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MONDO

USA al bivio #4: la corte a orologeria

Una sentenza senza precedenti della Corte suprema completa il golpe tentato tre anni fa e precipita il Paese nella crisi costituzionale. Azzerati di fatto i processi a carico di Trump. che comincia chiedendo l’esonero retroattivo dalla condanna di New York

Negli ultimi giorni la già volatile stagione elettorale americana è diventata più inquietante a causa di due eventi che hanno rimescolato le carte a favore di Donald Trump. 

Innanzitutto, la catastrofica performance di Joe Biden nel dibattito che ha esplicitato tutto il disagio represso dei democratici per la senescenza del proprio candidato. La confusionale ora e mezza sotto gli impietosi riflettori televisivi hanno confermato i peggiori presentimenti riguardo l’anziano candidato, apparso d’improvviso non alla portata del compito che egli stesso inquadra come la difesa della democrazia americana. 

Improvvisamente in preda a una preoccupante dissonanza cognitiva, il partito affronta ora fuori tempo massimo un problema senza soluzione apparente che incredibilmente deve contemplare a quattro mesi appena dalle elezioni (ma in molti stati l’early voting per posta o in persona, inizierà già a settembre). La scelta sarebbe se sostituire in corsa e in extremis l’anziano candidato o perseverare nel piano Biden che ragionevolmente avrebbe dovuto essere discusso quattro, o almeno due anni fa. Tutto invece è stato affidato a un’inerzia che in retrospettiva appare del tutto irresponsabile.

Se potrebbe sembrare positivo essere infine arrivati a prendere coscienza di un problema così macroscopico, il fatto che si parli apertamente del “tabù” finora rimosso non implica l’esistenza di una soluzione praticabile. Innanzitutto, non è certo automatico trovare un sostituto in una nuova generazione di leader che fino a oggi hanno giurato fedeltà al Presidente. Se pure si distinguessero alcuni candidati papabili, non è chiaro come potrebbe avvenire l’investitura, senza una potenziale guerra intestina che pregiudicherebbe il risultato in modo forse peggiore che non lo status quo. 

È chiaro, inoltre, che la condizione imprescindibile di qualunque piano alternativo debba forzatamente essere l’assenso dello stesso Biden. Ma è molto meno chiaro quali siano le vie praticabili per intavolare una valutazione politica a cui contribuiscano più del “Presidente, sua moglie e la sua famiglia” come recita la formula incredibilmente anacronistica e insufficiente. Come se il futuro della democrazia fosse questione da decidere al tavolo di cucina, senza indebite ingerenze. L’intera faccenda ha messo in risalto quanto sia ermetica la presidenza Biden.

Per ora, malgrado il diffuso malcontento a cui si sono pubblicamente associati anche nomi importanti della galassia Dem, sembrerebbe comunque prevalere il quadrato fatto dai dirigenti di partito attorno all’attuale candidato. Ma è fuori questione ormai anche far finta che non sia successo nulla. La virulenza con cui le due fazioni si affrontano anche informalmente nei corsivi e sui social presagisce intanto la potenziale forza distruttiva di una spaccatura pre-elettorale e lascia intuire l’esistenza di dissapori fra correnti che un peggiorare della campagna potrebbe facilmente esacerbare (quelli ad esempio fra i bidenisti e gli obamiani che nel 2015 decisero di metter da parte il fedele vice Joe a favore della perdente candidatura di Hillary Clinton).

Mentre il paese segue sbigottito questi sviluppi e il Congresso rimane paralizzato nel muro contro muro di schieramenti paritari e incompatibili, il terzo potere istituzionale, quello giuridico, non aspetta le elezioni per implementare un programma di radicale trasformazione del Paese.

L’altra doccia fredda è arrivata infatti con la sentenza di lunedì con la quale la Corte suprema degli Stati uniti ha messo un dito pesante sul piatto delle elezioni e sul futuro del paese. La maggioranza reazionaria sulla Corte, compresi tre togati designati dallo stesso Donald Trump, ha decretato la “sostanziale immunità” dello stesso Trump quale Presidente all’epoca in carica e quindi non perseguibile per “atti ufficiali”. 

Inventando l’immunità presidenziale, i togati hanno dunque stravolto radicalmente l’equilibrio dei poteri nell’assetto costituzionale, delineando una presidenza imperiale che un Trump eventuale vincitore sarebbe pronto ad assumere, come ha spesso ripetuto, “dal primo giorno”. La decisione non ha precedenti della storia della nazione e conferma il ruolo primario del tribunale costituzionale nella potenziale conversione degli Stati uniti in regime post-democratico.  

