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Per un hegelismo lacaniano, o: hegeliani, ancora uno sforzo se vogliamo continuare a essere hegeliani

È stata la psicoanalisi di Jacques Lacan che ha messo a tema e ha radicalizzato il nocciolo “scandaloso” della dialettica hegeliana, mai veramente indagato dal filosofo di Stoccarda: la spettralità del negativo e la sua esistenza sotterranea e infestante nel movimento dialettico

Chi di noi il governato e chi il governatore?

Son fatti che attengono alla Storia

chi fosse la provincia e chi l’impero

non è il punto

il punto era l’incendio.

 

P. Panella, L. Battisti, Hegel

 

In quello che, probabilmente, è il testo più noto dei suoi Écrits, vale a dire Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio freudiano, Jacques Lacan si lascia sfuggire un’espressione, detta en passant, a partire dalla quale è possibile, a nostro avviso, non solo ricostruire lo spirito – al di là della lettera – del suo (non-)rapporto con quello che agisce, a tutti gli effetti, come un significante padrone all’interno della sua riflessione, ovverosia Hegel, ma anche gettare le basi per quello che, per il momento, definiremo un hegelismo lacaniano.

Per dirla con Hegel e contro di lui, afferma lo psicoanalista francese.

Per pensare con Hegel e contro di lui, aggiunge un hegelista lacaniano.

Che cosa significa? All’apparenza, nulla di nuovo. Si potrebbe infatti dire, senza il timore di essere smentiti, che gran parte della filosofia post-hegeliana ha rappresentato un tentativo, più o meno riuscito, di pensare con Hegel e contro di lui. In questo senso, Hegel – così come Platone e Descartes prima di lui, come ha più volte ripetuto Slavoj Žižek – ha costituito a tutti gli effetti un evento, nell’accezione che Alain Badiou ha attribuito a questo termine a partire da Logiche dei mondi: dopo la sua morte, si contano sulle dita di una mano i filosofi che non hanno cercato un confronto con esso, nei termini di una fedeltà oppure di un diniego, di un occultamento o di una risurrezione del suo pensiero.

In che cosa l’operazione di un hegelista lacaniano mirerebbe a essere differente? Nel fatto che, per esso, pensare con Hegel e contro di lui significa, innanzitutto, pensare Hegel con Hegel e contro di lui. Non mi piace molto che si dica che si è superato Hegel, come si dice superare Cartesio. Si supera tutto e si resta invece nello stesso posto, afferma Lacan in uno dei suoi primi seminari. Non è questione di superare o meno Hegel, quanto piuttosto di comprendere cosa voglia dire restare in quello stesso posto e che cosa esso implichi nei termini dell’assunzione di una precisa postura filosofica.

Negli ultimi anni, grazie soprattutto ai lavori della cosiddetta Scuola di Ljubljana, ha preso piede la convinzione che, per fare ciò, una serie di reagenti psicoanalitici potessero costituire gli strumenti più efficaci. Non si trattava di perlustrare i luoghi in cui Hegel non sarebbe stato in grado di scorgere quanto successivamente la psicoanalisi avrebbe scorto e, di converso, nemmeno di raccogliere prove a favore di un anti-hegelismo di Lacan. Si trattava, piuttosto, di produrre una sorta di lettura sintomale di entrambi, nella convinzione che questa potesse rappresentare un’operazione più utile della recitazione di qualsiasi rosario per ereditare quella postura che tanto Hegel, quanto la psicoanalisi avevano, in maniera differente, contribuito a stabilire.

Così facendo, questi lavori hanno fornito gli attrezzi per produrre due operazioni differenti, sebbene convergenti. Da un lato, hanno indicato la strada per imboccare quello che, per ragioni di simmetria, definiremmo un lacanismo hegeliano e, dall’altro, hanno fatto la stessa cosa per quanto concerne ciò che abbiamo appunto definito hegelismo lacaniano. È nostra convinzione che, per quanto abbiano assolto un ruolo fondamentale, essi stiano incontrando, su entrambe le carreggiate, degli ostacoli che invitano a provare a imboccare direzioni differenti. In questo contesto cercheremo di indicare quale sia la direzione da imboccare per provare ad assumere fino in fondo la postura propria di un hegelismo lacaniano, che per noi significa continuare a essere hegeliani, con Hegel e contro di lui.

Tra i meriti più grandi dei lavori di Mladen Dolar, Alenka Zupančič e Slavoj Žižek c’è sicuramente quello di avere assestato un duro colpo a un’immagine rassicurante di Hegel, che era stata a lungo, e per certi versi continua a essere, al centro di molta parte della riflessione filosofica contemporanea. Quell’immagine che ha fatto del filosofo di Stoccarda un panlogista; della dialettica un’ermeneutica inutilmente arzigogolata e con un po’ più di suspense; della negatività e dell’inquietudine o, più generalmente, di ciò che non funziona, un elemento residuale progressivamente disinnescato nella promessa di un regno, alla fine della storia, dove non rimane che fare del jazz, ballare, divertirsi. Si tratta di un’immagine di Hegel che trova ampiamente riscontro nella riflessione lacaniana e che lo psicoanalista francese contribuisce a smontare meticolosamente. È un’immagine di Hegel che, nel suo caso, è ampiamente filtrata attraverso le lenti degli occhiali scuri di uno dei suoi maestri, Alexandre Kojève, il cui sapere costituisce la verità del significante ‘Hegel’, quasi ogniqualvolta esso compare all’interno della riflessione dello psicoanalista francese.

Contro questa declinazione conciliante della filosofia hegeliana, si è cercato di restituire alla dialettica il suo carattere intrinsecamente creativo, anziché ridurla a un’operazione di esplicitazione di un implicito, di estrinsecazione di un senso già da sempre contenuto in qualche rappresentazione; al contempo, si è insistito sempre maggiormente sul ruolo strutturale esercitato da ciò che non funziona, evitando di ridurlo a un elemento facilmente assimilabile che non esercita alcun ruolo all’interno della genesi del pensiero.

