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Uno, due, tre molti Sanremo
Abbiamo passato una settimana davanti alla TV, a commentare sui social, a discuterne in chat. Perché, com’è noto, Sanremo è Sanremo, anche da queste parti. Ecco il nostro pagellone sulla kermesse sanremese
Inutile negarlo, da alcuni anni Sanremo – o meglio, l’impatto di Sanremo – è cambiato. Se ne parla di più, e in ambienti tra i più diversi, è sempre di più un contenitore che funge da cartina di tornasole per quel che cambia, o non cambia, nella società italiana. Quest’anno poi, gli impressionanti dati auditel confermano anche un pubblico davvero numeroso – insomma, pure chi non lo guarda, difficilmente riesce a esserne completamente avulso. C’entrano i social, sicuramente, i meme ovunque, c’entrano tante altre cose (anche Fantasanremo?), forse pure il fatto che ci siamo rincoglioniti. Anche nel variegato mondo della sinistra alternativa infatti Sanremo non è più qualcosa di lontano da guardare con distacco, snobberia, e pure un po’ di fastidio, ma qualcosa di cui si parla. E parliamone, allora.
Amadeus. Un libro sull’italiano medio potrebbe avere il suo ritratto in copertina, altro che Alberto Sordi. Corricchia a prendere fiori («oggi li porto a tutti!»), sorride, si fa baciare da Blanco, ringrazia, applaude, rappa, fa l’autista per i Måneskin, si confonde, va a baciare la moglie, dà un buffetto al quasi ventenne Matteo Romano, promuove, fa cose, ricorda allo sfinimento le regole della competizione, i cambiamenti del canone Rai e quant’altro. “Ama” fa coppia con chiunque passi di lì, ogni volta facendo finta di lasciare spazio all’ospite di turno, un ruolo (apparentemente) più in sottrazione degli scorsi anni. In realtà è sempre lui che ha le redini del gioco, da tre anni, e la sovraesposizione è ormai evidente. Forza Amadeo Umberto Rita Sebastiani, che per eguagliare Pippo Baudo mancano ancora dieci edizioni, se possibile non le prossime dieci.
Fiorello che fa la linguaccia. Fiorello che bacia un uomo (wow! trasgressivo). Fiorello che guarda tu se ancora bisogna parlare di Fiorello, da trent’anni a questa parte, da quando rovinava poesie già non eccelse di Giosuè Carducci e con Karaoke andava di paese in paese come l’ultimo degli imbonitori. È riuscito a farsi prendere per il culo da “L’Osservatore Romano”. Basta per favore, ci basta il fratello in tutte le fiction, chiediamo una moratoria su Fiorello.
Achille Lauro. Anche qui, vedi Fiorello, varrebbe l’essere riusciti a farsi sfottere dal giornale del Vaticano. Però: l’Osservatore Romano ha ragione sul fatto che il suo riferimento è sempre e ormai costantemente all’immaginario religioso. Per Achille, come per Croce, «non possiamo non dirci cristiani». Però poi “L’Osservatore” attacca un ritornello risaputo: lo vedete, tornate sempre in Chiesa, non c’è più la trasgressione di una volta. La trasgressione, in fondo, è un discorso che piace ai preti, è utile per santificare l’ordine “normale” delle cose. Contro i reazionari che cantano interessati inni alla trasgressione “autentica” e tirano fuori David Bowie solo perché è sempre meglio quello che c’era prima, viva allora i battesimi “finti” di Achille. Lauro, probabilmente, è cristianissimo davvero, non ha nessuna intenzione di trasgredire. Lui infatti spacca davvero quando si offre come “ecce homo”, quando si espone alla colpa e all’espiazione: la sua è la via mistico-masochista alla liberazione dalla Gabbia. Come Servo d’Amore, inginocchiato davanti alla grandissima Loredana Bertè, è invincibile. Vorremmo, piuttosto, che Lauro sperimentasse almeno una volta, una domenica non “come se fosse”, una “resurrezione” gioiosa, un desiderio di rivoluzione, un corpo non sacrificale. Allora sì, c’è da giurarci, che al “L’Osservatore“ si arrabbierebbero sul serio.
Loredana Bertè. Dominatrice assoluta, prende la lettera che le consegna il Lauro tremante e neanche la legge. Le scuse, caro uomo, non si scrivono, semmai si implorano. Anche quest’anno, siamo tutt* figl* tuoi.
Ornella Muti è nata nel 1955.
Sabrina Ferilli ha portato la schwa sul palco dell’Ariston, facendo un meta-monologo non monologo di alta qualità, malgrado la trita citazione di Italo Calvino – le Lezioni Americane, il libro più citato a sproposito della cultura italiana.
