approfondimenti

Un certo uso sociale dello spazio urbano

Un ricostruzione storica e grafica dei luoghi del dissenso sociale e culturale e dei luoghi del potere nella Milano degli anni Sessanta-Ottanta

Introduzione

Abbiamo visualizzato sulle “cartine” topografiche che seguono, lo spostamento dei movimenti nello spazio urbano di questa città. Sappiamo che il vezzo di tracciare mappe, gerarchie, discendenze, profili, è quasi sempre piuttosto arbitrario. Questa rapida visualizzazione dei topoi dei movimenti degli ultimi decenni non ha un carattere esaustivo né tanto meno ambizioni di teoria generale, ci è sembrata però utile come supporto al “racconto” intorno a Cox 18 e alle microstorie fotografiche per mostrare come il muoversi nel tessuto urbano dei movimenti antagonisti si incroci con le differenti forme del “fare politica”, con i modi di fare rappresentanza di sé nel confronti dei “luoghi del potere” e con i differenti modi di organizzarsi e di rendersi visibili.

Sappiamo che, per larga parte, questo aspetto del racconto si è incrociato con il racconto del territorio non viene quasi mai avvertito ­ – per l’importanza che gli compete – nelle sue valenze spontanee dagli stessi soggetti che ne sono protagonisti, ma sappiamo anche che l’intelligenza collettiva che si mobilità nei territori urbani ha ­– al contrario ­– quasi sempre chiari sia i processi sia gli obiettivi che ne determinano le dinamiche interne.

La mappa n. 1 visualizza un certo momento di organizzazione che i movimenti rivoluzionari degli anni Settanta si erano conquistati all’Interno delle “gerarchie” territoriali della metropoli milanese.

Siamo nei primi anni Settanta, la stagione movimentista del ’68 appare piuttosto “sfumata” mentre le lotte straordinarie dell’”autunno caldo” hanno posto con forza la centralità della classe operaia come motore fondamentale di qualsiasi trasformazione possibile dello “stato di cose presente”. Dopo la “strage di stato”, la “strategia della tensione” appare a tutti come una delle armi più insidiose e odiose messa in atto dalla borghesia. Molti sono convinti che i padroni, nell’impossibilità di controllare e addomesticare l’ondata di rivolta, abbiano deciso di spostare lo scontro anche sul “piano militare”. E questa convinzione (si badi bene non l’unica motivazione, ma una delle molte e diversificate) avrà una sua incidenza nella decisione di passare da “movimento” a organizzazione. E fare organizzazione significa avere sedi politiche, sezioni sparse sul territorio, presenza organizzata nei luoghi di lavoro. Significa avere militanti fedeli, dirigenti, segreterie, ma significa anche porsi in conflitto con le organizzazioni ufficiali dei partiti di sinistra, con i sindacati ufficiali, con l’intero sistema dei partiti e anche con le sedi di rappresentanza e potere dove gli stessi controllano il governo della città. Significa in definitiva passare da un modello movimentista, assembleare, orizzontale, a una struttura verticale e centralizzata.

 

Appare quindi ovvio che le cosiddette formazioni extraparlamentari decidessero di muoversi nel territorio urbano alla ricerca di luoghi dove aprire sedi politiche che avessero le caratteristiche di essere il più possibile vicino al centro storico cittadino e, particolarmente nel caso milanese, al cuore del potere politico e finanziario.

Questa dinamica che tende a incrociare la “verticalizzazione organizzativa” con un’equivalente verticalizzazione territoriale verso e contro i luoghi del potere costituito, si ripeterà con caratteristiche diverse negli anni successivi, ma non raggiungerà mai più né la concentrazione del periodo 1972-76 né il significato simbolico precedente. E non si ripeterà proprio perché andranno in crisi tutti i modelli organizzativi precedentemente conosciuti.

A questa breve e sintetica premessa metodologica è necessario aggiungere una riflessione connessa allo sviluppo squilibrato che la metropoli milanese ha avuto nel suo evolversi produttivo e industriale. A chiunque capiti tra le mani una pianta topografica della città risulta evidente come la stessa abbia avuto nel corso dei decenni uno sviluppo squilibrato tra la sua parte Nord e la sua parte Sud. Nel Nord e nel Nord-Est la città si è dilatata ben oltre i confini comunali e nelle stesse zone si è avuta la massima concentrazione di sviluppo industriale, il risultato visibile e percepibile è quello che vede i grandi quartieri operai e popolari della zona Nord/Nord-Est (Lambrate, Crescenzago/Padova, Gorla e, via via, fino a Sesto 5. Giovanni ecc.) assai più distanti dal centro storico di quanto lo siano quelli della zona Sud (Ticinese/Genova, Romana/Vigentina ecc.). Ma i primi non sono solo topograficamente più distanti. Sono anche collocati in una situazione urbana che vede più “ostacoli”, più territori “nemici” tra gli abitanti di questi “luoghi”[2] e la fruizione del centro storico, “anima” pulsante, centro di potere e luogo di innovazione della vita della città.

