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Il cinema sovietico della Rivoluzione
Per il centenario della Rivoluzione d’Ottobre, si è appena conclusa a Roma la rassegna cinematografica “Cinerivoluzione” organizzata in due parti a novembre e a gennaio dalla Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico. Un’occasione per ripensare l’importanza del cinema sovietico a cento anni dalla presa del Palazzo d’Inverno.
“Quando la storia si sviluppa nelle strade, le strade tendono a muoversi verso lo schermo”
(Siegfried Kracauer)
Nel 1917 il cinema aveva solo trent’anni di vita alle spalle, un’arte giovane, dinamica, che procedeva per tentativi. E pensava.
Il rapporto tra la Russia dei Romanov e quest’arte rivoluzionaria non fu affatto esaltante, invece. Nel maggio 1896 gli operatori francesi Charles Moisson e Francis Doublier effettueranno la prima ripresa cinematografica in terra russa filmando nel cortile del Cremlino, a Mosca l’incoronazione di Nicola II per conto di Louis Lumière, che in estate vendette il documentario. La ripresa sulla piana di Chodynka, presso Mosca, della cerimonia della presentazione dello Zar al popolo si tramutò in tragedia per il cedimento di alcune tribune e per il panico che ne seguì, con migliaia di vittime. La macchina da presa e le registrazioni effettuate dagli operatori furono sequestrate dalla polizia e mai più restituite…
Negli anni antecedenti alla prima guerra mondiale, in Russia l’industria cinematografica era in mano alle francesi Pathé e Gaumont [1]. Dopo l’entrata in guerra, a causa della chiusura delle frontiere, si fermarono le importazioni per favorire lo sviluppo di produzioni nazionali.
La presa del Palazzo d’Inverno del 1917 liberò anche tutte le forze intellettuali e creative del paese, legando indissolubilmente i progressi politici a quelli culturali e artistici [2]. La rivista LEF del Fronte Popolare delle Arti e il Proletkul’t di Mosca divennero i due primari poli di sperimentazione per le nuove forme di scrittura, di pittura e delle altre arti, contrapponendosi alla narrazione e alla figuratività tradizionale.
Lenin, intuì subito le grandi potenzialità didattiche e propagandistiche – ma non solo – di questa arte (“Per noi il cinema è la più importante di tutte le arti”) e aveva invitato a girare e distribuire capillarmente pellicole anche di cronaca rivoluzionaria. Il cinema si configurava sempre di più come tecnica di lavoro collettivo, dunque, e caratteristica fondamentale del cinema sovietico diventerà la raffigurazione di un punto di vista ben preciso sul fenomeno.
Le opere più tipiche di questo primo periodo rivoluzionario sono le agitka (film d’agitazione). Si trattava, in genere, di brevi cortometraggi di battaglia la cui produzione è andata in gran parte perduta. Anche il poeta Majakovskij scrisse alcuni soggetti per la casa produttrice Neptun.
Nel 1918, venne creato il Narkompros (Commissariato Popolare per l’Istruzione) a cui affidare la regolamentazione dell’industria cinematografica. Alla fine del 1919 l’industria cinematografica è nazionalizzata, dando così vita alla Goskino, sostituita in seguito con un’organizzazione più grande e meglio finanziata, la Sovkino. Nel 1922, nacque la prima scuola cinematografica, il cui compito era di istruire nuove generazioni di attori, attrici e registi.
La cinematografia sovietica non disponeva, però, di scorte sufficienti di pellicola per girare film, e bisognò ingegnarsi.
Uno dei registi più influenti di questo periodo fu Lev Kulešov [3] che iniziò a sperimentare nuove tecniche di montaggio, [4] elaborando quello che sarà chiamato “effetto Kulešov”, studiato ancora oggi in ogni corso di regia e sceneggiatura cinematografica, tendente a dimostrare, nella comprensione di ciò che appare in una sequenza cinematografica, il momento cognitivo del montaggio. Da ciò la formulazione delle prime teorie sul montaggio stesso. Più che mai il montaggio è pensiero e la forma ha una sua etica.
