mantenimento del dominio postcoloniale. Dall’altro, si considera la Cina ormai transitata dal socialismo di Stato a una forma di capitalismo autoritario a guida statale. Un contributo di approfondimento tratto dalla rivista Position Politics
Nel documentario “Fabbrica americana” di Steven Bognar e Julia Reichert, il miliardario cinese Cao Dewen dichiara che la sua missione principale è quella di dimostrare agli americani che i Cinesi sanno benissimo come gestire una fabbrica negli USA.
L’azienda di Cao si è stabilita a Dayton, nella sede che era stata della General Motors (GM), la chiusura della quale nel 2009 era stata documentata da alcuni cineasti con sede a Dayton in undocumentario straziante, L’ultimo camion. Prima della chiusura, i sindacati della GM erano riusciti a ottenere un salario di 29 dollari all’ora e l’azienda di Cao, la Fuyao America, ci mise quattro anni per cominciare e ricavarci un profitto, nel 2018. L’azienda paga molti degli operai di prima meno della metà di quello che faceva la GM e ha reclutato una ditta di consulenza antisindacale per assicurarsi che gli operai votino contro la sindacalizzazione.
È così che il sogno cinese rimpiazza quello americano? Un precursore della “nuova guerra fredda” guardato nell’ottica del lavoro? O si tratta piuttosto dell’esito di tre decadi di processi neoliberali che hanno condotto a una nuova divisione del lavoro internazionale, al mutamento della topografia della produzione globale, all’integrazione delle economie cinese e statunitense in una modalità interconnessa di accumulazione che sarebbe stata impensabile al tempo della guerra fredda del dopoguerra proclamata da Churchill nel discorso sul sipario di ferrodel 1946 a Fulton, nel Missouri?
L’interscambio fra Cina e USA vale mezzo trilione di dollari e la Cina possiede un trilione di dollari di debito USA. Steve Tsang, del China Institute della SOAS,ha sostenuto che è proprio l’integrazione fra le due economie a fare della nuova guerra fredda una minaccia praticabile e pericolosa per l’ordine mondiale vigente.
Secondo l’Oxford Concise Dictionary, per “guerra fredda” s’intende uno “stato d’ostilità fra nazioni senza combattimenti aperti”. Presumibilmente, “nuova guerra fredda” ha lo stesso significato. Stiamo forse entrando in una fase del genere, ma è già certo che le relazioni sino-statunitensi sono considerevolmente peggiorate durante le presidenze di Trump e di Xi Jinping,che non hanno esitato a confortare i loro sostenitori con una retorica nazionalista.
D’altro canto, Xi Jinping ha formulato il Sogno Cinese, coniugandolo con la narrazione di una Cina globale potente che assume la direzione degli affari internazionali aderendo alla globalizzazione. In questo quadro, “Partito, governo, esercito, società, istruzione- est e ovest, nord e sud: comanda il Partito, sempre e dovunque”. Puntellandosi su quello che Jude Howell e io consideriamo un tipo evoluto e potenziato di autoritarismo, se confrontato all’era di Hu Jintao (2002-2012), la narrativa non è in Cina messa pubblicamente in discussione, anche se, in privato, alcuni intellettuali cinesi considerano la configurazione politica vigente una forma di totalitarismo [jiquanzhuyi].
Da parte sua, Trump ha respinto la globalizzazione, nel suo tentativo di “rendere di nuovo grandi gli Stati Uniti”. Il progetto è stato preceduto da una posizione largamente isolazionista negli affari internazionali, che in patria ha promesso di riportare nel paese tutto il lavoro americano rubato, secondo Trump, dai Cinesi. Prendendo soprattutto di mira la concorrenza cinese nell’alta tecnologia, Trump ha affermato che aziende come Huawei e Tik-Tok minacciavano la sicurezza nazionale statunitense, sostenute in questo dal governo cinese.