Fantasanremo. Al secondo giorno è diventato evidente che sentir “papalina” “Zia Mara” “Fantasanremo” detto a caso sul palco sarebbe stato tutto fuorché divertente. Amadeus però, dall’alto del suo implacabile e francamente stucchevole aplomb, ha continuato a sorridere ogni volta lasciandosi andare al massimo a qualche mezza battutina, o persino stando al gioco (le flessioni sul palco non erano la conseguenza di un improvviso desiderio di fitness), lamentandosi – sempre col sorriso – solo l’ultimo giorno, «mi hanno tirato dentro a questa cosa…». C’è da dire che gli amici del bar Papalina di Porto Sant’Elpidio ci hanno visto giusto. L’idea è semplice, in fondo, in un paese di calciofili ci si stupisce non sia venuta prima a qualcuno. Ma nessuno, forse neanche Sky (concorrenza di chi fa vedere Sanremo, in teoria) che l’ha sponsorizzata si aspettava un successo del genere e che diventasse parte stessa della gara, vista la complicità di davvero tanti cantanti (ma loro ci giocano al Fantasanremo?), sul palco ma anche fuori – Emma addirittura inseguita dai Carabinieri, «quanti punti sono al Fantasanremo?», si chiede live su Instagram con tanto di lampeggiante dietro. Per la cronaca, uno dei due autori ha lottato strenuamente per ultimo nella sua lega, tradito soprattutto dall’acquisto di cuore, invero costato pochi Baudi (la moneta sonante del Fantasanremo), di Giovanni Truppi.
Zalone. Chi scrive pensa che le opere del comico pugliese meritino una lettura articolata. Che, per esempio, Tolo Tolo, sia un’opera stratificata e che offre una lettura complessa dei rapporti tra Europa e Africa, e che anche gli altri suoi film fossero meno scontati e semplici di quello che molti pensano. Che, però, le ambiguità non sono più tollerabili. Se ti portano in trionfo i “forti” e ipocriti che dici di voler colpire, e ferisci puntualmente chi potere non ne ha, allora tocca cambiare registro: tanto Pandemia ora che vai via, magari in duetto con il governatore Toti, sfonderebbe senza problemi. Negli esercizi critici, veri o presunti che siano, l’efficacia è decisiva, non l’intenzione, il criterio è “funziona/non funziona”. E allora, con l’aria che tira, quantomeno, «caute!», diceva quel tale.
Chimica chichichimica. La “Repubblica” dice che il ritornello con una sola parola ha stufato. Più chichichimica e meno “Repubblica”.
La rappresentante di lista. Stop greenwhashing! Evviva! La canzone più autorevolmente candidata al tormentone estivo è quella sulla fine del mondo! L’abbiamo imparato dai movimenti ecologisti: se è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo, allora cominciamo con l’immaginare la fine del mondo. La fine del mondo è possibile, la sua realtà è qui: ma questo non paralizza nessun*, anzi ci muoviamo dentro come regine e a pugni alzati. Qualcun* l’ha chiamato comrade baiting: ebbene sì, noi abbiamo abboccato con tutto l’amo.
José. Alla fine, dopo giorni in cui lo abbiamo visto inquadrato, citato, indicato, l’ultima sera il figlio di Amadeus, José (nome che ha ereditato da un José più famoso), ormai stabilmente parte dello show, è stato valorizzato da Sabrina Ferilli, con tanto di photo opportunity e abbraccio.
Iva Zanicchi. C’era molta preoccupazione, questa signora apertamente di destra, nota gaffeuse, poco abituata ormai a palchi di questo tipo. Dalla prima sera, di nero vestita, zia Iva ha confermato e smentito tutte le nostre paure. Prima quel suo modo così paternalistico, così italico, di parlare con Lorena Cesarini, poi la scenetta con Drusilla (sono amiche da una vita, si sono poi affrettate a spiegare), poi l’omaggio a Milva che sembrava proprio di stare negli anni Sessanta. Alla fine, più che dai suoi amici di destra, è stata adottata sui social dagli ultimi reduci delle sinistre populiste: Iva sarà un po’ reazionaria, magari davvero un tantinello transfobica, ma è la resistenza nazional-popolare alla ferocia sprezzante dei liberal di Drusilla. Ligonchio sovrana.
Elisabetta Canalis è nata a Sassari nel 1978. Dopo il liceo, si è trasferita a Milano per lavoro. Adesso abita a Los Angeles. La sua Liguria.