Un triangolo molti destini

Parafrasando l’Umberto Eco di Diario minimo[3] appare evidente che Milano ha una struttura circolare spiraliforme. E altrettanto ovvio (assumendo i concetti euclidei di geometria piana) che una simile struttura costringa i suoi abitanti a muoversi principalmente mediante triangolazioni, i cui vertici si insinuano nel centro storico mentre le basi conseguenti si dilatano nelle periferie. Ovviamente i triangoli sono più di uno, ma ai fini di questo racconto se ne possono descrivere due. Il primo, quello della zona Sud, ha il proprio vertice collocato grosso modo dalle parti di via Torino (tra il Carrobbio e piazzetta S. Giorgio) e quindi nel cuore della “città dell’eccellenza”, mentre i lati scorrono l’uno verso Sud inglobando corso di Porta Romana, il Corvetto, Porta Vigentina, Opera, Pieve Emanuele e l’altro verso Sud-Ovest inglobando Porta Genova (la “casba” della tradizione popolare), Porta Ticinese (“Porta Cica”), il Giambellino, la “Baia del re” (ovvero il quartiere Stadera), la Barona, Gratosoglio e, quindi, Corsico, Rozzano, Trezzano sul Naviglio ecc. (mappa n. 2). La dorsale di questo triangolo è costituita dal corso S. Gottardo, che è una delle vie dello shopping (o “asse commerciale attrezzato”) della città, che prosegue poi nel corso di Porta Ticinese per confluire appunto in via Torino.

Per chiunque conosca la città appare evidente che gli abitanti della città dell1 “abbandono” (le periferie) della zona Sud si trovino ad avere un avvicinamento al centro storico per larga parte “amicale” e conviviale. Amicalità e convivialità assicurate sia dalla catena dei negozi per larga parte di profilo medio-basso – e quindi corrispondente al potere d’acquisto degli acquirenti provenienti dalle periferie – sia dall’ininterrotta serie di locali di aggregazione e intrattenimento (osterie, trattorie, bar, bocciofile ecc.).

Il secondo triangolo è invece interamente collocato nella zona Nord/Nord-Est e ha il proprio vertice collocato in piazzale Loreto e i] lato Ovest che è segnato interamente da viale Monza verso Sesto S Giovanni, Cinisello ecc., mentre il lato Est corre attraverso via Porpora, ingloba Lambrate, il parco Lambro, Segrate, PioItelIo ecc. All’interno di questo triangolo ci sono storici insediamenti operai come quelli di Crescenzago/Padova, Gorla, Precotto e, via via, fino a Sesto S. Giovanni, la “Stalingrado d’Italia” (mappa n. 3).

Questo esemplare triangolo connotato da storiche “residenze operaie” ha, al contrario del primo, il proprio vertice decisamente molto più “periferico” di quello della zona Sud e ha un lungo “asse commerciale attrezzato” (il più americano della città e anche uno dei più intolleranti) come il corso Buenos Aires, che lo collega a corso Venezia (deserto e inospitale) e quindi a San Babila, una delle piazze più elitarie e nemiche di tutta la metropoli. Di conseguenza gli abitanti del triangolo Nord non hanno un avvicinamento né amicale né conviviale verso il centro storico[4].

A queste caratteristiche che connotano la diversa collocazione urbana dei due triangoli, va poi aggiunta la storia particolare della zona Ticinese/Genova (vertice e cuore del triangolo Sud) che è una delle zone più antiche della città (tracce della città romana, di quella medioevale, di quella spagnola e i quattro Navigli navigabili) [5] da sempre caratterizzata da una composizione sociale mista tra artigianato, fabbrica diffusa, ceti popolari legali e extralegali (da cui l’appellativo popolare di “casba”). Ragione per cui il microsistema sociale Ticinese/Genova finisce per diventare un’esemplare zona di frontiera urbana tra centro e periferia, ma anche e contemporaneamente un sistema sociale di frontiera tra le classi e i ceti che storicamente hanno prodotto un’abitudine alle forme di convivenza tra modelli e stili di vita diversi.

Ed è per la somma di tutte queste caratteristiche che il vertice del triangolo della zona Sud diventerà nei primi anni Settanta il quartiere d’Europa a più alta intensità di sedi politiche extraparlamentari. E se la singolare vicinanza territoriale ai luoghi del potere istituzionale era probabilmente intenzionale, cosciente e progettuale, la facilità di ottenere le sedi in affitto e l’accettazione popolare delle stesse erano tutte conficcate nell’intera storia sociale di questa porzione di territorio urbano.

La mappa n. 1 evidenzia questo radicamento e la sua appendice (richiami n. 27,28,29,30,31,32) dimostra visivamente sia la vicinanza con piazza Duomo sia quella con le sedi politiche intorno all’Università Statale.