Ha aumentato i dazi doganali su un ampio spettro di importazioni dalla Cina e ha sbarrato l’accesso alla tecnologia alle aziende cinesi-aumentando en passant l’ondata tossica di patriottismo sinofobo già in corso. Xi ha risposto per le rime, fissando dazi alle esportazioni statunitensi in Cina. I media cinesi hanno intensificato la retorica nazionalista, mentre si andava delineando una guerra commerciale seguita a ruota dalle avvisaglie di una “nuova guerra fredda”, nella quale le prestazioni economiche diventavano armi a sostegno della superiorità sistemica. Così, la nuova guerra fredda si situa in una configurazione politica globale diversa. Qui ci soccorre la genealogia della Guerra Fredda e dell’ “ideologia politica della crescita” come l’aveva formulata John Barry, anche se la Cina globale appare relativamente più forte e integrata dell’URSS di un tempo.
Nel mentre, anche se ha cominciato a ribaltare molte delle politiche di Trump – gli USA sono già rientrati negli accordi di Parigi sul clima – il neoeletto presidente John Biden si dimostra più cauto nei confronti della Cina, non ultimo perché durante la campagna presidenziale ha gareggiato con Trump su chi era più “duro” con i Cinesi.
All’altro opposto, Xi Jinping ha lanciato un appello per il multilateralismo nella lotta contro la pandemia e per il clima, ma la repressione cinese nel Xinjiang e a Hong Kong lavora contro un ritorno immediato alla politica di coesistenza accomodante all’americana dell’era pre-Trump, ovvero a un’ansietà costante per la crescita della Cina. Naturalmente, è sempre possibile che tensioni aperte riducano i tempi. Le forze globalmente in competizione e capitalistiche che spingono i capitali statunitensialla ricerca in Cina di una forza lavoro più economica e più facilmente disciplinabile, e, di converso, il sig. Cao a fondare una Fuyao America non sindacalizzata, sono sempre all’opera.
Guerre guerreggiate e guerre fredde
Certo, la prima Guerra Fredda evitò ostilità aperte fra USA e URSS, che pure le rasentarono al tempo dello scontro della Baia dei Porci nel 1961. Ma lo scansamento di ostilità aperte fra due nazioni in competizione non significa che siano impossibili guerre guerreggiate altrove – Asia inclusa. Nel 1949, molto prima della Baia dei Porci, la vittoria del Partito Comunista Cinese (PCC) sui nazionalisti del Guomindang convertì la guerra fredda in una serie di guerre guerreggiate asiatiche. Sotto la guida statunitense, le potenze occidentali s’imbarcarono nel tentativo di contenere la diffusione di governi comunisti nelle nazioni asiatiche via via che si liberavano del giogo coloniale. Ne derivarono guerre imperialistiche che fecero milioni di morti, soprattutto civili.
Nella penisola coreana, la Guerra Fredda incluse il conflitto aperto fra Cina e USA, intanto che componenti nucleari erano aviotrasportate dagli USA a Guam in preparazione di un possibile attacco nucleare contro la Corea e/o sul fiume Yalu, in Cina. Gli USA furono anche uno dei maggiori responsabili del bagno di sangue del 1965 che costrinse l’Indonesia dentro la sua sfera d’influenza.
In base alle prove emerse da documenti recentemente resi pubblici, lo storico John Roosa ha concluso che “gli USA furono complici delle operazioni, coordinandosi con l’esercito indonesiano e incoraggiandolo a dare la caccia al PKI [Partai Komunis Indonesia]”, arrivando a divulgare elenchi di aderenti al PKI tramite l’ambasciata americana a Giacarta. Gli scherani di Suharto massacrarono circa un milione di persone, e altri tre milioni perirono prima che la sconfitta americana in Vietnam producesse una“sindrome vietnamita” che non fu superata se non quando George Bush lanciò l’operazione Desert Storm in Iraq, schiudendo la porta a un nuovo ordine globale, proprio quello in cui l’affrancamento della Cina dal “contenimento”, la sua integrazione nell’economia globale, l’estroversione degli investimenti – specialmente la Nuova Via della Seta (o Belt and Road Initiative – BRI) – accanto al concomitante aumento d’influenza diplomatica e forza militare, sono considerati oggigiorno un minaccia.
