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MOVIMENTO
Un’altra via per le Indie. Intorno alle pratiche e alle culture del ’77
La saldatura tra vita, pratiche culturali underground e istanze rivoluzionarie e proletarie. È questa per Primo Moroni la novità dirompente rappresentata dall’esplosione di desiderio e liberazione nel movimento del ’77, che avviene non a caso nel momento della rottura del paradigma fordista e del compromesso che aveva porta con sé, con l’irrompere nella scena di nuove soggettività oltre l’operaio massa
LA VICENDA DI CHI CERCA UN’ALTRA VIA PER LE INDIE
E PROPRIO PER QUESTO SCOPRE NUOVI CONTINENTI,
È MOLTO VICINA AL NOSTRO MODO ATTUALE DI PROCEDERE
È una delle tante scritte creative di cui erano costellati i fogli del movimento ’77. In questa e in altre espressioni metaforiche appare evidente la sollecitazione a immaginare e il desiderio di rompere con il linguaggio ripetitivo e stanco della politica. Eppure molti di coloro che, almeno nella fase iniziale, diedero vita a quella sterminata produzione quotidiana di fogli e giornali, proprio dalla politica venivano e in questa avevano investito energie e intelligenza soggettiva e collettiva. Ancora oggi è piuttosto difficile tracciare una genesi sensata e comprensibile dello straordinario rovesciamento della produzione di senso che si sviluppò nel breve periodo che va dall’inverno ’75 alla fine del ’77. È difficile comprendere che molti di coloro che diedero vita comunicativa a quella stagione di rivolta, avessero trovato dentro se stessi sia la cronologia della propria vicenda personale e militante, sia le ragioni della distruzione e del superamento della stessa per rinascere dentro nuovi universi vitali così accidentati e radicali da sfiorare il crinale sottile che separa la razionalità concreta dalla follia desiderante.
E a chi ci chiede dove intendiamo andare rispondiamo che le soluzioni sappiamo trovarle solo quando la situazione ha maturato la loro possibilità.
A distanza di così tanto tempo verrebbe la tentazione di riferirsi a una specie di illuminazione come a volte avviene per certi scienziati che dopo aver studiato molto tempo un problema, seguendo un protocollo scientifico conosciuto e da tutti praticato, improvvisamente e “casualmente”, uscendo dai canoni della pur colta consuetudine, trovano il grimaldello che scardina l’oscurità del dilemma che era apparso fino a quel momento irrisolvibile. In realtà tutti coloro che si occupano di epistemologia sanno che invece quella “casualità” era incisa nell’accumulazione cangiante di tutti i saperi precedenti e che solo l’ortodossia burocratica aveva impedito fino a quel momento il suo affermarsi come senso comune.
Così, le intuizioni comunicative del ’77 avrebbero potuto essere e rimanere un’ esperienza di laboratorio culturale se non si fossero invece immediatamente rivelate una formidabile interpretazione sovversiva dei movimenti reali che si formavano all’interno dei processi materiali in rapida trasformazione. E questa sinergia tra crisi delle politiche precedenti, ricerca di nuovi strumenti di analisi/intervento e soggettività diffuse, finì con il produrre un’ondata rivoluzionaria pressoché inedita e sconosciuta, nella sua sintesi compiuta, ai movimenti precedenti.
Un muoversi «polìcarpico» scriverà Enrico Palandri nel suo romanzo Boccalone, uno dei pochi testi di letteratura espressi dal movimento ’77 pubblicato dalle edizioni Erba Voglio di Elvio Fachinelli. Il fatto che le stesse edizioni avessero stampato anche Alice è il diavolo e Alice disambientata, relativi all’esperienza di Radio Alice di Bologna, è abbastanza indicativo delle affinità esistenti tra le “culture” dell’omonima rivista di Elvio (Laing, Cooper, le controculture underground, le pratiche antiautoritarie, il Marx giovane dei Manoscritti, le «dialettiche della liberazione» ecc.) e alcune delle componenti esistenziali e culturali degli universi vitali frastagliati del movimento ’77. Questi universi ponevano con forza non solo un modo totalmete diverso di concepire il rapporto vita-politica, ma anche una serie di contenuti e valori che non erano mai stati messi all’ordine del giorno – dal ’68 alla prima metà degli anni Settanta – dalla progettazione politica sia istituzionale che extraparlamentare.