 

Una tendenziale fine della verticalizzazione politica e la sua ricaduta sul territorio

La storica “cittadella” raccolta intorno ai Navigli diventerà per qualche anno fiammeggiante di bandiere rosse e rossonere. Ai luoghi storici da leggenda metropolitana si aggiungeranno altri luoghi forse altrettanto leggendari. Forse li c’è stata anche la prima sede delle Brigate rosse (così dice Franceschini nel suo libro ma non ne rivela l’ubicazione, mentre “rivela” invece una serie di altre sciocchezze), ma sicuramente in via Maderno al Ticinese vengono arrestati Renato Curdo e Nadia Mantovani. Così le antiche osterie dei “lavoratori dei Navigli” diventeranno aggregazioni politiche e comunicative altrettanto importanti delle sedi politiche e dove si mischieranno le canzoni di lotta con quelle della tradizione malavitosa.

Con le sedi politiche arrivano anche migliaia di militanti provenienti da tutta la città. Si installano nelle case sfitte, guidano le occupazioni di interi stabili, aprono attività di autofinanziamento, invadono le antiche trattorie e osterie. Per qualche anno lo zenit del triangolo della zona Sud sarà una zona rossa, militante e liberata.

Sulla porta d’ingresso del mitico bar Rattazzo (in corso di Porta Ticinese) qualcuno scriverà: «Questo è il territorio dei diversi e tutto ciò che è diverso è bello».

La crisi del modello verticale organizzativo comincerà a essere evidente verso il 1974-75. Cominceranno a sciogliersi o ad andare in crisi molte organizzazioni extraparlamentari. Si parlerà lungamente della “crisi della militanza” e dell’emergere contraddittorio di nuove “soggettività”. Nelle fabbriche il padronato ha iniziato una violenta offensiva ristrutturatrice che si protrarrà per molti anni (simbolicamente e concretamente raggiungerà il suo apice alla Fiat nel 1980, con la manifestazione reazionaria dei 40.000 quadri e bottegai torinesi e la messa in cassa integrazione di 23.000 operai mai più reintegrati). L’obiettivo dei padroni è quello di eliminare progressivamente tutte le avanguardie di lotta formatesi nel quinquennio precedente. Decentramento produttivo, ovvero esternalizzazione di parti della produzione; “uso politico della cassa integrazione”, che colpisce principalmente gli operai più combattivi; introduzione di nuove tecnologie che inglobano “sapere operaio” ed eliminano forza lavoro; progettuale delegittimazione dei consigli di fabbrica, sono tra le armi più efficaci messe in campo dai padroni, frequentemente in accordo strategico con i sindacati ufficiali e lo stesso Partito comunista, laddove è maggiore  la rigidità e la forza della “centralità operaia” che si vuole fare a pezzi.

Nei territori urbani e nel grande hinterland metropolitano intere porzioni di organizzazione sociale e operaia cominciano a collassare sotto i colpi di un attacco così violento. Il decentramento produttivo comincia a frantumare la fabbrica su aree vastissime di territorio. E “decentramento” vuoi dire essenzialmente piccole fabbriche con lavoratori privi di diritti e rappresentanza. Vuoi dire “lavoro nero” sottopagato che nella pubblicistica ufficiale viene eufemisticamente definito e glorificato come ciclo del sommerso.

Sia pure nella sua estrema sintesi legata a questo intervento, è dentro questo scenario che prova a muoversi e autodeterminarsi una nuova composizione giovanile scaturita sia dalla dilatazione dei confini metropolitani sia dall’estendersi smisurato dell’hinterland. Hanno tra i 15 e i 18 anni, sono nati nei quartieri-dormitorio costruiti verso la fine degli anni Sessanta, sono frequentemente figli dell’immigrazione interna, hanno avuto principalmente insegnanti di sinistra impegnati e generosi che rientravano nella più generale e mutata funzione del ceto intellettuale che tendeva a rifiutare il “ruolo di tecnico” per scegliere piuttosto quello di “ceto politico”. Un ceto politico tutto particolare ed extraistituzionale.

Sono rimasti “silenziosi” per anni: il tempo di prendere confidenza con il territorio e di provare ad “addomesticarlo” e piegarlo ai propri bisogni.

Come abbiamo visto, fino a quel momento le sedi politiche dei gruppi extraparlamentari si sono concentrate verso il centro storico della città, si sono mosse per “mangiare il centro”, per fare, nella sfera delle rappresentanze, concorrenza alle sedi politiche istituzionali, per conquistare “spazio” nella città dell’eccellenza per poi muoversi verso le periferie e le zone industriali. La pratica era rimasta quella dell’avanguardia esterna che interviene da un luogo “centrale” sui processi e sui bisogni disseminati sul territorio.

Molti dei soggetti sociali che vivono nelle grandi periferie e nell’hinterland sono studenti lavoratori, sono all’interno del settore “sommerso” e sono inesorabilmente destinati all’economia informale Ed è da questi bisogni, da questa condizione sociale ed esistenziale che rinascono, dopo molti anni, le compagnie di strada sia nei quartieri dormitorio sia nella miriade di piccoli comuni del sistema industriale milanese e lombardo. Si formano così nuove aggregazioni e nuovi luoghi di riferimento. Ma questa volta sono “luoghi territorializzati” e disseminati sul territorio, così come disseminata comincia a essere la fabbrica e la struttura produttiva.

Nasceranno così, tra il 1975 e il 1976, cinquantadue circoli del proletariato giovanile per la quasi totalità collocati nei quartieri vicini ai confini comunali e nei comuni immediatamente limitrofi (mappa n. 4) .

