EUROPA
Una settimana convulsa nel Regno Unito: tra avvicendamenti di potere e convergenze dal basso
Dalla proclamazione del primo ministro alla morte della Regina, passando per la convergenza di lotte sociali ed ecologiste, l’Inghilterra sembra essere nell’occhio del ciclone di una tempesta non intenzionata a calmarsi
Martedì 6 settembre l’ex ministra degli esteri del Regno Unito, Mary Elizabeth detta «Liz» Truss, dà il suo discorso alla nazione che la investirà ufficialmente del ruolo di primo ministro. Con poco più di 80mila voti ha infatti conquistato la leadership interna al partito conservatore e andrà a sostituire un Boris Johnson (BJ) apparentemente annientato dagli scandali per le feste organizzate a Downing Street durante la pandemia.
Il giorno precedente, lunedì 5 settembre, nel discorso tenuto immediatamente dopo l’ufficialità della vittoria, Liz Truss aveva riabilitato BJ, riferendosi ai suoi presunti meriti sulla gestione della crisi pandemica, dei vaccini e del suo posizionamento sulla guerra ucraina – un sostegno ideologico e mediatico, oltre che militare, a favore del governo e dell’esercito ucraini che non ha pari tra i leader dei paesi NATO e G7.
«Deliver, deliver, deliver», aveva continuato la premier Truss nel medesimo discorso, riferendosi alla necessità di fornire risposte politiche e risorse ingenti (anziché armi, questa volta).
Intanto, nei social media italiani circolava una traduzione, inutilmente edulcorata, di una sua presa di posizione di alcune settimane fa nella quale l’allora ministra degli esteri si dichiarava senza alcun trasporto «pronta» al lancio nucleare, «se necessario». L’ordine dei problemi era però già cambiato radicalmente.
Deposte momentaneamente le armi, Truss ha promesso in un sol colpo: taglio delle tasse, rafforzamento del sistema sanitario nazionale e crescita economica; e soprattutto, risoluzione della crisi energetica – sia nell’immediato per le bollette, aumentate già dell’80% ed in continua crescita, che per l’approvvigionamento a lungo termine.
Se gli elenchi dei sogni caratterizzano ormai i momenti di investitura politica (sono ormai questi i valori democratici occidentali?), il punto sulla crisi energetica merita un approfondimento alla luce dei movimenti che attraversano la società britannica negli ultimi mesi, se non anni. Pur non avendo l’ambizione di effettuare qui tale approfondimento, proviamo a mettere in fila alcuni dati.
In maniera simile agli altri paesi occidentali, la soluzione di Truss al problema energetico passa per la promessa di una indiscriminata devastazione del territorio nazionale, per la ricerca di fonti fossili made in UK.
Si scomoda addirittura il fracking, alla faccia di qualsiasi promessa di transizione. D’altra parte, il grande evento della COP26, la più attesa – e dunque la più fallimentare – è stata ospitata già lo scorso anno sotto i migliori auspici del solo BJ. Quando mai potrà toccare la prossima? Tanto più adesso che il sistema COP delle Nazioni Unite (mai così ininfluenti) sta scoprendo la comodità autunnale di paesi sempre più caldi e sempre più autoritari come l’Egitto. A conferma dell’ulteriore degradazione del governo inglese, si vedano le affermazioni sostanzialmente negazioniste del cambiamento climatico da parte del nuovo ministro del commercio e dell’energia, Jacob Rees-Mogg.
Nel discorso di investitura del 6 novembre Truss ha affermato che il paese «può uscire dalla tempesta». Ma quale tempesta? Quella energetica, certo. La quale, tuttavia, non è stata spinta solo “dall’alto” delle speculazioni finanziarie sulle crisi nelle catene di approvvigionamento che a livello globale sono state determinate dalla pandemia e aggravate dalla guerra in Ucraina, e nel Regno Unito hanno trovato un contesto già indebolito dall’onda lunga della Brexit.
La tempesta nella quale si trova il Regno Unito si scarica però su una forte resistenza in basso, negli strati più poveri della società.
In un sistema sociale eccezionalmente finanziarizzato, dove l’indebitamento privato è mezzo quotidiano di accesso ai beni materiali, i costi dell’energia per le persone sono schizzati contemporaneamente alla deflagrazione bellica.
Diventando subito insostenibili per molte persone che di colpo non possono più pagare. Sin dalla primavera, ha così cominciato a farsi spazio la possibilità di unire chi non può pagare i costi derivanti dalle – già ben conosciute dalle persone, sulla propria pelle – speculazioni finanziarie e chi si rifiuta di pagare tali costi pur riuscendo ancora a vivere più o meno dignitosamente.
