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MONDO
USA al bivio #3: Arrivano i dibattiti TV
I due anziani candidati si sfidano nel consueto format del dibattito televisivo, tra rischio gaffe e poca reattività, con regole nuove pensate per contenere la tracotanza di Trump. Intanto il Project 25, un lungo manuale dei think thank reazionari, punta a una presidenza sempre più autoritaria
Questa settimana ci sarà il primo dibattito elettorale, il confronto live fra i candidati ottuagenari (81 anni Joe Biden, 78 Donald Trump) che la maggioranza degli statunitensi non vorrebbero in gara. Il 70% degli elettori, dicono i sondaggi, preferirebbe altre scelte, eppure nel momento in cui si tratta di immaginare un futuro della superpotenza che affronta la crisi e l’involuzione globale delle democrazie, le alternative sono queste.
In una campagna anomala in cui le primarie sono state formalità ancor più del normale e nelle quali Trump si è rifiutato di dibattere la manciata di simbolici avversari, il confronto fra i candidati era inizialmente sembrato in dubbio, fin quando qualche settimana fa, Biden ha d’improvviso accolto le ripetute sfide lanciate da Trump. Compensando forse un tantino troppo, il presidente ha risposto citando Clint Eastwood: «Vuoi dibattere?» • ha detto in una video risposta – «Make my day, amico. Basta che dici dove e quando». Così, con un doppio moto di machismo ottuagenario, il paese si ritrova con in programma non uno ma due duelli TV. Uno adesso, ben prima delle convention, in barba, appunto, alle convenzioni, che vorrebbero che i candidati vengano prima ufficialmente acclamati dai rispettivi partiti, e un altro a settembre.
Nessuno nel campo Biden finora era sembrato ansioso di mettere lo stagionato presidente in campo nell’imprevedibile formato del dibattito in diretta TV, ma il fatto che il democratico sembri arrancare nei sondaggi (specie in alcuni stati chiave), ha finito per forzare la sua decisione. È così partito il toto-previsioni su chi trarrà maggiore vantaggio dal formato che non prevede pubblico e, su richiesta di Biden, si avvale di una par condicio rigorosamente imposta da microfoni che si spegneranno dopo interventi alternati di 5 minuti a testa; misure pensate per ridurre la debordante tracotanza dell’avversario.
Tallone d’Achille di Biden è chiaramente la precarietà dei riflessi attenuati dall’età (o, secondo Trump, dalla sua precoce demenza). Paradossalmente la campagna incentrata sull’incompetenza senile di Biden ora preoccupa Trump che teme di aver abbassato le aspettative al punto che il presidente rischia, comparativamente, di fare bella figura, come già accaduto a gennaio, nell’ultimo discorso al Congresso sullo stato dell’unione. Per mettere le mani avanti Trump ha suggerito che un eventuale buona performance di Biden sarà giocoforza dovuta all’uso di stimolanti e ha chiesto un esame antidoping che certamente sarebbe il primo negli annali dei dibattiti politici. Per Trump invece il rischio sono le gaffe e le astruse tangenti che caratterizzano i suoi chilometrici comizi (di recente il repertorio comprende elogi di Hannibal Lecter e Al Capone) e che in questo contesto potrebbero far virare la performance da “smargiassa simpatia” in “bizzarra prevaricazione.”
Cionondimeno, i due candidati sarebbero convinti ognuno di aver messo nel sacco l’avversario: Trump è certo che le telecamere riveleranno un anziano impappinato; Biden che esporranno il narcisista sproloquiante al ludibrio generale. Corre voce che dietro le quinte, molti nei rispettivi staff sudino freddo anche se il pericolo maggiore lo dovrebbe correre proprio Biden, a rischio di esibire pubblicamente la mancanza del “vigore” associato alla leadership. (Esiste anche una fazione anti-Trump che si augura una performance sufficientemente catastrofica da parte di Biden da indurre il partito ad un’immaginaria sostituzione con un altro candidato).
Tant’è, il paese apparentemente non si sottrarrà allo spettacolo di una rissa fra seniors ad alto potenziale di imbarazzo bipartisan. Un po’ come per le elezioni in generale, per entrambi si tratterà soprattutto di “non perdere,” evitando clamorose gaffe, tolte le quali il dibattito difficilmente modificherà gli equilibri in un elettorato solidamente polarizzato.
Biden sta utilizzando gli ultimi mesi prima delle elezioni per annunciare una serie di decreti, largamente simbolici, calcolati per ingraziarsi settori di elettorato a rischio. In quest’ottica si inseriscono la stretta sull’immigrazione che “sospende” il diritto automatico della richiesta di asilo per chi scavalca il confine meridionale consegnandosi alle autorità, ottenendo un permesso temporaneo mentre vengono espletate le lunghe pratiche legali. La norma “di emergenza” impone invece l’immediata deportazione oltreconfine, ricalcando quasi del tutto le politiche a suo tempo imposte da Trump. Il decreto, mirato a deflettere il battage di attacchi sulla sua presunta “resa sul confine” è stato seguito a ruota da quello che agevola il ricongiungimento di coniugi stranieri di cittadini americani (negli Stati Uniti oggi 5,5 milioni di minorenni vivono in famiglie in cui uno dei genitori è “clandestino”). Sempre per rinsaldare il sostegno fra i giovani sono state annunciate ripetute iniziative per azzerare i debiti, spesso ammontanti a centinai di migliaia di dollari, contratti da studenti per pagarsi gli studi, la proclamata solidarietà ai sindacati e i programmi per creare impiego nelle agenzie federali come quello del Climate Corps per impiegare 20.000 giovani in programmi di conversine ecologica, pensato per evocare il works progress administration di Franklin Delano Roosevelt.
