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MONDO

Usa al Bivio #17: cresce il montepremi della democrazia

Plurimiliardari, tombole elettorali, maga e mega-donatori, Bob Woodward, Bernie per Kamala: diario degli ultimi giorni di campagna elettorale

Quella passata è stata la settimana della lotteria elettorale annunciata da Elon Musk. Un milione di dollari al giorno fino ad election day, estratto a sorte fra gli iscritti alle liste elettorali negli swing states (la firma vale $47 subito e l’iscrizione all’estrazione). Con la boutade, il tecno-magnate spinge sui limiti della legalità e delle leggi anticorruzione che vietano l’incentivo economico per indurre al voto. Molti hanno sollevato l’obiezione, ma se Trump ha insegnato qualcosa, è che il sistema giuridico non riesce a tenere il passo con chi ha spregiudicatezza e tasche molto profonde.

La tombola elettorale di Musk è il terminale di un processo ormai saturato dal denaro veicolato attraverso i political action committees (PAC), che consentono donazioni anonime (dark money).  Dopo la sentenza del 2010 con cui la Corte suprema ha equiparato i contributi elettorali alla libera espressione politica (e le corporation a persone sociali), gli interessi privati non hanno più avuto argini nella politica. L’effetto in questa tornata è più evidente che mai. Donald Trump ha apertamente sollecitato le donazioni dei sostenitori più facoltosi in cambio di tagli alle tasse e specifici programmi di governo. Per esempio, a marzo, Trump ha dichiarato a sorpresa di non essere più per la chiusura di TikTok in USA. Il cambio di idea è avvenuto dopo un incontro a Palm Beach con Jeff Yass, detentore di una quota della casa madre Byte Dance (7%, pari a $21 miliardi).  Pochi giorni prima del dietrofront, il miliardario ha depositato un assegno da $47 milioni nei forzieri GOP, ora è fra i papabili ministri del tesoro di Trump. Successivamente, a una riunione di dirigenti di società petrolifere ad aprile, ha chiesto ai presenti contribuire un miliardo di dollari, ricordando i monumentali risparmi che la sua deregulation ambientale avrebbe rappresentato per le loro aziende. 

I democratici, che in passato hanno equiparato i finanziamenti aziendali occulti alla palese ingerenza di interessi forti nella politica, si sono adeguati. La campagna di Kamala Harris ha incassato ben oltre il miliardo di dollari in contributi, ottenendoli in tempo record. Fra i suoi mega-donors figurano i dirigenti di Netflix e Linkedin e la vedova di Steve Jobs. Le piccole donazioni individuali per Trump sono invece calate del 40% rispetto a quattro anni fa (forse anche per via del dirottamento di metà dei fondi verso gli avvocati penali del candidato). Trump è quindi sempre più dipendente dalla generosità di altri oligarchi. Come Musk, che a fronte del contributo di $75 milioni annunciato la scorsa estate, ha dunque ottenuto la promessa di un dicastero nell’ipotetico prossimo gabinetto Trump: capo del “dipartimento di efficienza governativa”- Se così fosse, il sudafricano che beneficia di una fortuna in appalti statali (come NASA e Pentagono) e in incentivi pubblici per le auto elettriche, avrebbe autorità di autoregolarsi e autoappaltarsi. 

Ma Musk sta andando molto oltre il semplice sostegno economico e relativi conflitti di interesse. Il suo ruolo attivo nella campagna sta consumando in maniera molto pubblica la saldatura fra neocapitalismo tecnologico e aberrazione nazional-populista e segna l’uscita allo scoperto di una plutocrazia militante come protagonista politica in prima linea.  Musk, che aveva già convertito “X” in principale organo di (dis)informazione pro-Trump, ha dunque schierato le imponenti risorse e personale delle proprie aziende per mobilitare gli elettori negli stati chiave, un’operazione che taluni stimano poter costare fino a $500 milioni (milione oggi, milione domani…si fa presto). La scesa in campo ha restituito lo spettacolo incongruo dell’uomo più ricco del mondo che arringa folle working class in auditorium liceali, infarcendo i discorsi di capisaldi Maga e complottismo in stile Qanon. A questo scopo, per esempio, il profeta del progresso tecnologico (l’uomo che ci vorrebbe tutti presto in robotaxi a guida autonoma), ha detto che «da informatico, l’ultima cosa che farei è affidarmi a computer per contare le schede di voto». Benzina cosparsa su un falò di disinformazione che potrebbe facilmente tornare a divampare dopo il voto.

