approfondimenti

MONDO

USA al bivio #15: meno di un mese

Ultimi colpi della campagna elettorale: mentre in molti stati già si può votare, Harris insegue il centro moderato e Trump insiste su demagogia e disinformazione. La possibile vittoria della minoranza sarebbe un colpo devastante alla già pregiudicata democrazia americana.

Manca ormai meno di un mese alle elezioni presidenziali e vi è il senso palpabile che il tassello americano è quello che fra poco più di tre settimane potrebbe spingere oltre il baratro un Occidente che in Europa vede ininterrotta la crescita di populismi di estrema destra. In realtà le operazioni di voto sono già cominciate dato che in nove stati è già possibile votare in anticipo, in persona in appositi centri o per posta. In 37 stati il 5 novembre sarà solo l’ultimo giorno di un processo durato settimane. Milioni di statunitensi hanno dunque già espresso preferenze che i sondaggi continuano a dare in sostanziale parità, anche se sull’affidabilità dei rilevamenti statistici ci sarebbe molto da dire, specie quando i margini sembrano destinati a essere così millimetrici. 

Per i candidati è comunque iniziata la volata finale per gli ultimi voti disponibili, in un panorama in cui è difficile immaginare elettori ancora “ideologicamente” indecisi. In questo contesto, la campagna di Kamala Harris sembra sempre più mirata a conquistare consensi del centro moderato, compresi quelli del segmento di repubblicani che hanno abbandonato il partito cooptato da Trump. Indicativi a questo riguardo sono stati i comizi della vice-presidente fatti assieme a Liz Cheney – figlia di Dick Cheney, il vice di George W. Bush, già parlamentare conservatrice GOP radiata per aver tradito (aveva lavorato con la commissione d’inchiesta sul 6 gennaio per l’impeachment di Trump). Il calcolo è evidentemente che vi siano più potenziali consensi da ottenere al centro che rischi di smottamenti nella sinistra del partito, il che spiega il sostegno ribadito a Israele e alle guerre «giuste per l’America» e la photo-op sul confine, per l’obbligatoria dichiarazione di difesa dei confini nazionali.

Da parte trumpista la campagna, mai davvero programmatica, ha visto l’abbandono di ogni residuo indugio e l’affidamento sempre maggiore fatto su demagogia e disinformazione.  E i comizi e le interviste concesse dall’ex- presidente a podcast di riferimento sono intercalati con le televendite (ultime offerte, dopo le scarpe griffate Trump, la bibbia edizione Trump, gli NFT, la criptovaluta e i medaglioni d’argento marchiati Trump, sono stati gli orologi d’oro della casa da $100.000 dollari). Il comizio principale della settimana è stato quello di Butler, Pennsylvania, luogo del primo attentato subíto a luglio e dunque consacrato a stazione di adorazione nella via crucis di persecuzione immaginata per gli adepti. Il comizio è stato programmato quindi per capitalizzare sull’iconografia eroica della celebre foto con volto insanguinato e pugno alzato, disponibile su t-shirt e scarpe da ginnastica dallo store ufficiale. L’evento ha visto anche la prima partecipazione ufficiale di Elon Musk, che si è presentato in tenuta “dark Maga”, la corrente più intransigente del culto trumpista. Il miliardario sudafricano ha motivato la propria conversione, appunto, con quell’icona eroica, che ha, a suo dire, dimostrato senza possibile dubbio, l’idoneità a governare quella che dopotutto è la “patria dei coraggiosi” (home of the brave). L’uomo più ricco ha poi esortato i presenti a votare contro gli avversari che «vogliono togliervi la parola, le armi e il voto». Musk non è stato turbato dal fatto che il 27 luglio fosse stato semmai Trump a chiedere, a una conferenza di evangelici fondamentalisti, un «ultimo sforzo», dato che in caso di sua vittoria «non sarebbe poi più stato necessario votare». Soprattutto Musk ha ribadito le strumentali falsità che sono diventate il principale contenuto che amplifica sulla sua piattaforma X. L’ex-Twitter è oramai convertito in megafono full-time di allarmismo xenofobo su immigrati clandestini reclutatati per usurpare il voto di Americani veri. Come per gli omologhi europei, gran parte della propaganda amplificata da Musk ruota attorno a temi identitari e declinazioni di cittadinanza, applicabili a ogni contesto. Di recente il padrone di Tesla e Space X ha spinto specialmente la variante per cui la protezione civile avrebbe distolto aiuti agli alluvionati dei monti Appalachi per pagare alberghi di lusso per profughi stranieri. Le varianti sul tema sono infinite e tanto più efficaci, a giudicare dai sondaggi, quanto più esagerate. 