Guerre di classe
L’emergere della Cina come attore globale ha innescato a sinistra importanti dibattiti. Da un lato, si difende la Cina “socialista” in quanto sfidante dell’egemonia statunitense in un ordine mondiale capitalistico caratterizzato dalle avventure militarie dal mantenimento del dominio postcoloniale. Dall’altro, si considera la Cina ormai transitata dal socialismo di Stato a una forma di capitalismo autoritario a guida statale. In quest’ottica, gli scioperi e le lotte condotti dalla classe operaia cinese sono lotte di classe contro la dominazione dello Stato capitalistico cinese in un’economia capitalistica che deve risolvere i problemi causati dall’accumulazione e sovraccumulazione nell’accezione di Marx.
Secondo i primi, è lo Stato USA il nemico principale nella lotta per il socialismo. Per gli altri, l’integrazione della Cina nel sistema capitalistico globale comporta che sia Pechino sia Washington siano ostacoli sulla strada del socialismo. Se a essere nel giusto sono questi ultimi, ne deriva, se non altro per i marxisti, che una spietata “critica dell’esistente” è il prerequisito per il progresso.
Questa è la ragione per cui, in quest’articolo, suggerisco che le lotte di classe per il riconoscimento dei sindacati, un salario decente, la contrattazione collettiva, la sicurezza sul lavoro e altre rivendicazioni del genere alla Fuyao America di Dayton non differiscano radicalmente dalle analoghe lotte operaie, scioperi e campagne per i risarcimenti alla Jasic di Shenzheno alla fabbrica di scarpe Lide di Canton documentati da Kevin Lin. Insomma, non ci vuole un economista particolarmente acuto per riconoscere che in Cina esistono rapporti di produzione capitalistici e che essi vengono regolati da uno Stato autoritario di cui il Partito Comunista Cinese ha il controllo assoluto dai tempi della repressione del movimento democratico del 1989. Si tratta di rapporti capitalistici simili a quelli statunitensi molto più che nel 1989.
Il 1989 assistette alla rivendicazione, prontamente soffocata, del diritto di formare sindacati indipendenti del tipo della Federazione Autonoma Operaia di Pechino [Beijing gongren zizhi lianhehui], una rivendicazione cruciale, non fosse stato che perché nel 1986 i dirigenti delle aziende di Stato furono investiti del potere di assumere e licenziare le maestranze. Ciò sgombrò la strada al XV Congresso del PCC del 1997, dal quale promanò lo slogan – zhua da fang xiao “attenersi alla vasta scala, ignorare la piccola” [zhua da fang xiao] – una politica di ristrutturazione, privatizzazione e liquidazione delle aziende di Stato, specialmente di quelle piccole e medie, mirante a facilitare l’ingresso della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Formalmente al centro del progetto dello Stato socialista, ai primi del Duemila oltre 50 milioni di operai delle aziende di Stato persero il lavoro. Resistettero in molti, ma con un solo sindacato legale intimorito dal Partito e con il diritto di sciopero soppresso nella Costituzione del 1982, le probabilità di successo erano a sfavore. Il lascito della repressione del 1989 è presente nell’odierna configurazione antioperaia e antisindacale che connota le aziende in Cina e all’estero, tipo la Fuyao America. Naturalmente è un lascito mediato dai contrasti di classe locali.
A fare da contraltare alla spinta neoliberale al lavoro informale nelle città è stato l’emergere di un’armata salariale di riserva di contadini espulsi dalle terre, che da allora hanno intrapreso il lungo cammino verso il riconoscimento, innanzitutto come membri della classe lavoratrice (ma la Confederazione Sindacale Pancinese ancora nel 2003 non li riconobbe tali), e secondariamente come cittadini con uguale diritto d’accesso ai diritti urbani, negati loro dal regime della residenza coatta (hukou).