Mahmood e Blanco. Siete tutt* noi, questo è poco ma sicuro. Innanzitutto, c’è ovviamente la partita grossa che si sta giocando nella società e che Sanremo ha illustrato in questa edizione quasi didascalicamente: il “bar sport” maschilista tra stereotipi e battutacce contro una ridefinizione radicale dell’idea di maschilità. C’è però un altro motivo fondamentale per schierarsi con tutto il cuore con Mahmood e Blanco: cantano un amore che sarà pure da brividi ma sa bene di essere tutto al condizionale (di incondizionato, nella vita, c’è solo il bisogno di un reddito). Ti vorrei amare è per il precariato quello che fu il für ewig per Gramsci, ogni “per sempre” precario è tremolante come l’autotune. Aver conquistato il fortino dell’Amore Eterno, il Duetto all’Ariston e averlo sostituito con la passione folle del “poi vediamo come butta” è egemonia autonoma e precaria realizzata.
Gianni Morandi. Si autocoverizza, personaggio di se stesso in un vortice di maschere che Drusilla ti saluto e ha il suo trionfo nel finale fantasmagorico della terza serata: lui si esalta mentre il governatore della Liguria prova ad abbracciarlo impugnando la palmetta-premio e proclamando a gran voce «il festival della liberazione» (pandemia ora che vai via: “evviva la normalitààààà”, Amadeus dixit). A Jovanotti cascano i pantaloni. Bonne nuit, ciao ciao, danzando sulla fine del mondo non sappiamo cosa scartare (come direbbe la nostra regina bolscevica). L’ultima serata fa un passo avanti («sono io il terzo!»), e affianca Amadeus nella consegna del premio finale. Apoteosi.
Giovanni Truppi. Che la verità è di parte lo si sa, e quindi, essendo di parte, diciamola intera. Quando pensi che l’etica non è discorso, ma postura, anche coraggio, pensi a gente che lavora da decenni come Truppi. Il nostro punkautore sceglie a Sanremo di apparire come cantautore, ma è il Cinico foucaultiano in canotta. E con il Mago e il Violinista (all’armonica), mostrano che il “dentro e contro” si può proprio praticare, si può far altro che piangere sui fiori appassiti e sui Fuori perduti. E però la faccenda seria è che, per essere dentro e contro, devi avere quel fisico lì, devi avere un qualcosa a che fare con la verità, sennò ti rovini. I Diogene con la pianola e gli anarchici di Carrara qualcosa a che fare con la Verità ce l’hanno.
Costa. Qualcuno ha storto il naso, per la Costa Toscana, ma come, proprio dieci anni dall’affondamento della Costa Concordia. Siamo realisti però e. anche se continuiamo a volere l’impossibile, difficilmente possa esserci un Sanremo senza sponsor. E allora, visto che dobbiamo sorbirceli, tanto vale farlo con «i miei comandanti» (cit. Amadeus) Fabio Rovazzi – quando è diventato vagamente simpatico o quantomeno appena più che insopportabile? – e la nuova-vecchia icona pop Orietta Berti (miiiiilllleeee ahhhhhh) vestita nel modo più assurdo possibile, ogni sera di più. La formula nipote-zia funziona, le battute scorrono bene e loro due sembrano almeno sul palco volersi tanto bene. Solo che non funziona altro e questa specie di Ariston displaced è parecchio inspiegabile. Quando alla fine Rovazzi, guardando dritto in camera ha detto «ci proviamo», la difficoltà di tirar fuori qualcosa di decente da questa situazione è venuta a galla, dopo essere rimasta inutilmente in rada per una settimana.
Irama. Noialtri lo sappiamo bene: in fondo, non abbiamo da perdere che le nostre catene.
Tananai e Rosa Chemical. Sarà forse perché siamo cresciuti a trash party o forse perché al soldo anche noi di Gucci e “sussunti” da Alessandro Michele (ipotesi manco male). Più probabilmente è perché «trovare l’amore è un lavoro, ti rimorchio su Linkedin» raggiunge il tasso di materialismo storico da noi doverosamente richiesto per battezzare felicemente la fluidificazione di Sanremo e quindi siamo a posto con la coscienza (di classe). E però davanti all’Ariston in piedi a cantare «scoppia scopami scoppia il cuor», ci siamo, doverosamente, commossi.
Rkomi. Noi proviamo a fare il nostro lavoro con scientifica attenzione alla trasformazione della composizione sociale e alle nuove tendenze. Non possiamo esimerci, dunque, dal segnalare la presenza decisiva nel testo di «due molotov in fiamme». Poi fate voi.
Massimo Ranieri. «…di là dal mare. Dove piove fortuna, dov’è libertà…» Qui in ultimo, un solo, pieno e forte: RESPECT.
Immagine di copertina e nel testo dall’ultima serata del Festival di Sanremo. Immagine del Teatro Ariston e di una vecchia edizione del Festival da Wikimedia Commons.