CULT
Una spia nella casa del food
Cosa fa una cameriera e come tutto il settore della ristorazione stia peggiorando quanto a retribuzioni e cultura del cibo. Dalla biografia all’attivismo delle Clap
Nelle edizioni Einaudi una serie specifica dei Quanti (collana di piccoli e-book) è dedicata al tema “Lavori” – non “lavoro”, stante la nebulizzazione e delle attività e del loro sfruttamento – e quindi al conflitto che sempre più aspro ne scaturisce. Storie assortite di vita, depressione, resistenza. A Sarah Gainsforth è toccato “Cameriera”, un mestiere tipico da lavoratore povero, che resta sul filo della sopravvivenza (o anche sotto) e viene esercitato spesso come primo impiego non specializzato e provvisorio in attesa di meglio. Tuttavia non si tratta di un azzardo esistenziale ma di un fenomeno di massa, della prima voce della filiera (commercio e turismo) più richiesta nella domanda occupazionale, ben 18%, e ovviamente consigliata a tutti gli studenti come sbocco professionale dalle circolari dell’ineffabile ministro dell’Umiliazione e del Merito, Valditara.
Sarah vuole uscire di casa e dalla famiglia, sebbene ami entrambe, e concluso il liceo se ne va, finendo inevitabilmente a San Lorenzo e cercando lavoro nei pub. Migra come un uccello – segue, del resto, le orme del padre, che aveva vagabondato fra il riformatorio e due continenti – e però a inizio millennio così fanno in molti e il ramo turismo e ristorazione da allora non fa che crescere e le retribuzioni a scendere. D’altronde, altri lavori, a volerli, non ci sono: dopo la crisi del 2008 il manifatturiero ha perso il 23% e l’occupazione si sposta nel terziario, per metà servizi di albergo e ristorazione e lavori domestici. Tutto sottopagato, per non parlare del nero.
Nel 2021 un lavoratore su tre prende meno di 1.000 € al mese e una bella quota degli stessi sta sotto il livello del reddito di cittadinanza; il 64% degli addetti al settore alberghiero e della ristorazione è a tutti gli effetti formato da working poor, con orari di lavoro prolungati e discontinui. La situazione descritta nel libro è quindi addirittura un eden, paragonata a quanto è venuto dopo, soprattutto dopo la pandemia, che ha falcidiato il settore, massacrando il personale ma rimpinguando gli esercenti superstiti, che hanno ottenuto sconti fiscali e risarcimenti dallo stato nonché gratis dai comuni gli spazi per invasivi dehors.
Ma torniamo ai primi 2000, all’eden della libertà assaggiata, perfino a un locale in una piazzetta pedonalizzata di Trastevere dove ci si trova bene, «ha un’anima». Il padrone è bravo e i colleghi simpatici. Un “progetto di libertà“ ed è già qualcosa.
L’alloggio è invece un problema (e lì Sarah Gainsforth si forgia quale futura sociologa della casa). Guadagna circa 800 euri a mese su tre o quattro turni a settimana e non può lamentarsi, ma se ne vanno 450 fra bollette e affitto, condividendo l’abitazione con tre ragazzi e una ragazza. Pochi mobili, pavimento a mattonelle e tante feste, cinema, biciclettate, incursioni con il treno notturno a Parigi. Prima che voli Ryan Air.
Al lavoro, però, bisogna arrivarci, tagliando tutta Roma da Sanlo a Trastevere. Il 71 non passa mai (esperienza consueta a tutti i romani e tuttora constatabile all’alba del 2023!), poi bisogna cambiare, a volte anche a Roma piove ed è un disastro, i taxi sono cari, possono mangiarsi un quarto del salario giornaliero e tornarsene in bici alle tre di notte è tutto in salita, dal livello fiume al colle Esquilino. Con i piedi gonfi dopo nove ore di lavoro.
Già, perché anche il lavoro è un eden relativo. Sarah non si rilassa certo servendo ai tavoli ma è curiosa, apprezza i dettagli. Impara con piacere a non far rumore affettando le verdure mediterranee sul tagliere o stappando le bottiglie dopo aver esibito l’etichetta all’avventore.