 

La visualizzazione grafica rende immediatamente conto delle differenze dell’”uso del territorio”. La rappresentanza verso i “luoghi deputati del potere” è diventata irrilevante. La realizzazione di ciò non può che avvenire nei territori del proprio vissuto quotidiano.

Il “cielo della politica” 7 è ormai largamente offuscato, il luogo centralizzato della militanza non restituisce più identità, realizzazione di un’appartenenza.

I giovani dei circoli sono per la stragrande maggioranza figli di proletari, molti di loro sono stati avviati prestissimo (14-15 anni) al lavoro. Il quartiere li riconosce come propri. Spontaneamente avvertono che qualcosa si è concluso. I loro padri e i loro fratelli maggiori hanno memorie di lotte e immaginari di utopie lontane da realizzare in un dopo indefinito. Ma a loro sembra che la memoria immediata del ciclo di lotte precedente non abbia cambiato poi granché delle loro prospettive future e del loro bisogno di felicità. Non hanno e non credono più in orizzonti futuri: desiderano quasi spasmodicamente la realizzazione “qui e ora” di “spazi” di felicità e di comunicazione piena, diretta, consapevole.

Si può dire che l’invenzione del presente” cominci proprio con loro e si prolunghi nel tempo e per tutti gli anni Ottanta. [6]

I circoli sono “orizzontali”, diffusi. Ogni tanto provano a dar vita a un coordinamento delle varie esperienze, ma i vari tentativi si susseguono senza determinare una struttura stabile e, anzi, la sensazione diffusa è che un organismo di questo tipo non lo vogliano, a causa degli intrinseci rischi di burocratizzazione. Così, e a partire dal gennaio 1976, dieci coordinamenti nascono e altrettanti si sciolgono.

I circoli sembrano trascurare il centro cittadino come luogo dove rappresentarsi. Ogni tanto fanno delle puntate nel cuore della città creando delle situazioni all’aperto (per esempio in piazza Mercanti), ma soprattutto “vanno in centro” per praticare autoriduzioni nei cinema di lusso e nelle pizzerie. Tutta la tensione è rivolta a conquistare un uso creativo, ricco e sociale dello spazio urbano. Le stesse “discese” verso la città dell’eccellenza sono permeate da una divertente ironia nei confronti della generazione anticonsumistica del ’68. Durissima e beffarda è invece la polemica con il sindacato e il Pei sulla tematica dei sacrifici:

I giovani rifiutano i “sacrifici necessari. Siamo qui a denunciare la “società dei sacrifici”, come nel ’68 eravamo davanti aita Bussola e alla Scala a denunciare la “società dei consumi. Siamo qui oggi a riaffermare ii diritto di tutti i proletari di prendersi ciò che i borghesi hanno riservato per sé: lussi, privilegi, teatri, cinema, ristoranti, sale da ballo. Ribadiamo ii diritto di poter usufruire degli stessi privilegi che la borghesia tiene per sé. Il diritto al lusso, al piacere, alle rose, e non solo al pane.

Chiediamo che la Giunta rossa e il prefetto impongano il prezzo politico di 500 lire nei cinema di prima visione, che vengano finanziati le decine di centri culturali giovanili di base, i centri sociali, i centri autogestiti di lotta all’eroina. Chiediamo un incontro con la Giunta comunale e provinciale per discutere ii senso, i tempi e le modalità ditali finanziamenti.

 

Come si deduce da questo volantino, distribuito durante una delle tante autoriduzioni, il problema non è più quello di “fare concorrenza” alle istituzioni politiche, ma quello di rivendicare diritti, spazi e territori da autogestire. La direzione, che prende il movimento degli spazi sociali autogestiti è tutta e interamente inserita nelle nascenti pratiche di “contropotere territoriale” e il “territorio” è tutta la città e non solamente una sede istituzionale da conquistare nella città dell’eccellenza.

I movimenti delle occupazioni” iniziato alcuni anni prima tallonava il capitale immobiliare sul suo stesso terreno, opponendosi al \piano istituzionale che tendeva a liquidare il modello di Milano come città operaia. L’obiettivo piuttosto evidente era quello di favorire il ripopolamento dei quartieri da parte di strati proletari ostili alla mobilità territoriale. Era evidente che la logica politica che muoveva questo ciclo di lotte era sostanzialmente speculare alle lotte di fabbrica[7], tutte protese a difendere la “rigidità” e la stabilità di luogo e di mansione del “corpo centrale della classe operaia”.

Ma l’azione marciante del capitale appariva assai difficile da contenere. Il decentramento produttivo portava la produzione direttamente nei territori urbani e extraurbani. Intere porzioni di città venivano ridisegnate dalla “messa in produzione” del territorio da parte delle grandi immobiliari.