Nei tweet di Musk il canone sovranista è sempre venato del pensiero meritocratico, come si conviene al nazional- populismo rispettabile, nonché nella nuova destra di Silicon Valley. Un suo recente tweet articolava questo concetto paragonando gli Stati uniti a una squadra sportiva, che dall’estero dovrebbe reclutare solo campioni utili a vincere «il campionato» e non brocchi qualunque che poi gravano sul libro paga. Il prossimo passo per l’idea di una cittadinanza funzionale al merito e l’utilità è intuibile da quella che circola sempre più apertamente, di cittadinanza come privilegio conferibile e revocabile a piacere. Sopra a tutto vi è un livello di serenità e fiducia che può trasmettere solo una gara in cui uno dei candidati ha all’attivo un tentato golpe per cui è riuscito a oggi (e forse per sempre) a evadere ogni sanzione.  L’impunità di fatto accordatagli dalla sentenza della Corte suprema, che ha inventato per lui una «piena immunità per atti ufficiali», spiega la spavalderia con cui Trump continua imperterrito a sposare la tesi delle elezioni rubate, usandola come motivante per la propria base. Una settimana fa il procuratore speciale Jack Smith, incaricato del processo sui fatti del 6 gennaio, ha presentato un elenco di 186 pagine di azioni sovversive di Trump che esulerebbero dalle mansioni presidenziali e quindi dall’immunità. La valutazione finale per procedere a un processo potrebbe però nuovamente competere alla stessa Corte. Intanto il negazionismo eversivo è tornato all’onore della cronaca quando, nel dibattito vicepresidenziale, JD Vance, l’aspirante vice di Trump, ha rifiutato di ammettere la sconfitta del 2020 («preferisco guardare al futuro».) Pochi giorni dopo anche lo speaker della Camera, l’integralista Mike Johnson, ha dribblato la domanda. Conferme entrambe, quando considerate assieme alle manovre per elettorali per inficiare in anticipo la credibilità degli scrutini, di una probabile replica delle manovre destabilizzanti messe in campo dal GOP per una “vittoria a tutti i costi”, che metterebbe ancora una volta alla prova la tenuta delle istituzioni.

Un elicottero sorvola il Jefferson Memorial. Foto di Luca Peretti, Washington DC, ottobre 2024

Il ruolo della Corte suprema

Anche per il risultato delle elezioni stesse, potrebbe risultare risolutivo il ruolo proprio della Corte suprema “imbottita” da Trump. La super maggioranza oltranzista del massimo tribunale è attualmente composta da sei togati non solo reazionari ma cattolici – una settima, Sonia Sotomayor, di origini portoricane, è cattolica ma progressista. Una proporzione del 65% in un paese in cui i cattolici sono solo il 25%, è un’anomalia statistica spiegabile con il progetto della Federalist Society per blindare la corte con giudici reazionari e, come implica Opus, il libro di Gareth Gore pubblicato questa settimana, legati all’Opus Dei. Lunedì la Corte ha iniziato la sessione d’autunno con due sentenze favorevoli alle restrizioni all’aborto in Georgia e Texas. Lo stesso giorno il giornale “Politico” ha elencato sei scenari in cui il ruolo di questi stessi togati potrebbe risultare determinante nell’investitura del nuovo presidente. Fra queste, decisioni sui ricorsi “preventivi” già presentati sulle modalità del voto: come e quando contare schede per posta, modalità di scrutinio, accesso al voto nelle zone devastate dall’uragano Helene, facoltà delle commissioni elettorali di squalificare voti impropri. Lo stato attuale è che, assente un plebiscito in un numero sufficiente di swing states, diventi plausibile uno scenario cui, come quella del 2000 fra Bush e Gore, l’elezione posa essere aggiudicata “a tavolino”, ma stavolta da togati apertamente favorevoli al candidato conservatore. Per Kamala Harris è virtualmente assicurata una maggioranza nel voto popolare. La combinazione di collegio elettorale e intervento giudiziario potrebbe tuttavia spianare la strada alla vittoria della minoranza inferendo un colpo devastante alla già pregiudicata democrazia americana.

In copertina: il rito dei palloncini alla convention repubblicana del 2008, foto di Carol M. Highsmith, Library of Congress, disponibile su Flickr

SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS

Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno