ROMA
Un’oasi nella capitale? Voci dalla Laboratoria Berta Cáceres
Nel Parco della Caffarella è stato occupato da un gruppo di attivistə climatici un nuovo stabile. Sono passate le prime due settimane ed emergono le voci e i racconti di chi sta promuovendo la nuova Laboratoria Ecologista Autogestita
È l’undicesima notte alla Laboratoria Ecologista Berta Cáceres e diverse persone sono al suo interno per presidiare lo spazio. Proprio durante quella notte mi capita di parlare con A., una ragazza che è lì dall’inizio dell’esperienza. Nei suoi occhi un po’ gonfi dalla stanchezza si legge tutto l’entusiasmo di un progetto che non ha nessuna intenzione di morire.
Le capita distrattamente, infatti, di raccontarmi come il sabato della prima settimana di occupazione fosse stato organizzato un pranzo sociale, a cui avevano aderito molte persone. La cucina era animata da caos e trambusto e all’improvviso, mentre molti aspettavano ancora il loro piatto, la bombola del gas con cui stavano cucinando è finita. Le chiedo come fossero andati avanti, risolvendo poi la situazione. Lei, con sorriso deciso, mi risponde «siamo andati e basta».
È questa risposta che fa capire lo spirito tenace che anima il neonato collettivo, che nella giungla metropolitana e in un momento storico segnato da pandemia e guerra ha deciso di costruire una nuova quotidianità di lotta per la giustizia climatica e sociale.
È il caso, però, di fare un passo indietro. Perché questa esperienza dà l’impressione di essere così tanto una novità e un’anomalia?
La realtà è che a Roma l’attacco istituzionale verso le realtà sociali è forte e negli ultimi anni ha subito un’impennata non indifferente. Dal 2014 la città non vede nuove occupazioni, vivendo invece sgomberi di indispensabili pezzi della socialità romana.
Automaticamente vengono in mente le giornate novembrine del 2020 in cui sono state chiuse le serrande del Cinema Palazzo. Ma dopo quasi tre anni di pandemia l’attacco agli spazi non è terminato, anzi, realtà sociali come Communia, Esc, Scup, e occupazioni abitative come Valle Fiorita o Viale delle Province lottano da mesi in un incessante braccio di ferro con le istituzioni.
Nel pieno del periodo post pandemico, segnato dalla difficoltà nel far tornare a vivere spazi di socialità e aggregazione territoriale, la crisi degli spazi sociali sotto attacco è ancora più grave.
In questo quadro, la liberazione di un immobile abbandonato nel Parco della Caffarella, avvenuta il 6 marzo 2022, può essere un’importante inversione di tendenza. Per la città, avere ora uno spazio in cui ritrovarsi e ricostruire rapporti umani non tossici è una boccata d’aria fresca.
Come se per mesi, se non anni, molte persone fossero state ammassate dentro un minuscolo vagone del treno e all’improvviso qualcuno avesse fatto loro notare che c’è la possibilità di occupare il vagone attiguo che è ancora da riempire. Inevitabilmente esso viene riempito con velocità inedita.
In questo spazio immerso nel verde la prima settimana è stata fitta di attività. Sono stati proposti due laboratori: il primo riguardante la “comunicazione guerriglia” che analizza tutte le forme per poter emancipare forme non violente di lotta; il secondo, invece è stato un laboratorio sulla cura che ha analizzato il tema in un’ottica transfemminista. C’è stato anche un momento di discussione molto partecipato con la ricercatrice Isabella Pinto sul pensiero di Donna Haraway. Nel contempo, si è iniziato a costruire l’orto, anche mettendosi in contatto con diversi mercati contadini.
Già dopo questi primi momenti, la geografia e la vocazione di questa occupazione appaiono chiare: se da una parte lo spazio (che, non casualmente è stato chiamato Berta Cáceres, in onore dell’attivista hondureña) è rivolto con un’antenna alle lotte internazionali, l’azione di chi ne fa parte vuole concentrarsi localmente. È uno spazio straordinario perché è nuovo: vuole essere intersezionale, evidenziando i punti di giuntura tra i grandi temi degli ultimi decenni e canalizzando diverse energie e esigenze della città.