La loro marcia è stata segnata da conflitti legali, proteste, scioperi e da un’onnipresente repressione che è scattata ogni qualvolta i lavoratori migranti hanno chiesto, e talvolta ottenuto, aumenti salariali, migliori condizioni sanitarie e di sicurezza sul lavoro, previdenza sociale e indennizzi per gli incidenti sul lavoro.
Cao Dewen alla Fuyao doveva essere sicuramente al corrente di queste pressioni-lui che ha molte fabbriche in Cina,eppure in un’intervista del 2017 ancora insisteva sul fatto che i problemi incontrati a Dayton eranointerpretabili come conflitti fra culture [wenhua chongtu], esacerbati dalla barriera linguistica e dal frequente ricorso al gergo [liyu], cioé presumibilmente al tipo d’ingleseusato dagli operai statunitensidelle fabbriche.
Le considerazioni culturali hanno la loro importanza, ma è mia opinione che la cauta risposta del sig. Caoservisse come cortina di fumo per nascondere il suo incrollabile dare la priorità alla ricerca dei livelli minimi alla Fuyao America. Adesso, a Dayton come nella Cina del 1997, sono gli operai a doversi adattare all’economia capitalistica e alle sue preferenze culturali. Per esempio, durante la lotta di classe dall’alto e dal basso che accompagnò la summenzionata privatizzazione delle aziende di Stato cinesi, gli operai vennero definiti dalle autorità capitalistiche e politiche pigri, troppo autoreferenziali, infiacchiti dalla previdenza sociale ereditata dallo Stato socialista del passato, e bisognosi di liberarsi della mentalità statale socialista [jiefang sixiang (lett. “liberare il pensiero”, N.d.T.] se volevano “lanciarsi nella nuova era” [xia hai (lett. “buttarsi a capofitto negli affari”, N.d.T)] dell’imprenditorialità.
Da due decadi la narrativa procede all’inverso: impera lo stereotipo dell’operaio cinese capace di “sputare sangue” – di faticare per lunghe ore in condizioni di lavoro pessime per ottenere guadagni sul lungo periodo, come con le attività su scala ridotta o mandando un figlio all’università – interiorizzato in un contrasto immaginario con gli operai delle fabbriche statunitensi, i minatori del rame tanzaniani, gli operai etiopi del tessile, tutti dipinti come gente un po’ pigra e viziata. Eppure, come ha fatto notare il sig. Wong, ingegnere in un’officina della Fuyao America, sputano sangue anche gli operai americani, facendo spesso due lavori sottopagati per mettere qualche cosa in tavola o avere il figlio all’università. I conflitti che scoppiano sui luoghi di lavoro del capitalismo globale possono anche esprimere differenze e specificità culturali, ma non sono essenzialmente culturali, anche se i padroni come Cao Dewen spiegano l’economia con la cultura. I nazionalisti, i patrioti e le carogne possono anche cercare d’inquadrarli come manifestazioni dell’ “altro”, procedura essenziale della retorica della guerra fredda, ma essi scaturiscono piuttosto dall’antagonismo d’interesse fra capitale e lavoro. Sono componenti della guerra di classe.
Nuove guerre coloniali?
Rappresentata spesso dalla destra come “capitalismo rosso”, il capitale pubblico e privato cinese sta allungando le grinfie sul mondo, in parte facilitato dalla Nuova Via della Seta. Marx aveva già individuato la tendenza del capitale a cercare “sbocchi sempre più estesi” per “ficcarsi dappertutto, stabilirsi dappertutto, stringere relazioni dappertutto” (“Manifesto del Partito Comunista”, Roma, 1980, pag. 61, N.d.T.). Allo stesso modo, la Cina e i suoi investimenti di capitale sono diventati a sinistra un nuovo argomento di dibattito.