Alla fine, però, l’elezione difficilmente sarà vinta in base a programmi di governo. Se così fosse, Biden con il suo curriculum di liberismo con welfare potenziato, occupazione alta, inflazione in discesa e PIL in boom, dovrebbe aver prodotto un vantaggio maggiore sul partito che quattro anni fa aveva letteralmente assaltato il parlamento per impedire l’avvicendamento democratico.
La forza di Trump sta nel copione adottato dalle neodestre globali, ovvero i richiami tinti di xenofobia e razzismo che caratterizzano la demagogia identitaria. Il programma Trump consiste nell’insediare Trump e lanciare una vendetta contro i suoi nemici, sotto l’egida di un catartico “è finita la pacchia.” Come ama ripetere ai suoi sostenitori nei comizi, «I will be your retribution» (Sarò il vostro vendicatore). Il rancore che si prospetta iniettato nella politica di governo, in caso di vittoria di Trump, è simile a quello del suo primo mandato, ma la preparazione con cui affronterebbe un nuovo incarico è assai maggiore. L’indizio principale è il manuale di 908 pagine intitolato Project 2025 pubblicato da un consorzio di think tank reazionari come prontuario di una specie di commissariamento del governo da parte di una nuova amministrazione Trump.
Le dettagliate istruzioni contenute nel documento mirano a «essere pronti a smantellare lo stato profondo» a partire dal 20 gennaio del prossimo anno, il giorno dell’insediamento. Fra le proposte avanzate: «prendere il controllo» del ministero della giustizia, smantellare l’FBI, eliminare i ministeri del commercio e dell’istruzione, sostituire il dicastero della salute con un «dipartimento per la vita». Oltre a vietare l’aborto, fermare la transizione ecologica e organizzare «le più grandi deportazioni di massa della storia» vi è il più generale progetto di riequilibrare l’equilibrio dei poteri istituzionali (giudiziario e parlamentare) a favore dell’esecutivo.
La presidenza imperiale delineata in Project 2025, è simile al “premierato”, ma in un paese dove la presidenza è già esecutiva, equivale a un passo ancor più deciso verso l’autoritarismo. Il progetto suggerisce alla futura Casa Bianca, ad esempio, di rifiutare unilateralmente di spendere fondi stanziati dal Congresso per scopi con cui non sia d’accordo. E infine delinea il piano per ridimensionare radicalmente l’apparato della pubblica amministrazione che impiega due milioni di lavoratori in agenzie statali e parastatali. Fra le regolari recriminazioni di Trump ricorre infatti quella sull’ostruzionismo subita da parte di queste agenzie, il cui personale verrebbe sostanzialmente licenziato in blocco e sostituito da un organico assai ridotto di quadri selezionati per assoluta fedeltà al presidente.
Il ricordo dei trasferimenti di scienziati in postazioni remote o la modifica di mappe meteorologiche col pennarello rischierebbero in pratica di passare alla storia come semplice assaggio di un’opera ben più capillare per mettere l’apparato dello stato al servizio personale del presidente, come lo sarebbero anche i tribunali. Le proposte sono una mappa per effettuare, se non riforme costituzionali, una specie di dirottamento dell’esecutivo verso una versione autoritaria come quello già impresso alla Corte suprema
Il progetto, dunque, è di mettere in pratica le idee che da anni rimbalzano nei blog di estrema destra, oramai normalizzati da otto anni di trumpismo, quelle di ideologhi come Steve Bannon e che hanno già prodotto la riabilitazione degli insorti del 6 gennaio in patrioti e per i quali Trump ha paventato a più riprese l’indulto. Specificamente il progetto per «decostruire lo stato amministrativo» è legato a John McEntee, che già alla fine della prima amministrazione Trump, era stato incaricato delle purghe di personale “inaffidabile” nel Pentagono, FBI e ministeri.
Allora le liste di proscrizione erano state compilate tra gli altri da Ginny Thomas, moglie del giudice della Corte suprema Clarence Thomas e agguerrita militante Maga – Make American Great Again, la frangia più intransigente dei trumpiani. Project 2025 ha ambizioni di un’opera assai più metodica. Da epuratore in pectore, McEntee oggi dichiara: «Elon Musk ha tagliato l’organico di Twitter del 9090% e X funziona ancora benissimo. Perché non dovremmo poter fare lo stesso con il governo?».
Per tutte queste ragioni le presidenziali del 2024 promettono di somigliare alle prossime elezioni francesi, in cui un fronte eterogeneo dovrebbe votare Biden nel un tentativo estremo di arginare il sopravvento di una agguerrita fazione post-democratica (se è possibile che Trump prevalga nel collegio elettorale, ci sentiamo di escludere che possa avere la maggioranza del voto popolare che lo ha sempre deluso), aggregando l’opposizione dietro a un candidato (molto) imperfetto.
In copertina: John Fitzgerald Kennedy e Richard Nixon nel 1960, il primo anno dei dibattiti televisivi per le elezioni presidenziali USA (foto wikimedia commons).
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