La tecnica del montaggio non caratterizza solo il cinema, ma era già virtualmente presente nella letteratura. Ėjzenštejn ci ha permesso di capire che solo la nascita del cinema ci rende più attenti e consapevoli di alcuni criptici procedimenti narrativi. E il montaggio diventa «una ricostruzione delle leggi del processo del pensiero».
Ma per Sergej Ėjzenštejn il montaggio è anche conflitto: “Il fondamento di ogni arte d’altronde è conflitto (traduzione “in immagini” del principio dialettico). L’inquadratura è come la cellula del montaggio. Anch’essa dev’essere quindi considerata dal punto di vista del conflitto”.
Ecco alcuni dei conflitti “cinematografici” nell’interno dell’inquadratura che teorizza Ėjzenštejn nel famoso saggio del 1929, La forma cinematografica: “Conflitto di direzioni grafiche. (Linee: statiche o dinamiche). Conflitto di piani. Conflitto di volumi. Conflitto di masse. (Volumi pieni di varie intensità di luce). Conflitto di profondità, ecc. Più i conflitti seguenti a cui basta un ulteriore impulso d’intensificazione per adeguarsi a coppie antagonistiche: Primi piani e campi lunghi. Pezzi con direzioni graficamente diverse. Pezzi che si risolvono in volumi, con pezzi che si risolvono in aree. Pezzi oscuri e pezzi luminosi. E ci sono infine conflitti inattesi come: Conflitti tra un oggetto e le sue dimensioni, e conflitti tra un avvenimento e la sua durata”.
Nonostante la penuria di mezzi, Kulešov riuscì a dar vita ad un laboratorio creativo e sperimentale in cui si formarono i più grandi registi dell’epoca.
I grandi cineasti russi della nuova stagione (Kulešov, Vertov, Ėjzenštejn, Pudovkin, Dovženko) – omaggiati in questa rassegna – partirono tutti da un rifiuto verso lo spettacolo “frontale” tradizionale, dove lo spettatore è un soggetto passivo e inerte, a favore di un cinema in cui chi guarda è continuamente stimolato e reso partecipe dell’immagine filmica in movimento.
In L’uomo con la macchina da presa (1929) di Dziga Vertov, l’esplorazione della vita quotidiana in una metropoli contemporanea (la città di Mosca), dall’alba al tramonto, convive con la messa a nudo dello stesso processo di elaborazione dell’opera. La città e la strada diventano lo strumento privilegiato per la comprensione della modernità dal punto di vista del “cine-occhio”.
Aleksandr Dovženko crea nel cinema mondiale un nuovo spazio, di apertura verso la vita rurale, di riflessione sulla terra. In La terra (1930), compone un sereno e trascinante poema della natura la cui “grande forma riceve dalla dialettica una potenza onirica e sinfonica”. [5]
Arsenale (1928) prodotto per commemorare l’insurrezione degli operai dell’arsenale di Kiev contro il governo nazionalista ucraino nel gennaio 1918, rappresenta quasi un’esperienza sensoriale. Già dalle sequenze iniziali in cui vediamo alcune donne in un villaggio, immobili.
Nel film verrà utilizzata la tecnica del jump-cut (dei veri e propri salti, delle ellissi temporali) che sarà poi estetizzata e caratterizzata maggiormente da Jean-Luc Godard nel 1960 in À bout de souffle e in parte nella Nouvelle Vague.
Con le nuove tecniche di montaggio si cercava di produrre una tensione dinamica: il dinamismo visivo fu estremizzato come mai prima d’ora. A differenza della continuità hollywoodiana, la scena era frammentata. Inquadrature differenti ripetevano la stessa scena riproponendola da più punti di vista.