L’altra iniziativa editoriale strettamente intrecciata con quella breve e innovativa stagione di rivolta è stata Squi/libri, che pubblicherà estratti dalla rivista «At/ traverso» (Finalmente il cielo è caduto sulla terra), i materiali (importantissimi) dei Circoli del proletariato giovanile milanesi (Sarà un risotto che vi seppellirà), testi letterari e autobiografie di movimento. Squilibri pubblicherà anche L’ideologia francese, una dura polemica contro i «noveaux philosophes» (Clavel, Glucksmann, Bernard-Henri Lévy ecc.). Un libro che smascherava un pensiero che pur esplicandosi sul terreno del movimento (la critica dello stalinismo) finiva per essere l’occultamento di una necessità tutta capitalistica ed «eurocomunista» (nella dizione ’77 «neurocomunista») di ristrutturazione, a «livello europeo dello Stato, che partiva dall’esigenza di disciplinare rigidamente un mercato del lavoro che l’ondata di lotte degli anni’ 68-73 aveva reso ingovernabile»,
Nelle teorie dei «nouveaux philosophes» (ma anche di uno “storico” come Furet, che sarebbe poi diventato uno dei più importanti esponenti del «revisionismo storiografico») risultava evidente il ruolo degli intellettuali a copertura della nuova progettualità capitalistica. Un ruolo che finiva per accomunare i francesi all’appello rivolto da Berlinguer ai colleghi italiani nel famoso convegno al teatro Eliseo, cioè la richiesta di «ridurre la cultura a organizzazione a più voci del consenso».
In questa direzione c’era piena affinità tra il piano Barre in Francia contro chi rifiutava un impiego proposto dagli Uffici del lavoro, il «preavviamento» in Italia e il Berufsoerbot in Germania. Il problema che le élite capitalistiche avevano in comune consisteva nel fatto che «era divenuto insufficiente un controllo del mercato del lavoro attraverso le stratificazioni salariali e le divisioni razziali, etniche, sessuali, culturali, in quanto queste differenze avevano finito per rovesciarsi in fattori di insubordinazione e di organizzazione autonoma».
Dentro questo schema appariva evidente la funzione del lavoro intellettuale tecnico-scientifico. Il suo sviluppo era stato accelerato dalla stessa insubordinazione operaia e dalla necessità di ricondurre la forza-lavoro al controllo. Il ruolo di questi lavoratori aveva finito per subire una proletarizzazione che, tendenzialmente, li trasformava in un possibile settore trainante della ricomposizione di classe. E se già nei movimenti del ’68 era stato sottolineato il ruolo del tecnico (qualsiasi tecnico, piccolo o grande) e dello scienziato come forza ostile alla classe, nel nuovo contesto il lavoratore intellettuale (sia che si trovasse a operare nell’Università o nel campo dell’industria culturale e del consenso, sia che operasse nel settore dei servizi fino alla sua tendenziale militarizzazione nel ciclo del nucleare) diventava di fatto uno dei soggetti di classe più importanti per la strategia capitalistica.
Sottrarre il sapere come lavoro vivo dell’intelligenza, come forza-creatività, al dominio del sapere sociale accumulato come capitale. Rompere questo dominio significa anche acquisire la coscienza che il sapere non può più essere (non deve essere) una polizza di assicurazione per garantirsi il lavoro salariato, ma lo stesso terreno, la stessa determinazione delle possibilità della soppressione del lavoro salariato.
Queste riflessioni, liberamente estrapolate dal testo delle edizioni Squijlibri, forniscono nella loro sinteticità una notevole filigrana del quadro di analisi in cui si trovano a operare le nuove intellighenzie del frammentato e proteiforme movimento ’77.
E non è meno importante che queste analisi siano contenute in un testo teorico che partendo da una polemica politico-filosofica estende il suo campo di azione alle basi materiali, culturali e teoriche che il movimento stesso deve darsi per avere vita e progetto. In questi testi si ritrovano i riferimenti ai soggetti reali che compongono la galassia movimentista: le donne e l’emergere a livello di massa del movimento femminista; il proletariato giovanile di fronte al progetto di nuovo disciplinamento senza diritti (lavoro nero, ciclo del sommerso ecc.), un processo che non solo annulla la grande fabbrica come «luogo dell’espressione» ma che difficilmente ne troverà altri nel circuito produttivo disgregato e diffuso; il nuovo ruolo degli studenti (a Bologna saranno i cosiddetti «fuori sede» l’ala trainante della rivolta) e il loro interrogarsi sulle funzioni del lavoro intellettuale fino a riscoprire la memoria sopita dell’opera di HansJurgen Krahl (Costituzione e lotta di classe e le Tesi sul rapporto generale di intellighenzia scientifica e coscienza di classe proletaria); il ciclo di lotte del terziario che avrà, per questo settore della forza-lavoro, lo stesso significato che aveva avuto il ’68-69 per l’operaio metalmeccanico; l’esaurirsi della centralità della fabbrica come luogo esclusivo del conflitto che assicura spazi di libertà a tutti gli altri movimenti sociali collettivi.