In Pennsylvania Musk ha anche aizzato le folle contro gli immigrati, aggiungendo alla narrazione Maga sulle orde barbariche e criminali, il concetto di immigrazione meritocratica su cui di recente sta tornando spesso, comparando le società occidentali ad aziende, o squadre sportive, con il diritto quindi di selezionare solo i migliori giocatori e “licenziare” quelli più scadenti. Solo eleggendo Trump –ama concludere il l’aspirante monopolista dello spazio – potremo diventare una civiltà multiplanetaria. Le malcelate suggestioni eugenetiche della “utopia meritocratica” evocata da Musk, sono sintomo del ruolo primario assunto dalla fazione “ideologica” di Silicon Valley nell’attuale regressione politica. Più precisamente di quel culto “mistico” e reazionario votato al messianesimo tecnologico a cui appartengono facoltosi magnati come Musk, Mark Andreesen, Larry Ellison e Peter Thiel. Quest’ultimo ha spiegato il sunto della filosofia sentenziando che la democrazia «non è più compatibile con a libertà». 

I suprematisti del digitale avrebbero ora il loro candidato per influire sulla politica nazionale – non tanto in Trump, la cui utilità è anagraficamente limitata – ma in JD Vance, il vice “coltivato” da Thiel, che sarebbe il successore designato di Trump per un prossimo mandato (se non prima).  «Il futuro dell’America, anzi le sorti della civiltà occidentale, verranno decise qui»,. ha dichiarato Musk che infarcisce i suoi comizi con discorsi sul destino multiplanetario dell’umanità. La sensazione che prevale sempre più, invece, è che i baroni del silicio il futuro hanno in mente di deciderlo loro, a Silicon Valley.

Bob Woodward a una presentazione di uno dei suoi ultimi libri (Wikimedia commons, copyright Miller Center)

L’ultimo libro di Bob Woodward

La scorsa settimana al carrozzone elettorale si è affiancato il “book tour” di Bob Woodward, l’uomo che col collega Carl Bernstein fu autore degli scoop che portarono allo scandalo Watergate. Oggi ottantunenne, è già autore di tre libri su Trump (Fear, Rage e Peril) frutto di 20 interviste con l’ex-presidente. Il suo ultimo lavoro invece si intitola War e si concentra, oltre che sul conflitto politico interno, sulla gestione delle guerre globali da parte dell’amministrazione Biden, argomento pressoché assente dalla campagna elettorale. Considerato il livello di rimozione dei conflitti dal dibattito politico nella superpotenza occidentale, è confortante che il decano dei giornalisti investigativi americani abbia scelto di prestare il peso del proprio prestigio ad evidenziare l’estrema pericolosità del momento. Nelle sue presentazioni Woodward ha tuttavia descritto soprattutto un reportage sulle “doti nascoste” di Biden come abile statista. Certo è difficile vedere l’attuale situazione come un successo, ma secondo il giornalista, le cose sarebbero state peggiori se non fosse per l’opera diplomatica che Biden ha diligentemente svolto dietro le quinte. L’esempio che ama citare è quello di uno scambio avvenuto già nel 2022 fra il ministro della difesa Lloyd Austin e la sua controparte Sergei Shoigu, in cui il primo tentava di dissuadere il russo dall’impiego di un ordigno nucleare tattico, suggerendo un’inevitabile rappresaglia americana. «Non ho l’abitudine di essere minacciato», avrebbe detto Shoigu. «Comando l’esercito più potente della storia», avrebbe risposto il Secretary of defense, «non ho bisogno di minacciare». 

