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Un Machiavelli risorgimentale e poco conflittuale
Il nuovo libro di Alberto Asor Rosa, “Machiavelli e l’Italia”, tiene insieme, non senza criticità, la storia dell’idea di Italia, il suo continuo ma produttivo intreccio con la catastrofe e il pensiero di Machiavelli.
Gran bel libro Machiavelli e l’Italia. Resoconto di una disfatta di Alberto Asor Rosa (Einaudi, 2019), un fervido esempio di accorato umanesimo civile sulle orme di Petrarca, Leonardo Bruni e Manzoni, che vuole tener duro senza ignorare i mali presenti. E molte belle pagine vi sono dedicate, con acuta percezione psicologica e sensibilità letteraria, all’epistolario fra Machiavelli e Guicciardini e alla Storia d’Italia del secondo (cfr. pp. 146-151, 206 sgg.) – i commentari della crisi scatenata dalla “guerre d’Italia”.
Il doppio filo conduttore che in tutto il libro si dipana è una ricostruzione dell’idea di Italia e il dispositivo ricorrente per cui è il sentimento della catastrofe a suscitare, per contraccolpo e rimedio, la profondità dell’analisi. C’è un continuismo quasi risorgimentale e desanctisiano, in cui la civiltà italica si urta con il furore dei “barbari” e ogni volta risorge dopo le sconfitte, finché i barbari l’attaccano dall’interno (oggi) con esiti terminali (p. 259) e la fine anche di quella compensazione intellettuale che pure aveva brillato dopo il sacco di Roma del 1527 e il lungo dominio straniero fino al 1848. Anche se costantemente presente, nel quadro di una mancata unificazione politica fino al 1870, non sempre il pensiero era riuscito a colmare lo scarto con l’azione, configurando così una situazione più spesso tragica che trionfante. Non a caso, i molti esempi letterari di “italianità” addotti dall’autore, a cominciare dalle classiche apostrofi di Dante e Petrarca, sono deprecazioni letterarie di un stato di decadenza rispetto al passato, più che anticipazioni del moderno concetto di nazione, che si affermerà, nel suo nesso con la sovranità popolare, solo con la Rivoluzione francese. Ed è più che dubbia una continuità della nazione tale per cui la I guerra mondiale (p. 257) costituirebbe il completamento del Risorgimento (e il conflitto inter-imperialistico non c’entra nulla?) e la stessa Resistenza null’altro sarebbe che un “secondo Risorgimento”, cancellando il suo carattere di guerra civile…
Al di là di considerazioni generali quanto controvertibili, emergono però nello specifico del libro talune criticità e in particolare nella trattazione di Machiavelli che, sin dal titolo, ne è il fulcro. Un filologo pedante potrebbe trovare sorprendente l’assenza nell’indice nominativo della voce Lucrezio, tra le fonti pervasive del Segretario, oppure dei nomi di Althusser, Strauss, Pocock, Skinner, Vatter – tanto per citare alla rinfusa esponenti di assai differenti ma imprescindibili filoni di ricerca. Il restringimento della letteratura secondaria a quella italiana in realtà non corrobora ma corrode l’insistenza sul legame fra Machiavelli e questione nazionale, finendo per rinserrare il contenuto storico-filosofico dell’Autore in un’ipotesi limitata – che è poi a quella tardo-risorgimentale di un Machiavelli precursore dell’unità italiana e testimone del suo precoce naufragio. Il Fiorentino sarebbe così la voce altissima che si leva sulla perdita dell’Italia travolta dai barbari e quella sarebbe la sua patria, quelle le sue cose perdute. Ma è lo stesso Machiavelli a smentirlo, dividendo la sua vita e opera ante res perditas e post res perditas ponendo a cesura il 1512.
Cosa si perde in quell’anno? Si perde la repubblica soderiniana di Firenze, che resta ancora autonoma ma sotto la tirannia medicea, mentre l’Italia comincia soltanto a perdere la sua autonomia, con un processo che verrà a chiudersi solo nel 1530, dopo il sacco di Roma e lo stabilirsi dell’egemonia spagnola. L’oggetto della perdita (a parte il ruolo pubblico del Segretario) è la patria fiorentina, la forma repubblicana che sarà definitivamente soppressa nel sangue nel 1530, poco dopo la morte del suo strenuo difensore e teorico. Solo trattando di essa Machiavelli deroga a qualsiasi ostentazione di cinismo politico o, meglio, subordina ogni considerazione personale all’interesse della patria fiorentina, non italiana (contrariamente alla riflessione di p. 260).
In altri passi Machiavelli viene riducendosi, forse per l’incastro forzato in una dimensione nazionale, a un antesignano dell’autonomia del politico: mentre lo sguardo teorico si spinge dal basso verso l’alto, «la pratica politica, invece, checché se ne pensi scende sempre, quando è autentica, dall’alto verso il basso – non esiste un solo caso che testimoni la via opposta» (p. 54), Che questo fosse il senso del “farsi popolare” nella Dedicatoria del Principe è ipotesi ardua…
Anche il richiamo al carattere eccezionale del Fondatore, in Principe VI, alla «fondazione dal nulla» (p. 77) non privilegia la dimensione carismatica del politico quanto piuttosto allude all’aleatorietà della storia, secondo la classica lezione del mai citato Althusser o del mai ricordato clinamen del lucreziano De rerum natura, che toglie ogni senso all’Origine e al Fine. Il che rende alquanto difficile prendere sul serio l’introduzione di Dio nel corso della storia a fianco della Fortuna (pp. 92-95), che segnerebbe una differenza qualitativa (a mio parere insostenibile) fra i Ghiribizzi al Soderino del 1506 e Principe XXV. In entrambi i testi, certo con maggiore complessità nel secondo, è determinante, senza alcun tono provvidenzialistico o morale, la dialettica fra virtù/carattere e occasione/accidente/fortuna: la storia quale processo aperto e reversibile, cioè il contrario di una filosofia della storia.