I circoli avvertono direttamente e quotidianamente la forza di questi processi. La loro idea di “contropotere territoriale” cerca di adeguarsi ai nuovi scenari: con l’anticipazione repressiva del capitale con il decentramento produttivo non si può più:

intendere ii contropotere come una trincea da scavare sul posto di lavoro e la trattativa come modo di imporre i bisogni operai: il contropotere diventa immediatamente lo scontro con ii capitate, uno scontro quotidiano e continuato che vede nel territorio l’unico campo di battaglia, senza più linee di demarcazione e mediazione tra capitate e proletariato… Costruire le ronde proletarie che vadano a visitare l’organizzazione del lavoro e la composizione di classe territoriale, far nascere commissioni e gruppi di intervento che vadano a scovare i covi del lavoro nero, gli spacciatori di eroina che seminano morte; formare commissioni di controinformazione per avere la conoscenza totale della militarizzazione cui siamo sottoposti; ronde contro ii carovita che impongano il controllo dei prezzi e la qualità delle merce venduta dai bottegai; vari gruppi di studio che analizzano la nocività metropolitana…9

 

Tallonare il capitale sul suo terreno: nascita dei centri sociali

Insieme alla riflessione indotta dall’offensiva capitalistica, la “crisi della militanza” dei soggetti politici più adulti sarà invece il serbatoio di risorse umane che finirà per ridisegnare le “geometrie urbane” di un altro percorso della sovversione politica (le varie componenti dell’Autonomia operaia organizzata e di quella “diffusa”), mentre molti altri militanti delusi dall’esperienza “gruppettara” e convinti, a loro volta, che la nuova frontiera del conflitto fosse interamente connessa al “territorio” ritorneranno nei quartieri e nelle zone di appartenenza abitativa per inventare i “nuovi luoghi” del progetto e dell’intervento politico. Nascerà così, a fianco dei circoli e spesso sovrapponendosi e incrociandosi a questi, il lungo e ininterrotto ciclo dei centri sociali. I centri sociali sono “luoghi” più “grossi” dei circoli. Sono quasi sempre inseriti nel territorio urbano più denso di insediamenti produttivi e occupano quasi sempre strutture industriali dismesse all’Interno di quartieri operai e popolari. [8]

Nasceranno tra gli altri a partire dal 1975, l’oggi molto famoso Centro sociale Leoncavallo (1975), il Fabbrikone, la Fornace (1977), il Csa Sempione (1978), il centro sociale di via Argelati (1977), il Collettivo autonomo ticinese (1977) e via Santa Marta (1978). Alcune occupazioni riguardano invece interi stabili con un mix di abitazioni e spazi sociali. Hanno queste caratteristiche via Correggio (1975), via Conchetta 18 e via Torricelli (1976), corso Garibaldi (1976) e la casa occupata-collettivo di via dei Transiti (mappa n. 5).

 

I centri sociali si affiancano al movimento dei circoli e, come questi, sono spazi di aggregazione politica completamente nuovi. Anche qui, non abbiamo più sedi politiche centrali di organizzazione, ma spazi autodeterminati, assembleari e autogestiti da ex militanti, operai, neo-fricchettoni, femministe, occupanti di case ecc. Più “serioso” e politico è il Leoncavallo, dove prevale la componente di ex militanti dei “gruppi” (anche se, fin dall’Inizio, sono molto attivi alcuni militanti di Avanguardia operaia) unitamente ai comitati di quartiere operai-inquilini; decisamente “autonomo” e movimentista è il Fabbrikone (al suo interno trovano spazio gli operai dell’Assemblea autonoma Alfa Romeo, il Comitato inquilini zona Sud, ma anche molto “movimento” controculturale); c’è via Correggio, con decine di famiglie di immigrati (che adattano gli spazi ad abitazione), una scuola popolare, il Coordinamento lavoratori precari, alcuni collettivi femministi e, più tardi, la sede di riferimento per una parte cospicua della componente libertaria milanese; c’è la fortemente politicizzata via dei Transiti; la poetica, metropolitana, controculturale Fornace; decisamente duri, autonomi, politicizzati sono sia l’Argelati P3 8 sia il Collettivo autonomo ticinese; Conchetta e Torricelli sono anarchici e libertari e convivono con il Collettivo lavoratori ospedalieri, il Comitato di lotta per la casa e sono alla ricerca di nuove forme di “sindacalismo”; infine, già crinale tra i circoli e il nascente movimento punk, troviamo il Santa Marta.
Questi luoghi dell’autogestione sono tutti inseriti in territori metropolitani segnati dalla storia operaia e popolare: il Leoncavallo e la casa occupata-collettivo di via dei Transiti al Casoretto e nella zona Crescenzago/Padova, da sempre “residenza operaia” e nel vertice del triangolo della zona Nord-Est; il Fabbrikone, l’Argelati P38 (derivato, ironicamente ma non del tutto, dal numero civico della via), Conchetta, Torricelli e il Collettivo autonomo ticinese, la Fornace (vicino ai confini comunali verso Corsico) nella zona Ticinese/Genova vale a dire nel cuore o lungo i lati del triangolo della zona Sud, mentre il Santa Marta nascerà proprio nello zenit dello stesso triangolo; il Garibaldi ai bordi di Brera, ma idealmente e politicamente collegato alle lotte del popolare quartiere Isola.10 In un certo senso sono anomale, invece, le occupazioni di via Correggio e di corso Sempione nella zona della Fiera Campionaria anche se Correggio occupa la sede dismessa della fabbrica Mellin e nella zona resisteva, al tempo, una certa composizione popolare.[9]

Si può dire che la definizione di centro sociale, relativamente al territori6 milanese, nasca proprio da queste esperienze originarie che segnano anche un diverso “uso del territorio” e un diverso modo di fare politica e organizzazione.