L’espansione cinese è neocolonialista o l’assenza di condizioni sui prestiti rappresenta una nuova opportunità per le nazioni invia di sviluppo? Nell’ottica di destra di una nuova guerra fredda, non si vede altro che una minaccia, accompagnata dal suo possibile deterioramento nella forma di conflitti, guerre per procura e anche peggio. Nell’ottica del lavoro, sorgono interpretazioni e alternative diverse che includono possibilità di solidarietà globali e lotte globali.
Tolga Demiryol presenta la “fuoriuscita” [zouchuqu] del capitale cinese non come un progetto di dominazione mondiale, come nella caricatura che ne fanno i combattenti della nuova guerra fredda, ma piuttosto come un “tentativo dello Stato cinese di gestire i problemi interni dell’accumulazione di capitale esportando lo sviluppo su scala transregionale”. La sovraccumulazione è stata favorita dagli aumenti salariali come portato della lotta di classe che Hao Qi e Tim Pringle interpretano come una combinazione di tre fattori interagenti: scarsità di forza lavoro, militanza del lavoro e politiche a favore del lavoro dovute alle ansietà del PCC causate dalla crescita della militanza industriale domestica. E mentre C. K. Lee sostiene che il capitale pubblico cinese può comportarsi in modi che vanno oltre la pura e semplice massimizzazione dei profitti che invece è imperante nel capitale privato, le ricerche di Carlos Oya suggeriscono una “molteplicità di sbocchi nei rapporti di lavoro nelle aziende cinesi in Africa (e altrove)”. Questi studiosi non escludono nelle loro analisi forme di colonialismo sulle risorse naturali né flagranti violazioni dei diritti del lavoro che riproducono le priorità neoliberali. Ma la varietà di dati presenti nelle loro ricerche suggeriscono che la Cina Globale è più complessa di quanto non immagini la retorica anticinese; suggeriscono anche che i rapporti che singolarizzano e demonizzanole pratiche cinesi di lavoro in Africa siano tutt’altro che accurati.
La spietata repressione del movimento democratico di Hong Kong e l’imposizionedella Legge per la Sicurezza Nazionale hanno messo nelle mani dei falchi del Nord Globale un maglio per colpire ancora una volta la Cina. La retorica della nuova guerra fredda che emerge da questi ambienti non fornisce altro che un inaffidabile, ancorché popolare, rifugio ad hongkonghesi che hanno organizzato il più militante, appoggiato e condiviso attacco all’autoritarismo pechinese dacché i colonialisti inglesi levarono le ancore nel 1997.
Nella conclusione del suo libro Hong Kong si rivolta, Au Long-Yu si focalizza sui dibattiti in rete fra gli hongkonghesi sulla scia della protesta Black Lives Matter negli Stati Uniti. Au trova le prove che il sostegno a Trump dei campanilisti di destra di Hong Kong fu messo in discussione da militanti inorriditi da una violenza poliziesca che negli USA faceva il paio con quella delle forze di polizia militarizzate di Hong Kong da loro sperimentata sulla propria pelle.
Di nuovo, l’ottica del lavoro è istruttiva per veicolare la solidarietà. Mi sono schierato in varie occasioni a favore della centralità del lavoro organizzato per la sopravvivenza e gli obiettivi progressisti del movimento. È un’ottica che ci ricorda come Rebecca Sy, presidentessa dell’Associazione degli Assistenti di Volo della Dragon Airlines di Hong Kong sia stata licenziata per aver sostenuto il suffragio universale; che il sindacalista veterano Lee Cheuk-Yan della Confederazione Sindacale di Hong Kong (HKCTU) abbia quattro separati processi in corso quest’anno per attività a sostegno del movimento democratico; e che Winnie Yu, presidentessa dell’Alleanza degli Impiegati della Hospital Authority e Carol Ng, presidentessa dell’HKCTU, siano fra i 47 militanti pro-democratici accusati di “cospirazione a scopo sovversivo” a norma della nuova Legge per la Sicurezza Nazionale.