Non sembra esservi nel libro un vero tentativo di andare oltre e il “reporting” di simili (inquietanti) episodi per analizzare radici profonde o ad esempio i retroscena che hanno immediatamente preceduto l’invasione dell’Ucraina – le settimane in cui l’intelligence di Washington aveva piena contezza di ciò che si preparava e durante le quali non è chiaro quali iniziative siano state intrapreso per evitare il peggio. L’elogio di Biden sembra formulato soprattutto per mettere in evidenza che «Trump sarebbe stato molto peggio». La valutazione era comunque intuibile per un uomo che da presidente ha stracciato trattati, smantellato accordi strategici, e sostituto lo stesso impianto diplomatico del paese per con la ”art of the deal” condotta estemporaneamente da lui stesso in quanto “maestro negoziatore”. Il suo sprezzo per ogni negoziato che non si basi puramente su rapporti di forza, la sua naturale affinità per i dittatori e autocrati e la qualità puramente transazionale del suo concetto di geopolitica gestita come un affare aziendale,  non lasciano ben sperare per un suo eventuale ritorno al comando. 

Nulla nel libro sembra smentire la valutazione che Woodward attribuisce allo stesso capo di stato maggiore generale Mark Milley, per il quale Trump è «fascista fino all’osso».  Secondo Woodward, Trump avrebbe mantenuto un rapporto diretto con Putin («almeno sette conversazioni telefoniche dalla fine del mandato») e come, era già noto, ha trasformato la residenza di Mar A Lago in una Casa Bianca parallela dove ha ricevuto dignitari e capi di stato a ripetizione – e perfino accatastato documenti riservati di stato nei bagni. Tanto per ribadire questa paradossale situazione che non ha precedenti negli annali del paese (e sarebbe espressamente vietata dalla legge federale), Trump, a proposito di Netanyahu, ha tranquillamente dichiarato di avergli parlato lo scorso weekend per complimentarsi per l’eliminazione di Yahya Sinwar e consigliargli «di fare quello che devi fare». «Se avesse dato retta a Biden – ha aggiunto – non l’avrebbero mai preso». Sul conto del premier israeliano, War riporta numerosi momenti di escandescenze di Biden che in privato lo avrebbe definito bugiardo e «fucking Netanyahu!», per come ignora ogni iniziativa diplomatica a favore del “new order” perseguito con le armi. 

Woodward non aggiunge molto a quello che è invece incontrovertibilmente emerso negli ultimi dodici mesi: non quanto Israele dipenda dagli USA, dato già noto e ben quantificato negli ultimi 78 anni (in 313 miliardi di dollari) di aiuti militari, ma piuttosto quanto sia vero il contrario, quanto poco gli USA siano disposti a pregiudicare il sodalizio con “l’alleato speciale” e chiaramente geopoliticamente essenziale alla proiezione nella regione. Alla luce degli ultimi 12 mesi, l’esasperazione e le escandescenze di Biden nei confronti di Netanyahu confermano semplicemente quello che soprattutto il PM israeliano sa fin troppo bene. Nel rapporto, ormai del tutto asimmetrico e invertito con la superpotenza sponsor, qualunque cosa gli è lecita, ogni sfregio e schiaffo gli sarà consentito e con ognuno sprofonderà il prestigio e l’influenza, dell’alleato che funge da banca e arsenale ma che di fatto si è mostrato del tutto incapace di influire sugli eventi.

Malgrado nientemeno che Bernie Sanders sia tornato questa settimana a parlare di una Kamala Harris che, se eletta coi voti della sinistra, potrebbe essere “sensibilizzata” su Gaza, è effettivamente difficile intravedere un prossimo scenario che esuli dall’escalation e dalle ulteriori sofferenze palestinesi. Quello che è certo è che in una presidenza Trump, Netanyahu troverebbe una speculare sponda di opportunismo e di fanatismo cinicamente strumentalizzato per vantaggio politico.

La foto di copertina è dell’autore

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