L’evolversi di questa esperienza è un processo assolutamente lento e complesso. Gli attivisti raccontano, che già i primi giorni sono emersi dei limiti nell’applicazione alla realtà delle teorie politiche a cui si ispirano. Dinamiche di genere sessiste, per esempio, si riproducono facilmente in tutti i contesti, riflettendo il mondo in cui sono inserite.
Anche alla Laboratoria c’è stato un primo momento in cui moltissimi uomini erano dediti a lavori di fatica (come scaricare le casse d’acqua) o lavori tecnici (come montare l’impianto elettrico); mentre le donne erano impegnate nei lavori di cura (come la cucina).
Mi racconta J., «nell’occupazione ho ritrovato un posto dove costruire modi nuovi anche per pensare alla mia stessa persona. L’impegno politico non si vede nell’impeccabile staticità di un collettivo già definito, ma nella dedizione che tutti i componenti applicano per migliorarsi come comunità e come singole persone. Nello specifico, rispetto alle questioni di genere c’è stata subito una riflessione allargata che ha portato nuove idee per la liberazione dai ruoli socialmente imposti: per esempio, per ampliare le conoscenze tecniche e saper montare tuttə un impianto elettrico, è stato organizzato un workshop di sopravvivenza elettrica».
Nei racconti degli occupanti emerge pertanto un’identità forte, ma non definita ed esclusiva; questo progetto ha l’ambizione di essere poroso e non granitico, la Laboratoria Berta vuole essere attraversata e riempita, non lasciando che ciò che succede nel mondo le scivoli addosso.
Parole come ecologia radicale o solidarietà collettiva, possono raccontare una piccola dimensione di Berta, ma la parola che meglio esprime il suo spirito è stata già scelta dai componenti stessi del collettivo: Laboratoria.
Mi raccontano le occupanti «essa si colloca perfettamente in mezzo fra l’essere uno spazio di resistenza e una pratica di conflitto. Al suo interno si svolgono prove e tentativi per costruire una solida alternativa al mondo che viviamo. Per questo, la stessa forma laboratoriale si apre da sé alle difficoltà, alle incongruenze e agli errori. Perché, sbagliare significa che si sta facendo e ora fare, nonostante tutti i rischi, è diventato necessario».
Sorge automaticamente l’idea che la nuova Laboratoria stia perseguendo un tracciato che porta a diventare un’isola felice nel caos della città metropolitana di Roma. Tuttavia, la definizione di isola felice alle Berte (componenti della Laboratoria, ndr) non piace affatto. L’isola felice è un’illusione: è uno spazio in cui ci si chiude per riprodurre in piccola scala l’idea di un mondo migliore.
«Essere un’isola felice potrebbe garantire la sopravvivenza di questo spazio, ma questo è e sarà uno spazio di lotta» racconta J. mentre guarda il cartello con su scritto “Distruggiamo il patriarcato, non il pianeta”. Effettivamente, l’isola è uno spazio isolato da tutti i lati dove non entra e non esce nessuno, dove tutto ciò che avviene rimane al suo interno senza possibilità di diffusione.
Lo spirito di Berta, invece, mira alla contaminazione come pratica politica radicale: per crescere, formarsi ed essere sempre di più c’è bisogno di contagiare ed essere contagiati.
Mi dice una occupante «Sono indispensabili luoghi di scambio dove viaggiatori di tutto il mondo che si fermano per riprendere le energie si possono incrociare, scambiare conoscenze e magari decidere di arrivare alla meta insieme. Inevitabilmente questi luoghi sono piccole, grandi oasi che in oceani di aridità riescono a ridare speranza, grinta e voglia di raggiungere l’obiettivo che ci si è posti. Proprio a partire da esse si può iniziare a iniettare terra nuova per rendere sempre più fertile e attraversabile quello stesso deserto, che sino a oggi ha sfiancato. In quest’ottica, lo spazio Berta Cáceres è proprio un’oasi.»
Un’oasi non è tale perché ci si chiude dentro, ma perché da essa si uscirà e con coraggio, metro dopo metro, si raggiungerà la meta prefissata.
Tutte le immagini di Sabrina Aidi