La Corte costituzionale americana ricopre da sempre un ruolo primario nell’indirizzo delle politiche sociali del paese ed ha, soprattutto negli ultimi 50 anni, determinato il progresso dell’America moderna in fatto di giustizia sociale, emanando ad esempio un ampia giurisprudenza in materia di diritti civili. Nell’interesse dell’equilibrio ideologica, la Costituzione assegna la composizione dei togati alle nomine presidenziali (a vita) che seguono grosso modo l’alternanza politica fra partiti. 

Ma è proprio il moderno impianto sociale che la nuova destra vorrebbe  “decostruire” e negli ultimi anni, quel sistema e stato inficiato da una manovra di un partito repubblicano progressivamente radicalizzato. La “conquista” conservatrice del massimo tribunale è iniziata con il boicottaggio da parte dei Senatori GOP, di una nomina che spettava a Obama per sostituire il reaganista Antonin Scalia nel 2016. 

Trump ha invece, successivamente, potuto selezionare ben tre nominativi dalla lista compilata dalla Federalist Society, associazione che funge come una sorta di “Opus dei” della magistratura, stilando una lista di candidati dalle comprovate credenziali conservatrici, repubblicani per le nomine dei togati. I sei giudici che compongono l’attuale super-maggioranza della Corte, tutti integralisti cattolici, appartengono tutti a quella associazione. 

La svolta radicalmente reazionaria della Corte è il compimento più significativo della parabola conservatrice avviata da Reagan e dalla sua alleanza strategica con le frange fondamentaliste evangeliche. Non a caso la sentenza più ideologica, resa un anno fa, è stata quella che ha abolito le protezioni federali del diritto ad abortire, obiettivo che la destra teocon perseguiva da 50 anni. Altre decisioni hanno sancito il primato della fede religiosa sui diritti LGBTQ, annullato il condono dei debiti per gli studenti e abolito la “affirmative action” – il sistema di agevolazioni per minoranze etniche nelle iscrizioni universitarie, istituito inizialmente sessant’anni fa, sotto John F. Kennedy. 

Le decisioni rappresentano tasselli nel progetto “originalista,” il termine con cui la destra ama definire la dottrina integralista che vede la Corte come interprete letterale della Costituzione del 1787. Una decisione dell’anno scorso ha vietato ad esempio di promulgare restrizioni al porto d’armi, «non il linea con normative in vigore a fine Settecento». 

La formulazione originalista è facilmente estendibile a ogni sfera che, a giudizio degli attuali giudici, esuli dall’”intento originale” dei Padri fondatori – dai diritti LGBTQ alla legalità degli anticoncezionali e all’accesso al voto per le minoranze, visto che si tratta di diritti acquisiti tramite gli emendamenti costituzionali apportati solo in tempi successivi. Soprattutto, come dimostra la sentenza di questa settimana, l’originalismo è una utile copertura, quando fa comodo, per stravolgere la Costituzione in modo che di “originale” ha ben poco. 

Il terzo ramo del governo che ha inventato la presidenza immune dalle leggi, è composto da giudici non eletti, incaricati a vita e senza norme auto-disciplinari, che oggi comprendono personaggi come Clarence Thomas, la cui consorte, Ginni, ha attivamente sostenuto l’insurrezione del gennaio 2021, e da Samuel Alito, che in quei giorni davanti casa ha issato i vessilli del movimento eversivo. Non cura cioè nemmeno più di dissimulare il proprio ruolo di congegno eversivo. E se, da un lato, la sentenza che ripaga Trump è un trasparente dispositivo dilatorio, che ha l’effetto immediato di ritardare i processi a suo carico fin dopo le elezioni, costituisce d’altro canto un precedente di enorme portata costituzionale e sancisce l’epocale distorsione istituzionale determinata dall’era trumpista.

La sentenza di ieri rimuove ogni dubbio sul ruolo eversivo di questo tribunale, il cui operato quest’anno ha costituito un esplicito assist al programma di un GOP radicalizzato. Solo la scorsa settimana, la sentenza denominata “Chevron,” aveva di fatto rimosso il potere normativo delle agenzie federali preposte a regolare ogni ambito ammnistrativo, dalla finanza, alla salute e a clima e protezioni ambientali. Tutti aspetti che sono ora stati rimessi all’ambito giuridico in cui interessi privati e industriali possono contrastare – e paralizzare – le norme governative nei tribunali. Una gigantesca “devolution” al capitale e l’implementazione de jure di quella «decostruzione dello stato amministrativo» inserita nel radicale programma repubblicano denominato Project 2025.

La convergenza di una corte “manciuriana” e la potenziale rielezione di Donald Trump alla presidenza che tentò di conservare con la forza, rappresentano una congiuntura potenzialmente catastrofica, sintomatica di come l’ultracorpo di destra si insinua, svuotando dall’interno le democrazie.

In copertina, Donal Trump al Republican Jewish Coalition’s 2023 Annual Leadership Summit, Las Vegas, Nevada (foto di Gage Skidmore)


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