È proprio a cavallo di questi due piani che deve essere rilevato l’apporto specifico della Scuola di Ljubljana all’hegelismo lacaniano. La psicoanalisi consentirebbe, infatti, di pensare nel modo più radicale possibile questo «ciò che non funziona» – e a cui essa ha attribuito svariati nomi: ripetizione, pulsione, godimento… –, ovverosia di pensarlo come ciò che non cessa di non funzionare. Non si tratta più solamente di considerare ciò che non funziona come la causa (assente e resa presente solo retroattivamente) del movimento dialettico e nemmeno – come vorrebbe una facile critica della dialettica hegeliana – di considerarlo al pari di quel residuo non-dialettizzabile che sancirebbe l’inconsistenza di tale movimento (il tutto è [il] falso di adorniana, e gaberiana, memoria). Si tratta piuttosto di pensare ciò che non funziona nella sua dimensione spettrale; come ciò che non cessa di non funzionare in ciascuna delle posizioni che, tramite il movimento dialettico, lo Spirito ha guadagnato – aufgehoben, superato e conservato. È la persistenza di questa muffetta, per dirla con l’ultimo Zanzotto, all’interno di ciascun universale, Gestaltung, forma del pensiero, che Hegel non riuscirebbe a prendere fino in fondo in considerazione, mancando di intravedere in essa il loro stigma più vero. Si tratta dell’opzione, mai veramente indagata dal filosofo di Stoccarda in tutte le sue possibili conseguenze, per cui la negazione (dialettica) possa fallire, in modo tale che qualcosa sia negato solo a metà, continuando a condurre un’esistenza (un’ex-sistenza avrebbe detto Lacan) sotterranea e infestante. Sarebbe questa negatività assoluta, questa ripetizione pura e senza idealizzazione – su cui, a partire da Kierkegaard, si è concentrata gran parte della filosofia post-hegeliana –, a costituire il cuore della dialettica hegeliana, inaccessibile allo stesso Hegel e, pertanto, necessitante di un ripensamento hegeliano, capace di strapparla al destino affermativista e irrazionalista (da cui non è immune nemmeno un certo lacanismo contemporaneo, che proprio per questa ragione necessiterebbe, come abbiamo accennato, di essere hegelizzato) a cui l’ha consegnata gran parte di quella stessa riflessione post-hegeliana che l’aveva resa visibile.

Se questa modalità di pensare Hegel con Hegel e contro di lui costituisce un passaggio necessario – a tal punto che, con una battuta, ci viene da dire che sarebbe ora di smettere di fare una cernita di ciò che è vivo e ciò che è morto della sua filosofia, per concentrarsi, piuttosto, su ciò che è non morto all’interno di essa –, è nostra convinzione che essa non sia del tutto sufficiente per inaugurare l’agenda di quello che abbiamo definito hegelismo lacaniano. Ciò che manca – e per cui è fondamentale fare ancora uno sforzo – è un ultimo passo avanti squisitamente hegeliano rispetto a questo non cessare di non funzionare di ciò che non funziona. Per farlo, sarà necessario smettere di considerare ciò che non funziona al pari di un eccesso all’interno di un qualcosa che altrimenti funzionerebbe – nemmeno quell’eccesso che costituisce il suo stigma più vero –, per pensarlo in quanto tale, vale a dire nella sua assolutezza e originarietà. Il che non significa aprire le porte a un qualche tipo di irrazionalità del reale o all’abbandono di concetti come quelli di soggetto, totalità, verità, etc., poiché ciò vorrebbe dire chiudere le porte a Hegel, come molta della filosofia contemporanea ha deciso di fare. Significa, piuttosto, comprendere che il reale è ciò che non funziona, nella misura in cui è nel non cessare di non funzionare che deve essere ricercata tanto la sua Wirklichkeit, quanto la sua razionalità. E che, proprio per questo, esso può funzionare in maniera sempre differente. In uno dei suoi seminari, Lacan ha affermato qualcosa di estremamente significativo a questo proposito, riguardo alla funzione del pensiero rispetto al Selbstbewusstsein, che lo psicoanalista francese interpreta come un «So di pensare». Freud mostra, ci dice Lacan, come l’essenza del So di pensare non sia altro che l’accento eccessivo messo sul So per dimenticare il Non so che è la sua reale origine. In Hegel la verità è il posto dove quel di pensare si trova realmente. In Freud essa designa il posto da dove quel di pensare è motivato. E chiosa: Osservate che, a considerare tutto ciò con il massimo rigore, di questo posto non c’è da dire niente che abbia senso. Esso è creato da un questo non vuol dire niente. È il luogo dove questo non vuol dire niente esige un questo vuol dire sostitutivo.

È all’altezza del passaggio stretto in cui il «questo non vuol dire niente» cessa – continuamente e in maniera sempre differente – di non voler dire niente per voler dire qualcosa, in cui il «non funziona» cessa di non funzionare per assumere un sempre nuovo funzionamento, che deve collocarsi l’hegelismo lacaniano.

Pensare il reale – ma anche il pensiero di questo reale – in sé e per sé significherà allora provare a pensarlo come qualcosa che, al contempo, non funziona e, proprio per questo, può funzionare continuamente in modi sempre differenti, attraverso forme che non hanno il volto luminoso, stabile, durevole e completo della compostezza delle sintesi, ma quello più opaco, precario, temporaneo e parziale dei compromessi dei sintomi.

 

Immagine di copertina: Francis Bacon, Three Studies for the Portrait of Henrietta Moraes, 1963