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MONDO

USA al bivio #6: JD Vance – Hillbilly Heroin

Dopo aver sventato un attentato durante un comizio a Butler, in Pennsylvania, Donald Trump ha annunciato all’inizio della convention repubblicana di Milwaukee che il suo candidato vice-presidente sarà JD Vance. Figura che sta a metà tra i venture capitalists “tech bros” della Silicon Valley, il mondo dell’ultra-destra e il populismo della working class bianca del Sud, Vance viene acclamato come un raro “intellettuale Maga” che usa le crociate anti-woke delle culture wars per abrogare ciò che resta del welfare state rooseveltiano

La convulsa stagione elettorale è esplosa in un “plot twist,” come suggerisce Tania Rispoli, di una fantapolitica da James Ellroy, o forse, visti i riflessi surreali, paranoici e psicotici della cronaca degli ultimi giorni, rimane Philip K Dick il riferimento più idoneo.

Rimane il fatto che Trump aveva fatto della martellante profezia su un «prossimo attacco terrorista certo al 100%» (l’ultima interazione è stata in un’intervista alla Fox, lo scorso 8 luglio), un ritornello paranoico del suo repertorio per indurre i suoi elettori a rifugiarsi in un rassicurante abbraccio securitario.

L’ex-presidente aveva vaticinato che a compiere l’atto sarebbe stato uno dei malvagi che Biden ha “autorizzato” a scavalcare in massa la frontiera. Invece, a sparargli, sembra ormai certo, dovrebbe essere stato, come ha scritto qualcuno in un post social, un garden variety school shooter: “esemplare domestico di sparatore scolastico” – una frase che forse solo gli USA con i suoi 40.000 morti ammazzati all’anno avrebbe potuto normalizzare.

Il mancato assassino di Donald Trump sembrerebbe dunque l’ultimo prototipo di giovane maschio, con ossessione delle armi da fuoco, appartenente alla categoria degli autori di stragi insensate in scuole, licei (elementari, asili…), shopping center, chiese, concerti e via dicendo, che esiste all’intersezione di patologie emotive e della socializzazione, della violenza diffusa e del rifiuto di istituire benché minime contromisure da parte di una politica ignava e ostaggio delle armi da fuoco.

Ai ferventi seguaci del secondo emendamento appartengono compatti, è bene ricordarlo, i sostenitori di Trump che erano al fatale comizio. E i partecipanti alla convention di Milwaukee sono gli stessi politici che assicureranno il fallimento dell’ennesimo tentativo di Biden di eliminare gli AR-15 e altre armi da guerra che circolano a milioni fra la popolazione.

Inoltre, se vi fosse stata la benché minima attendibilità nelle suggestioni di un movente politico “di sinistra”, il mondo miliziano-complottista, già prossimo all’apoplessia, avrebbe reagito con ben altra veemenza.

I repubblicani tuttavia, com’era prevedibile, non si sono certo lasciati sfuggire l’occasione per strumentalizzare l’accaduto obliquamente (con performativi appelli alla moderazione dei termini “da entrambe le parti”) o direttamente, accusando i democratici di avere talmente esasperato i toni, da avere le mani sporche di sangue.

Fra i più immediati e indignati fautori della seconda versione vi è stato il giovane senatore dell’Ohio che un paio di giorni dopo è stato designato come candidato vicepresidente dallo stesso Trump.

«La premessa centrale della campagna Biden è che Trump sia un fascista autoritario da fermare a ogni costo», ha dichiarato JD Vance appena dopo l’attentato. «Quella retorica è la causa diretta dell’attentato!». Le accuse sono risibili, provenienti da chi ha brevettato la retorica violenta che ha geneticamente mutato la politica americana nell’attuale “guerra incivile” e ha mobilitato i militanti per assalire il Parlamento nel tentativo di invalidare le elezioni. D’altra parte, la cifra orwelliana, la negazione dei fatti palesi, è congenita alla frattura epistemica introdotta dal trumpismo.