L’accento su un progetto di unità nazionale finisce inoltre per configurare un Medici “mediceo” (pp. 105-106), suggerendo un’implicazione costante più che un ingegnoso adattamento alle circostanze restaurative, come se Machiavelli non fosse stato, finché partecipò e orientò il governo fiorentino, un avversario strenuo di quella famiglia – un’inclinazione interpretativa che Asor condivide con Bausi, Martelli e, a denti più stretti, con Lettieri. Dio e famiglia Medici ritornano insieme nella politicamente sopravvalutata (quanto letterariamente splendida) Exhortatio finale del Principe, quando Lorenzo duca di Urbino o più plausibilmente papa Leone X assumono le fattezze del “Redentore”, novello Veltro dantesco, che si farebbe carico dell’eccezionalità italiana (p. 107) e del suo inserimento nel felice consesso degli stati assoluti europei (barbari, ma imitati, fino al punto da incorporare una dose di “ferinità” sufficiente per competere con essi, cfr. p. 273). Sembra che Machiavelli sia coinvolto, almeno in tendenza, nella macchina della sovranità barocca da cui, a mio parere, è lontanissimo, quanto lo sarà il suo fervido ammiratore Spinoza.
Dove sta, invece, l’eccezionalità, che a ragione aleggia in tutto il libro? L’eccezionalità sta nella patria, a Niccolò più cara dell’anima sua, ma questa patria, come già detto, è Firenze, in quanto forma di repubblica più forte della maledizione di disordine improduttivo che le incombe sin dalla nascita. In questo il Segretario e ancor più il quondam Segretario si riconcilia idealmente con l’antico avversario Savonarola, che per primo, con l’occhio alla libertà comunale italica già esaltata quale stato edenico da Tolomeo da Lucca, individua nella città dove predica il luogo destinato all’avvento del Regno di Dio, ombelico di Italia e del mondo e novella Gerusalemme. Contrariamente alla sottomissione ai governanti per effetto del peccato originario, a Firenze i cittadini sono in grado di autogovernarsi e nella virtuosa repubblica savonaroliana artigiani e commercianti saranno benedetti da Dio per le loro virtù e faranno floridi affari. Bruciare oggetti di vanità e sodomiti porta bene.
Nello straordinario Discursus florentinarum rerum del 1520, di cui J.-C. Zancarini ci ha offerto di recente una meritoria edizione italiana con traduzione francese e commento, l’indomito Machiavelli cerca addirittura di convincere i Medici al potere a restaurare alcuni organi della democrazia savonaroliana, riaprendo fisicamente, per esempio, la sala del Consiglio Maggiore, sulla base della considerazione che non era possibile, per un popolo abituato alla libertà civile nel periodo 1494-1512, ritornare a un principato quale quelli di Cosimo il Vecchio o di Lorenzo il Magnifico, che pure erano «amici dell’universale» piuttosto che delle cerchie oligarchiche. A meno di impiegare una straordinaria forza repressiva, sopprimendo con misure politiche ed economiche controrivoluzionarie la naturale “equalità” fiorentina. Davvero un ben strano filo-mediceo era il nostro Niccolò, che agita lo spettro di una nuova rivoluzione, quale in effetti si verificherà nel 1527, al mutare temporaneo degli equilibri internazionali.
Il punto decisivo, verso cui queste critiche parziali confluiscono, è il rapporto fra Principe e Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, rapporto dichiarato decisivo nel libro per comprendere l’insieme del pensiero di Machiavelli, ma in pratica poco usato. Perfino la “fortuna” repubblicana di Machiavelli (per cui si citano Traiano Boccalini, Spinoza, Rousseau e Foscolo, ma sembrano essere ignorati Alberico Gentili e Algernon Sidney) dipende dall’esplicito repubblicanesimo dei Discorsi e dalla sua originale qualità di storia «congiunta alla filosofia», il cui proposito, secondo il menzionato Gentili già nel 1585, non fu di «istruire il tiranno, ma di smascherarne gli arcani esibendone il nudo orrore ai miseri popoli».
Ma, ancor più, la lezione dei Discorsi è che solo la disunione e il conflitto rendono grande un popolo e consolidano le istituzioni repubblicane, come accadde per la creazione dei tribuni della plebe a Roma. La politica si fa dal basso, non solo mediante riflessione o claim, ma proprio come produzione di istituzioni, mediante la lotta e, beninteso, con compromessi e mediazioni. Anzi, si comincia con l’iniziativa dal basso; un tempo lo sapevano persino Tronti e Asor Rosa, quando erano operaisti e anti-populisti. E sarebbe stato ben strano che una siffatta dinamica andasse a parare, in ultima istanza, nella pacificazione impolitica dello stato hobbesiano o nell’aggiungere la Penisola al concerto delle monarchie assolutistiche del 500-600.
L’acutissimus Florentinus si muoveva su un sentiero ben diverso dalla fabbricazione e rappresentazione della sovranità e per questo anche un opuscolo ambiguo quanto geniale, il Principe, poteva essere letto, da chi voleva capirlo, come il livre des républicains. Una sua riduzione risorgimentale e statale non contribuisce a sconfiggere i barbari, oggi che il sovranismo, eredità e parodia della tramontata sovranità, mostra che proprio lo stato è il luogo e lo strumento della barbarie.