Gli ultimi sono stati mesi di intense campagne sul costo della vita, di scioperi a ripetizione per imporre aumenti salariali in settori essenziali quali le ferrovie e le poste e di azioni dirette sempre più radicali sulle tematiche ecologiche che hanno più immediati risvolti sociali. Tali battaglie hanno trovato un momento di precipitazione comune nella manifestazione “rosso-verde” dello scorso 23 luglio dal nome “All We Want To Just Stop Oil”.
“Just Stop Oil” (JSO) è infatti il nome della più rilevante campagna ecologista di disobbedienza civile del momento, che ha operato per mesi blocchi esterni ed interni alle raffinerie e agli impianti di distribuzione del petrolio e svolto azioni di sabotaggio nelle stazioni di benzina.
Pur provocando diverse centinaia di arresti (come da “strategia”, poiché è in buona parte un’evoluzione di Extinction Rebellion), JSO è sorprendentemente riuscita a diventare un elemento importante nella convergenza delle lotte sociali ed ecologiste. La manifestazione di fine luglio ha così coinvolto anche l’associazione Peace and Justice fondata da Jeremy Corbyn, e molte altre iniziative contro guerra e povertà energetica, per il disarmo nucleare, la giustizia alimentare e un’alternativa economica.
È in questo quadro di convergenza di lotte che vanno lette le nuove vincenti campagne inglesi sul costo della vita: “Enough Is Enough” che sta riempiendo piazze, teatri e luoghi pubblici del paese con iniziative di proposta radicale che mettono insieme sindacati, attivisti e pezzi non compromessi della politica inglese; e, soprattutto, la campagna “Don’t Pay” per lo stop al pagamento delle bollette dall’1 ottobre, che sta interessando molte realtà sociali e singoli e di cui anche in Italia si sta provando a replicare il metodo.
Oltre all’importanza della convergenza tra lotte sociali ed ecologiste che, mentre nel nostro paese è stata sostenuta strenuamente dall’illuminato Collettivo di Fabbrica – GKN, in UK è tema di discussione da prima pagina sul The Guardian anche nei giorni di lutto nazionale per la morte della regina, nella relazione con la speculazione vi è un altro importante elemento da considerare della campagna “Don’t Pay”.
Infatti, l’impianto discorsivo che starebbe portando, secondo un sondaggio di “The Times”, più di 3 milioni di persone a interrompere il pagamento delle bollette dal primo ottobre, è certamente incentrato sulla necessità che nessuno resti al freddo e che le bollette siano portate a un costo sostenibile per tutti.
Tuttavia, a questa esigenza è affiancata la richiesta chiara che siano i colossi di petrolio e gas che hanno speculato sui prezzi a pagare le differenze e che questa sia l’occasione per ripensare completamente il settore dell’energia; tema di dibattito nel Regno Unito, anche televisivo sulla BBC, è infatti la ri-nazionalizzazione dei colossi energetici e del mercato energetico, con una presa di posizione netta a favore di tali misure da parte del TUC (Trade Unions Congress, circa l’equivalente della CGIL oltremanica).
In questo contesto, bisognerà vedere quale sarà la risposta sociale al tetto delle bollette verso cui sembra intenzionato il nuovo governo, senza imporre una nuova tassazione alle aziende energetiche, ma con misure a debito. Si può credere che ciò non sarà sufficiente per sgonfiare le mobilitazioni dal basso, volendo dire indirizzare montagne di soldi della tassazione generale verso quei colossi speculativi.
La settimana cominciata con un nuovo governo – il terzo della storia inglese con premier femminile, tutte conservatrici, e il primo con più ministre che ministri – è finita con un nuovo Re.
La morte della Regina avvenuta giovedì 8 settembre ha per il momento congelato molte iniziative che erano in programma in queste settimane – ad esempio, è stato rimandato il “Festival della Resistenza” che XR aveva organizzato con l’occupazione di Hyde Park e bus da tutto il paese, durante il quale dovevano incontrarsi molti dei soggetti in lotta fin qui nominati.
Tuttavia, quello che si prepara è un 1 ottobre in cui – oltre alla scadenza di Don’t Pay – Enough Is Enough farà cortei a Londra ed in molte città del paese, Just Stop Oil ha annunciato l’occupazione di Westminster (a oltranza?). Intanto la coalizione che aveva lanciato la data del 23 luglio dà appuntamento alle 11 di mattina a Parlament Square, dicendo che è solo l’inizio di un autunno di azioni. Due settimane dopo, il 14 ottobre, anche XR ha chiamato ad azioni di disobbedienza civile a Westminster, rifacendosi ancora alla convergenza con altri gruppi.
La calma che sta seguendo i convulsi avvicendamenti in alto potrebbe essere seguita da un’aria di tempesta anche in basso.
Immagine di copertina di Garry Knight from London, England. Cost of Living Protests