Sarebbe importante avere la solidarietà internazionale per questi dirigenti sindacali che hanno organizzato la resistenza contro lo sfruttamento capitalistico e devono fronteggiare le conseguenze della connivenza fra Stato e capitale.
Per quanto grave, la violenza di Stato a Hong Kong impallidisce di fronte all’emersione di quella che Darren Byler ha chiamato capitalismo terroristico ai danni degli Uiguri e di altre etnie di minoranza nel Xinjiang. Il termine di Byler dà bene l’idea di tecniche repressive capaci di generare ulteriori profittiper le aziende capitalistiche private: i contratti di Stato per la fornitura di apparecchiature di sorveglianza sono messi a gara fra aziende private e puntate contro gruppi che fanno da bersaglio, che in questo caso sono soprattutto gli Uiguri.
I dati così raccolti agevolano la repressione nel Xinjiang e le stesse tecniche, ulteriormente perfezionate, sono vendute ad altri paesi, per essere applicate a qualunque sorveglianza vi si voglia condurre. Gli Uiguri sono spesso assegnati ad aziende capitalistiche sparse per tutta la Cina al momento del rilascio dai campi di concentramento nel Xinjiang, mantenendo lo stesso regime di lavoro forzato nella definizione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Ci sono prove che certe fabbriche che impiegano Uiguri fanno parte di catene di rifornimento controllate dai maggiori marchi internazionali.
La narrativa della nuova guerra fredda fornisce l’occasione alla destra e all’estrema destra di usare il linguaggio dei diritti umani e della solidarietà per mettere in discussione la repressione in Cina, che a sua volta consente di mascherare le tendenze razziste e islamofobiche in Occidentee addirittura di conferire una certa “rispettabilità” agli ultimi sfoghi della sinofobia.
Lo abbiamo visto nel corso della pandemia. In un contesto del genere, i dibattiti a sinistra sulla natura dello Stato cinese, l’egemonia statunitense, l’emergenza di una nuova guerra fredda e la lotta per il socialismo sono importanti. Però questi dibattiti non dovrebbero essere d’ostacolo agli appelli all’azione contro lo sfruttamento capitalistico e per le lotte operaie, indipendentemente dalla veste culturale o dallo spazio geografico in cui si svolgono.
L’ottica del lavoro quando si osservano Stati diversi permette di vedere la lotta di classe per quella che è: “La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classe” (“Manifesto del Partito Comunista”, Roma, 1980, pag. 54, N.d.T.) e un volano per cambiamenti sociali positivi.
Rivela come l’ambizione delboss della Fuyao America, il sig. Cao, di dimostrare che i Cinesi sono in grado di gestire le fabbriche negli USA è essenzialmente una presa di posizione capitalistico nazionalista, più difficilmente una posizione che farà fare i bagagli ai falchi della nuova guerra fredda. Una risposta internazionalista fondata sulla premessa della solidarietà della classe lavoratrice ha un potenziale bastante per respingere i guerrafondai e molto di più; è l’impresa ciclopica che abbiamo davanti. Io sono con lei.
Un ringraziamento particolareagli studenti del Cineclub “Labour Activism and Global Development” della SOAS, che hanno ispirato quest’articolo, e a Rebecca Karl per i preziosi suggerimenti
Tim Pringle è senior lecturer in Lavoro, Movimenti Sociali e Sviluppo presso il Dipartimento di Studi dello Sviluppo della SOAS, Università di Londra. È direttore di China Quarterly.
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Pubblicato originariamente su Position Politics, che ringraziamo per la disponibilità
Traduzione di GioGo per una collaborazione tra Dinamopress e Sinosfere per la pubblicazione di quattro articoli sul tema.
Immagine di copertina di Marcus da Flickr