Agli operai come al solito diciamo poche parole, così ci intendiamo: non mettetevi in salvo e insorgete subito.
La generazione del ’77 assume spontaneamente e radicalizza la tematica del rifiuto del lavoro, cioè nega che il lavoro industriale della grande fabbrica possa rappresentare un fondamento costitutivodella sua identità. Ma, nello stesso tempo, ipotizza che il lavoro intellettuale sussunto al processo produttivo (da qui importanti riferimenti ai lavori di Alfred Sohn-Rhetel e di Paul Mattick) possa essere «liberato. per far diventare «la scienza, la cultura, l’arte, la stessa creatività,il terreno su cui fondare i nuovi conflitti e lenuove identità sociali».Che questo terreno contenga in sé tutte le potenzialità per diventare il«laboratorio scientifico della sovversione. verso la distruzione della «prestazione» e contemporaneamente quello della scienza della trasformazione.
Cioè, non possiamo pensare che se occupiamo una zona per tre giorni, mentre mille compagni difendono le barricate con gli ultimi ritrovati della scienza della distruzione, altri cento stanno dentro ad applicare gli ultimi ritrovati della scienza della trasformazione? Che quando ce ne andiamo e togliamo le barricate, nel luogo che abbiamo occupato i macchinari funzionino in altro modo e siano disposti in altra maniera?
L’emergere dei grandi sistemi tecnologici e informatici è intuito come settore di intervento strategico. L’intelligenza tecnico-scientifica, applicata e destinata al controllo dell’ erogazione del lavoro vivo, può cambiare di segno indirizzandosi alla produzione di una soggettività alternativa, quella dei «sisternisti competenti» capaci di creare le condizione per un uso liberante dell’informatica, capaci di piegarla a un diverso uso sociale verso la soppressione del lavoro (e sta in questo la radice del cyberpunk).
Sullo sfondo di queste azioni-riflessioni la forza devastante della ristrutturazione industriale e del decentramento produttivo che centrifuga i soggetti sociali nei territori metropolitani e nei grandi hinterland. Una ristrutturazione segnata dall’intreccio tra grande, media, piccola fabbrica, terziario e lavoro nero che, a differenza di quanto sosteneva il Pci, non portava a un «restringimento della base produttiva» (per alludere a una riduzione quantitativa e qualitativa di classe) ma, al contrario, a un suo allargamento decentrato e selvaggio.
Ed è proprio questo il territorio (metropolitano e sociale) dal quale partire, e nel quale operare, con un nuovo movimento di classe che «non deve prendere il potere» (ancora una volta contrapporre al fascino del potere la simpatia della liberazione) ma trasformare continuamente se stesso e il mondo.
D’altronde, lo stesso movimento della Flm (Federazione lavoratori metalmeccanici) e dei Consigli di fabbrica, che pure nel ’74 aveva prodotto la più avanzata piattaforma contrattuale mai conquistata da un organismo operaio dell ‘Europa occidentale, era entrato in crisi come forma di potere della forza-lavoro. Stretto nella morsa delle segreterie delle Confederazioni sindacali, che volevano riportare al «centro la contrattazione», finiva con il perdere le proprie funzioni insieme al declino del modello produttivo di cui era espressione speculare. Si direbbe oggi: come espressione matura e irriducibile dello storico «compromesso socialdemocratico fordista», ma di questo, inesorabilmente, esito e negazione.
Non si può affermare che ci fosse allora la piena coscienza di una svolta così epocale, ma indubbiamente la devastante trasformazione produttiva determinò l’entrata in crisi delle forme di rappresentanza extraparlamentari che furono il sensore di una più vasta crisi che avrebbe poi investito tutte le altre forme di rappresentanza del sistema dei partiti.