Soffre nelle fasi d’ozio, guardando attraverso i vetri, di lunedì, i sampietrini bagnati. Decifra e sopporta i clienti, si sente esposta, come se recitasse una parte, e vuole concentrarsi sul lavoro. Si muove con la precisione elastica di un pugile (ha letto Loïc Wacquant) e guai a interferire con il suo ritmo – «non bisogna mai e poi mai provare ad aiutarla afferrando qualcosa da un vassoio pieno». Una sola volta accetta di uscire con un cliente e le capita un aspirante psicologo comportamentista, che sfiga per una ragazza complicata. Prima che arrivino le folle si può dialogare con gli artigiani che ancora fronteggiano il locale, c’è da tenere a bada i vigili malintenzionati e impiccioni. Ryan Air non scarica ancora orde rumorose di turisti, gli studenti americani a caccia di sciottini a 1 € sono pochi e la gentrificazione spinta del quartiere è solo agli albori.
Gli anni sono passati, il bar è cambiato di gestione e il simpatico proprietario ha cambiato mestiere. La piazzetta del Velabro dove si affaccia la casa d’infanzia dell’autrice è blindato da cancellate Fendi e sovrastato dal Rhinoceros, con i suoi sofisticati menu virtuali. La ristorazione è ascesa a cultura del FOOD: «Cibo autentico, cibo alternativo, cibo etnico, cibo tradizionale. Ristoranti con piastrelle di smalto lucido, bistrot e pokerie prendono il posto di negozi di frutta e verdura, casalinghi, bar e alimentari. Nel 2017 le attività food presenti nella zona sito Unesco di Roma, un decimo della superficie urbana, erano il 18,5% di quelle presenti nell’intera città. L’imperativo è mangiare, consumare, ovunque, qualsiasi cosa. In mezzo al nulla spuntano parchi enogastronomici e centri commerciali, nei cortili di edifici storici si apparecchiano tavole, si montano stand, compaiono espositori di salumi e assaggini di prodotti “tipici-locali”. Non si trova più una normale pizzeria al taglio, una trattoria o un bar che non voglia offrire anche un qualche tipo di “esperienza”». E naturalmente dove c’è “esperienza” c’è “resilienza” – degli addetti, beninteso, cioè abbassamento dei salari, precarietà dilagante dell’occupazione, inasprimento delle condizioni di lavoro.
E la reazione dell’autrice, che è materialista e non romantica, è allora non la nostalgia della città di un tempo e di un mestiere abbandonato, ma l’impegno sindacale a migliorare le condizioni retributive e a potenziare e riqualificare le misure di Naspi e reddito di cittadinanza, che, seppure insufficienti, hanno contribuito a rafforzare la fiducia dei precari in sé, nelle istituzioni e nel futuro, aiutandoli a rifiutare le offerte schiavistiche di lavoro – ah, non si trova più nessuno che voglia lavorare dodici ore al giorno per quattro euro all’ora, tutti fannulloni sul divano. Quando invece sono spesso gli esercenti a stare sul divano trovando personale in nero sottocosto proprio grazie al loro percepire un sussidio integrativo pubblico, RdC o cassa integrazione all’epoca Covid del solo asporto.
Si indica di conseguenza come via d’uscita l’attivismo delle Clap, le Camere del Lavoro autonomo e precario, sindacato autorganizzato che sta colmando «un vuoto, lasciato dai sindacati tradizionali, nella difesa dei diritti di lavoratori impiegati in un mercato profondamente frammentato, mirando a sindacalizzare chi lavora nei call-center, nelle pulizie, ma anche i grafici, i ricercatori e gli operatori sociali, al di là di categorie tradizionali».
Un tempo sociologi e scrittori facevano “osservazione partecipante”. Che vi si ritorni è un buon segno.
Immagine di copertina da Édouard Manet Il bar delle Folies-Bergère (1882)