Ai fini del racconto precedente abbiamo inserito la mappa n. 6 che visualizza topograficamente l’attività del Comitato di lotta per la casa Torricelli/Conchetta, perché evidenzia e sottolinea l’inesausta capacità del triangolo Sud di “fare rete”, ma anche perché esemplifica un uso concreto della lotta territoriale che, a partire da un “luogo di autorganizzazione”, costruisce ininterrottamente altri spazi da sottrarre alla speculazione e al dominio istituzionale cercando di realizzare “comunità reale e territoriale”. Molti altri e altrettanto importanti sono stati, gli organismi che hanno portato avanti le lotte per la casa. [10]

Appare evidente che a diverse collocazioni territoriali corrispondono tendenzialmente un diverso modo di fare laboratorio politico, alleanze, intervento Così il Leoncavallo, verso la fine degli anni Settanta, troverà e rinnoverà continuamente sinergie con la complessa composizione operaia del triangolo Nord-Est, caratterizzandosi come una delle “frontiere” dure di resistenza e difesa della “centralità operaia”, mentre gli organismi sociali disseminati nel triangolo Sud avranno evoluzioni di carattere “controculturale” e una diffusa adesione alle pratiche dell’autonomia operaia organizzata o diffusa[11].

 

 

Un finale d’epoca?

I circoli cominciano a entrare in crisi verso la fine del 1976 e alla vigilia dell’esplosione del movimento ’77 nelle altre città.

Milano è uno dei punti focali dell’offensiva ristrutturatrice e il tessuto dei circoli si rivela troppo fragile rispetto alle forze in campo La componente militante dei giovani operai delle fabbriche si appresta a are delle scelte molto radicali e la stessa pratica delle “ronde proletarie” si incrocia frequentemente, per mezzi e obiettivi, con le dinamiche di clandestinizzazione di una parte degli storici militanti formatisi nel quinquennio precedente[12]. L’eroina avanza senza sosta (Milano diventerà la capitale del consumo e dei morti di eroina e manterrà questo primato per tutti gli anni Ottanta) e per molti, la scelta armata assume i contorni di una necessità esistenziale, di un gesto di rigore per reagire alla distruzione dei fragili legami sociali appena costruiti.

Molti luoghi si chiudono in se stessi. Rimangono nelle periferie e nell’hinterland alcuni circoli che consumeranno con forza e dignità la loro esperienza. Una parte degli stessi centri sociali diventa abbastanza silenziosa, altri chiuderanno tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta.

Ma l’esperienza dei circoli e dei centri sociali ha segnato definitivamente i modi nuovi di intervento territoriale. L’autodeterminazione di ogni singola esperienza, l’autogestione, l’esigenza del radicamento territoriale, il rifiuto, spesso radicale, della delega, la percezione di un processo sociale che tende inesorabilmente a emarginare i soggetti non disciplinati, la caduta della speranza degli “orizzonti ultimi” come programma, lo spostamento dei propri universi vitali e conflittuali dal problema del tempo a quello dello spazio e il bisogno di felicità qui e ora”: sono frammenti di un mosaico che segnerà tutte le esperienze successive13.

La “politica dell’emergenza”, autentico sostegno dell’offensiva anti-operaia., che sarà la forma di governo degli anni Ottanta, non lascia spazi possibili di ricomposizione. Lentamente l’azione dei circoli sfuma nella separatezza, abbandonando i luoghi dell’azione territoriale e sostanzialmente si distacca dai processi produttivi in corso. Intorno alle ceneri dei circoli rinascono aggregazioni di strada che si riconoscono quasi esclusivamente nell’autoreferenzialità amicale del proprio piccolo gruppo. Ma il bisogno di produzione di “senso” per darsi nuove forme di “identità “a fronte del vissuto esaurimento di tutte le precedenti favorisce, abbastanza rapidamente, la penetrazione delle pratiche e degli stili di vita punk [13].

Nell’esperienza punk confluiscono sia una parte degli “sconfitti” provenienti dai circoli, sia coloro, tra i più giovani, che “sentono” il bisogno profondo di un’azione collettiva, separata e fortemente riconoscibile dai segni, dai modi e dallo “stile”.

La mappa n. 7 evidenzia come il movimento punk abbia sostanzialmente origine dove era nato il movimento, dei circoli.

Il centro storico della città appare “ripulito” e lo stesso triangolo della zona Sud ha perso la gran parte dei suoi luoghi politici[14], mentre quello della zona Nord-Est dispone di due autentici baluardi di resistenza che sono il Leoncavallo e la casa occupata di via dei Transiti, che dispone di un collettivo politico assai riflessivo e combattivo.

 

Di nuovo alla conquista del centro storico?