Due giorni dopo, a Milwaukeem Vance è dunque stato acclamato candidato vice, avendola spuntata su altri due papabili, Doug Burgum del North Dakota e Mario Rubio della Florida, grazie sembra anche al consiglio di Tucker Carlson ed Elon Musk. Gli sponsor sono particolarmente significativi. Carlson è stato per anni megafono dei reclami alt-right e volto dell’indignazione performativa di certa destra bianca sulla Fox, prima di venire allontanato perché troppo radicale perfino per Rupert Murdoch. Quanto a Musk, il cui “X” fa per molti versi le veci social della Fox come canale trumpiano, dopo l’attentato, ha prima annunciato il proprio esplicito endorsement di Trump, e successivamente donazioni mensili di $45 milioni alla sua campagna fino alle elezioni. Non vi fossero residui dubbi riguardo le sue simpatie, ma la decisione rappresenta il coming out ufficiale di Silicon Valley a fianco di Trump, quantomeno della nutrita schiera di iperliberisti e disruptor conservatori che operano nell’oligopolio digitale.

Lo stesso giorno hanno seguito il suo esempio Marc Andreesen e Ben Horowitz, due fra i maggiori venture capitalists  del mondo tecnologico, annunciando anche loro generose donazioni a Trump, il candidato che, hanno spiegato, sarà più plausibilmente avverso a regulation in ambiti come le criptovalute e l’intelligenza artificiale.

Ma se per alcuni giga-capitalisti si tratta di calcolo per proteggere il monopolio privato sulla tecnologia, per altri i moventi sono più ideologici e collegati alle teorie mistico-capitaliste ispirate fra gli altri ad Ayn Rand, che da sempre circolano nel settore.

È il caso un altro miliardario di ultra-destra, specificamente collegato all’ascesa di JD Vance. Peter Thiel è stato nel gruppo fondante di PayPal (noto a Silicon Valley come la PayPal Mafia), assieme tra l’altro proprio a Musk. Di famiglia tedesca, cresciuto in Namibia sotto l’apartheid prima di trasferirsi in California, Thiel ammira Rand (oltre che Ronald Reagan) già da ragazzo. Successivamente, a Stanford, fonderà la rivista studentesca conservatrice “Stanford Review”. Sarà fra i primi investitori di Facebook (quando Zuckerberg era ancora studente di Harvard). Fonderà lui stesso un paio di fondi di investimenti tech e la società di software Palantir (il nome – tutto un programma – è preso dalle pietre divinatorie del mago Sauron nei libri di JRR Tolkien).

Nel 2006 Thiel è relatore per la Property & Freedom Conference, una formazione anarco-capitalistica che riunisce “libertariani” e nazionalisti bianchi, inoltre è membro della commissione permanente del gruppo Bilderberg. In un saggio per il Cato Institute, arriva a scrivere: «Non credo più nella compatibilità di democrazie e libertà (perché), se abilitato, il demos finirà inevitabilmente per votare restrizioni al potere dei capitalisti e quindi restrizioni alle loro libertà».  Nel 2019 è titolare di una fondazione anti-woke di estrema destra che promuove la rielezione di Donald Trump e finanzia candidati ultra-repubblicani in cariche statali. Fra quelli su cui punta per i Midterms del 2022, vi sono un paio di promettenti estremisti Maga, Blake Masters in Arizona (che non passerà) e JD Vance, che sarà invece vittorioso diventando senatore dell’Ohio.

Musk, Andreesen, Thiel e molti altri sono emblematici di una saldatura sempre più stretta fra ideologie reazionarie e il messianesimo tech sottoscritto da molti facoltosi magnati digitali alle cui fortune corrisponde spesso un’illimitato hybris transumanista (sempre della scorsa settimana è stato l’annuncio di Musk di aver donato il proprio sperma per “ricerche sulla procreazione su Marte” post-terraforming).