Poiché non tutti gli appartenenti ai popoli dell’Unione erano alfabetizzati o conoscevano la lingua russa e potevano leggere il giornale Pravda, nato durante la Rivoluzione, fu ideato un Kino-Pravda (cinegiornale-verità) che poteva essere compreso da tutti/e.
I Kino-Pravda di Dziga Vertov – fautore del cosiddetto “cinema-verità” – portavano nei paesi più lontani, magari sprovvisti di sale cinematografiche, documentari, immagini di fatti di cronaca “montate”, in un unico cine-giornale su Lenin, sulla Rivoluzione, sulle conquiste proletarie, proiettati in cinematografi mobili o itineranti, sui treni.
Il cinema, l’arte della luce, entrò nell’Urss di quegli anni come un nuovo linguaggio dirompente. Un nuovo linguaggio fatto di idee, divenendo anche lo specchio di quel mondo e perfino una forza in grado di trasformarlo a sua volta.
Il cinema contribuisce a fare piazza pulita della concezione aristocratica, elitaria, dell’arte. Anche Benjamin – che stimava il cinema “democratico” di Sergej Ėjzenštejn – “esaspera” il valore “liberatorio” del cinema e il suo aspetto rivoluzionario.
“Le nostre bettole e le vie delle nostre metropoli, i nostri uffici e le nostre camere ammobiliate, le nostre stazioni e le nostre fabbriche sembravano chiuderci irrimediabilmente. Poi è venuto il cinema e con la dinamite dei decimi di secondo ha fatto saltare questo mondo simile a un carcere; così noi siamo ormai in grado di intraprendere tranquillamente avventurosi viaggi in mezzo alle sue sparse rovine. Col primo piano si dilata lo spazio, con la ripresa al rallentatore si dilata il movimento. […] Si capisce così come la natura che parla alla cinepresa sia diversa da quella che parla all’occhio. Diversa specialmente per il fatto che al posto di uno spazio elaborato dalla coscienza dell’uomo interviene uno spazio elaborato inconsciamente”. [6]
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[1] Una storica casa cinematografica francese fondata nel 1895 dall’ingegnere-inventore Léon Gaumont. È la più antica casa di produzione cinematografica del mondo tuttora in attività. Una delle segretarie della Gaumont, Alice Guy Blaché, diventò la prima regista donna dell’industria cinematografica, intorno al 1896.
[2] Grande teorico di questo rinnovamento artistico fu Viktor Šklovskij, che formulò la “Teoria dello straniamento” (ripresa e modificata per esempio anche da Brecht che formulò alcuni modi della recitazione basandosi sul Verfremdungseffekt, cioè l’effetto di straniamento), dove un cambiamento improvviso del punto di vista nell’opera d’arte portava a nuove frontiere. Veniva presa come modello la mossa del cavallo negli scacchi, che è sempre angolare, trasversale, imprevedibile. Egli teorizzò anche il primato della forma nelle arti, dando origine alla scuola teorica del Formalismo.
[3] Lev Kulešov realizzerà, nel 1924, il film Le straordinarie avventure di Mr. West nel paese dei bolscevichi (riproposto nella Rassegna presso la Gnam) commedia che ironizza sulle false concezioni che gli occidentali avevano della Russia. Un film che attraversa, parodiandoli, tutti i principali generi del cinema americano, tra i primi e più brillanti esempi di cinema sul cinema.
[4] Il primo ad utilizzare tecniche di montaggio era stato uno dei pionieri del cinema, Georges Méliès, il quale comprese, già nel 1896, che tagliando ed incollando tra loro spezzoni di diverse riprese, si potevano creare dei rudimentali effetti speciali (definite vedute d’azione). Ma il primo film in cui è riconoscibile un film editing è Life of an American Fireman (1903) di Edwin S. Porter.
[5] Terence Malick in Days of Heaven (1978) si ispirerà molto allo stile di La Terra.
[6] W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, ed. or. 1936.