Di nuovo alla conquista del centro storico? A giudicare dalla mappa n. 8 parrebbe di sì. In realtà la dinamica che porta di nuovo a “mangiare il centro” ha caratteristiche evidentemente diverse sia da quelle delle sedi politiche dei primi anni Settanta (concorrenza verticale con le sedi istituzionali), sia dalla pratica dei circoli (si cala in “centro” per rivendicare un uso ricco della città). I punk conquistano agibilità invece in spazi privati (bar e simili), nelle strade, nelle piazzette e lo fanno “provocatoriamente”, usando il “corpo” come un medium che fa circolare messaggi di rifiuto, diversità, separatezza. Ma appare evidente che il “palazzo”, il luogo delle rappresentanze istituzionali è ormai privo di un qualsiasi significato, è un luogo lontano, separato, che riproduce se stesso, ma che, forse, non governa praticamente più nulla. I poteri veri sono altrove e le nuove tecnologie flessibili rendono per larga parte superfluo il concentrarsi della’ direzione dei processi produttivi nel centro storico. Quelli del “palazzo” sono, al più, dei semplici servitori prezzolati dei poteri reali. Gli stessi “triangoli” urbani che consentivano di leggere una certa storia del territorio urbano tendono ormai a decomporsi e a frantumarsi.

Si potrebbe certo rivendicare un’orgogliosa appartenenza alle periferie, ai luoghi della memoria dei circoli, ma la centrifuga della speculazione immobiliare espelle, decentra, distrugge interi microsistemi sociali. Trecentocinquantamila cittadini vengono sradicati dai propri quartieri e scaraventati chissà dove. Altri perdono in continuazione posizioni territoriali per essere a loro volta dislocati nelle prime periferie oltre la terza circonvallazione. Tutto sembra diventare confuso e invivibile.

I punk sentono come irrinunciabile il bisogno di radicamento in zone socialmente più dense di opportunità, incroci, visibilità. Sarà così che per affinità, come in Correggio, o attraverso conquiste successive che inizierà la fase del radicamento dalla periferia verso altre zone. E sarà un’autentica e inesausta pressione/invasione di spazi preesistenti, come viene visualizzato nella mappa n. 9.

 

 

 Tornando al presente, se avessimo visualizzato una mappa dei centri sociali e della loro collocazione territoriale fino al 1989, l’effetto topografico sarebbe stato abbastanza singolare. Tutti i luoghi dell’autogestione risultavano collocati nelle sezioni. Nord-Est e Sud-Est della città. Una linea invisibile che partendo idealmente da Corsico e trasversalmente attraversava la città verso Sesto S. Giovanni tagliava in due la città dei luoghi dell’autogestione da quella silenziosa delle zone Nord-Ovest e Sud-Ovest. Nella mappa n. 10, che invece pubblichiamo risulta invece e comunque molto evidente che ben diciotto spazi di attività autogestiti sono comunque collocati tra Sud e Nord verso Est, mentre quattro dei restanti cinque collocati a Nord-Ovest sono nati molto recentemente.

Centri sociali (anni Novanta)

La spiegazione di questa anomalia apparente è tutta inserita nella storia industriale della città che nel suo Nord-Est ha avuto il territorio a maggiore intensità e insediamenti produttivi. E, anzi, l’asse del Nord-Est è attualmente il principale polmone dello sviluppo tecnologico della città stessa. E ovvio che in questo territorio la ristrutturazione abbia agito più in profondità che altrove, ed è altrettanto ovvio che i soggetti sociali siano stati quindi costretti a dare continuamente risposte vitali al piano del capitale, che siano stati costretti a inventarsi spazi di appartenenza e di progetto.

Si potrebbe osservare che nella zona Nord-Ovest ci sono stati, e ci sono tuttora, vasti agglomerati popolari (si pensi a Baggio, a sua volta storica ‘residenza operaia”,[15] o alla zona intorno a S. Siro (le vie Aretusa e Selinunte ecc.), ma in realtà la differenza di fondo consiste nel ruolo diverso che hanno i quartieri monoclasse (solo impiegati, solo operai o solo dirigenti) con quelli a composizione mista. I primi restituiscono un vissuto e un’appartenenza univoca e bassa flessibilità, mentre i secondi favoriscono la formazione di un soggetto sociale con una più ricca percezione delle differenze e delle opportunità. A questo si può aggiungere che il sistema sociale urbano e industriale del Nord-Est/Sud-Est è stato storicamente un’esemplare miscela di insediamenti industriali, di supporto terziario e di strutture residenziali che alternavano in continuazione ceti popolari e strati di classe (operai, impiegati, media e piccola borghesia).

Il ragionamento sarebbe piuttosto lungo, ma per concludere, e nei limiti di questo intervento, si possono fare alcune ultime osservazioni inerenti le memorie e le forme di azione e resistenza che si sviluppano nel conflitto urbano per ciò che riguarda un “certo uso sociale del territorio”.