Così, se i raffinati analisti della nuove riviste «Quaderni del Territorio», «Primo Maggio», «Rosso», «Controinforrnazione») già parlavano di fase post- taylorista e di fabbrica diffusa (oggi si direbbe: esternalizzazione, contoterzismo, postfordismo), il movimento ’77, con il suo emergere fragoroso e inaspettato, pone la metropoli e la molteplicità dei soggetti prodotti dall’offensiva capitalistica (la «scomposizione di classe» come terreno iniziale del nuovo agire rivoluzionario) al centro della propria azione di rivolta. E pone questi problemi con una forza di analisi per molti versi anticipatrice in rapporto ai pur agguerriti laboratori dell’ operaismo e della stessa Autonomia operaia organizzata o diffusa la quale tenterà invano (producendo non pochi danni e confusione) di prendere la direzione del nuovo movimento.
E se è vero che grande è stata l’importanza delle culture e delle controculture nel delineare l’azione del movimento ’77 (si pensi al lungo confronto con Focault, ma anche con l’opera di Sartre sul ruolo dell’intellettuale: «engagement» e «intellettuale specifico» ),la sua caratteristica peculiare, in rapporto ad altri fenomeni europei, è stata che questo nuovo proletariato metropolitano si era immediatamente rivelato come forza produttiva difficilmente disciplinabile, proprio perché i suoi universi vitali di riferimento non erano riducibili alle categorie del politico, della piattaforma rivendicativa o della rappresentanza. Ma proprio per questo non erano nemmeno riducibili alla sfera delle controculture (come sarebbe poi stato il punk).
La scomposizione sociale messa in atto dal comando capitalistico diviene terreno fertile «policarpico» appunto, del nuovo agire rivoluzionario. Si produce un “trip” collettivo che finisce per liberare corpi, soggetti, creatività, culture e riferimenti assai eccentrici in rapporto alle esperienze di sovversione precedenti. In un breve spazio di tempo (uno, due anni) si verifica un’autentica esplosione di teorie, riflessioni, testi di riferimento che non avevano mai avuto centralità prima di allora. Ciò consente invece ai nuovi soggetti una confidenza e una pratica che finisce per rovesciare il rapporto teoria/prassi o struttura/sovrastruttura.
Il movimento dei non garantiti ha prodotto un’enorme testa, una mole di proposta teorica e strategica che ha pochi confronti nella storia secolare del movimento comunista, ma ora c’è un corpo gigantesco che può e deve muoversi. Ma occorre togliere al movimento il carattere di movimento degli studenti, e definirne, anche nel territorio, il carattere proletario dando corpo in modo irreversibile alla creazione di zone liberate non solo nell’Università ma nei quartieri operai, costruendo un cordone sanitario che tolga consenso a ogni risposta dello Stato.
Su questo terreno i«policarpici» si imbatteranno anche in Agnes Heller e nella sua rilettura dei bisogni in Marx. Saranno però capaci di evidenziare i limiti della sua analisi che voleva la classe operaia come soggetto portatore dei bisogni più radicali. Sul piano teorico preferirono la ricerca di Deleuze e Guattari (L ‘anti-Edipo ) che vedeva il soggetto desiderante «sottrarsi» al dominio delle forze materiali e ai limiti dell’ «appartenenza di classe» per a/traversare tutte le possibili figure sociali in separazione (i giovani operai, i disoccupati, i lavoratori marginali, gli intellettuali proletarizzati, i microcomportamenti, i gay, le donne, l’assenteismo, il sabotaggio ecc.) e per determinare una diversa ricomposizione in «divenire», una determinazione a sottrarsi alla prestazione lavorativa comandata e a un mutare in continuazione che necessita di linguaggi totalmente nuovi e sottratti alla sfera del politico (ed è questo «il cielo che finalmente è caduto sulla terra» ).
Da qui l’attenzione quasi spasmodica verso la costruzione di forme espressive molteplici e de/liranti. Le uniche nei fatti capaci di dare senso alla liberazione e al desiderio sottratti al dominio del politico e della produzione. Majakovskij, quindi, e il suo rifiuto della scissione fra movimento e partito, fra forma quotidiana del l’esistenza e politica, fra trasformazione della vita e cambiamento del mondo.
Ma questa volta Majakovskij non si ucciderà: la sua piccola browning ha altro da fare.
“Un’altra via per le Indie. Intorno alle pratiche e alle culture del ’77”, in
Aa. Vv., Settantasette. La rivoluzione che viene, [volume ideato e
coordinato da Sergio Bianchi e Lanfranco Caminiti], Castelvecchi,
Roma, 1997