Vance è ben posizionato per beneficiare dalla convergenza di alt-right e “tech-bros,” collocandosi nella generazione di giovani leve, spesso con lauree da Ivy legue che promuovono programmaticamente la via neo-reazionaria alla riscossa blue-collar. Nelle sue credenziali, l’uomo che potrebbe presto essere “a un battito di cuore” dallo studio ovale, vanta un’umile estrazione nell’Appalachia dell’Ohio e successivamente nelle colline del Kentucky dove è cresciuto dai nonni per via delle disfunzioni familiari.  Overachiever [secchione ambizioso] sin da ragazzo, Vance riesce a trascendere in modo brillante degrado, dipendenze e povertà, per laurearsi in legge a Yale.

Successivamente diventa celebre come autore dell’autobiografia sulla propria famiglia “hillbilly” (cioè proletaria bianca rurale del Sud e Midwest). Hillbilly Elegy (successivamente adattato anche in un inguardabile mélo da Ron Howard) diventa caso letterario e verrà adottato dalla nuova destra, come testo fondamentale di riscossa valoriale e meritocratica della working class bianca.

Acclamato come raro “intellettuale Maga” l’ascesa di Vance è assicurata dalla sua adozione sempre più esplicita dell’identitarismo, tradizionalismo e anti-statalismo che sottendono le crociate anti-woke delle culture wars per abrogare ciò che resta del welfare state rooseveltiano.

Eppure, prima di entrare seriamente in politica aveva lui stesso deriso l’opportunismo di Trump, definendo «”eroina culturale” le soluzioni che prospettava alle classi sofferenti, palliativi che procurano illusorio sollievo senza risolvere alcuno dei problemi sociali».

La sua deriva è, da un lato, opportunistica, come quella di tutti i repubblicani che seguono Trump nella la strumentalizzazione dei rancori della working class orfana della globalizzazione. Ma Vance dà mostra di uno zelo che lo avvicina agli ideologhi Maga che fomentano una “rivoluzione” che, per citare Steve Bannon, «si colloca molto più a destra di Trump».

È il circuito dei think tanks dove negli ultimi decenni ni si è compiuta la metamorfosi del conservatorismo americano in forza eversiva. Laboratori come il Claremont Institute e la Heritage Foundation, dove l’analisi accademica si contamina di fanatismo apocalittico e la guerra civile è accettata come inevitabilità, necessaria e purificatrice, per azzerare la perversione del vero spirito rivoluzionario dei fondatori e ricostruire un novus ordo seclorum guidato dalla nazione predestinata.

Il progetto, riformulato con l’eufemismo della «decostruzione dello stato amministrativo», rischia ora di giungere a fruizione in modo tumultuoso e assai rapido a seconda di ciò che avverrà nella prossima dozzina di settimane. Occorre constatare, tuttavia, che è già buon punto, attraverso lo stravolgimento del ruolo costituzionale del ramo giudiziario, già strettamente in mano a magistrati certificati da un’altra fondazione cruciale, la Federalist Society. I togati stanno implementando una dottrina “originalista” improntata al fanatismo costituzionale (la lettura “letterale” del testo originale) e, con la sentenza che ha graziato Trump concedendogli immunità totale, ha di fatto completato con carta e penna il golpe avviato il 6 gennaio a Capitol Hill.

«Non ci interessa il dialogo o il compromesso», ha affermato sempre Bannon al “New York Times”. «Non siamo ragionevoli perché stiamo lottando per un diverso modello di civiltà. E non lo saremo fin quando non lo avremo ottenuto. Non ci interessa il compromesso, ci interessa vincere». È questa fazione che con Vance e Trump è tornata a sancire la propria supremazia a Milwaukee. E per questo è palesemente fallace l’invocazione all’unità nazionale di una destra che per conciliazione intende solo un’America unificata dietro Trump. Se qualcuno avesse creduto all’effettivo “cambio di tono” dopo gli spari di Butler, la risposta è lo slogan adottato dopo l’attentato: «Fight! Fight! Fight!», più che un’invocazione, è anticipazione e promessa di ciò che certamente ancora una volta avverrebbe se le elezioni non andassero per il verso repubblicano.

Immagine di copertina: JD Vance parla alla Conferenza regionale del Sud-Ovest del 2021 organizzata da Turning Point USA all’Arizona Biltmore di Phoenix, Arizona, disponibile su Wikimedia Commons

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