La prima e abbastanza evidente è che permane una certa funzione di penetrazione verso il centro storico del triangolo della zona Sud. Gli esiti storici (e le memorie delle lotte chi vi permangono) della sua diversa collocazione urbana rispetto al centro storico, continuano a funzionare come universo che determina un singolare segmento di “resistenza” contro la tendenza generale che dilata sempre più la città dell’eccellenza oltre la prima cerchia dei Navigli (da piazza Cadorna a piazza Cavour) per invadere lo spazio tra la stessa e quella delle mura spagnole (corso di Porta Vercellina/Papiniano/ D’Annunzio/Gian Galeazzo/Beatrice D’Este/Filippetti/Caldara/Regina Margherita/ Bianca Maria/Viale Maino/Bastioni fino a piazza della Repubblica) per proseguire “invasivamente” verso la circonvallazione delle Regioni (però in particolare nella zona Sud/Sud-Est).[16]

La seconda è che appaiono in formazione nuove autodeterminazioni territoriali sia nella parte Sud-Est sia nella parte Nord-Ovest della città.

La terza, infine, riguarda la verticale verso Nord, dal quartiere Garibaldi attraverso l’Isola fino a Greco. Anche questo è uno storico triangolo che era rimasto in parte silenzioso dopo le grandi lotte del 1968/1973 e che ritornò ad avere un cuneo organico di penetrazione a rete dentro il tessuto cittadino.

In realtà l’importanza del centro storico come luogo della possibile rappresentanza appare attualmente depotenziato di un qualsiasi significato. E ciò a dispetto di alcune frustrazioni dei centri sociali per le proibizioni connesse alla sua agibilità.

La frontiera della possibile rappresentanza è in tutta evidenza l’intero territorio cittadino strutturato nelle sue gerarchie di classe e di fruizione. L’intelligenza possibile potrebbe proprio consistere nella conoscenza profonda, leggera e dialettica delle gerarchie territoriali. Non si tratta tanto di avere nostalgia delle pratiche di “contropotere”, ma di costruire spazi di sperimentazione lontano e contro l’istituzione, ovvero rapportandosi alla stessa esclusivamente per ribadire “diritti negati”. Costruire spazi-laboratorio, indispensabilmente in rete tra loro, come un reticolo ostile, ma progettualmente dentro i processi stessi di uso speculativo o localistico del territorio urbano. L’agire metropolitano non potrà che essere continuamente dentro il continuo ridisegnarsi della città dell’eccellenza, di quella di “frontiera” e di quella dell”‘abbandono”. E lo potrà fare solo costruendo reti, alleanze, contaminazioni, forme di convivenza orizzontali e paritarie. Qualsiasi desiderio di “centralità”, al di là del suo possibile realizzarsi non potrebbe, nel tempo, che rivelarsi un errore imperdonabile

 

“Un certo uso sociale dello spazio urbano”, in Consorzio A.A.Ster,
Centro sociale Cox 18, Centro sociale Leoncavallo, Primo Moroni,
“Centri sociali: geografie del desiderio. Dati, statistiche, progetti,
mappe, divenire”, ShaKe Edizioni Underground, Milano, 1996
trad. greca 1999

 

 

 

[1] Questo intervento è tratto da un lavoro molto più vasto e analitico ancora in lavorazione intitolato La luna sotto casa che analizza l’uso sociale dello spazio urbano a Milano dal 1948 ad oggi. Qui ne viene data un’estrema sintesi necessariamente rigida e un po’ schematica.

[2]      In questo secondo piccolo “racconto”, i luoghi sono i quartieri letti come microsistemi sociali e commerciali che producono non solo lo spazio di appartenenza, ma anche la personalità di chi vi abita e la percezione che la stessa ha della sua collocazione gerarchica all’interno dello spazio urbano. Così come viene descritta Madame Vaquer da Balzac, e cioè attraverso la consonanza della sua persona con il luogo, il milieu influisce sulla sua cultura e visione del mondo. Vedi G. Bassanini, C. Braga. L. Cascitelli, E Celaschi, I. Farà, B. Giorgini, P Moroni, N. Piccolo (a cura di), Il discorso dei luoghi, Liguori, Napoli 1992.

[3]      Pubblicato da Mondadori, Milano, nel 1963. Al proposito vedi il saggio ivi contenuto II paradosso di Porta Ludovica. Saggio di fenomenologia topologica.

 

[4]      Vedi il saggio esemplare che M. Cerasi e G. Ferraresi hanno dedicato al quartiere Crescenzago/Padova in La residenza operaia a Milano, Officina, Bologna 1974.

[5]      È stato per molti decenni il “porto di Milano” e negli anni Trenta era il secondo porto italiano per tonnellaggio di merci. Ovvio che intorno a “un porto” si formasse un milieu extralegale e che lo stesso resistesse nel tempo.

[6] «Finalmente il cielo è caduto sulla terra» scriverà il giornale A/traverso (il più importante del movimento ’77 ma che nascerà, non a caso, proprio nel 1975). Alcuni mesi dopo, il “cielo” della politica è proprio quello plumbeo, “verticale” e autoritario sia nella sua versione istituzionale sia in quella extraparlamentare.

[7]      Come si deduce da questo volantino, molte delle recenti polemiche, che hanno attraversato i centri sociali in relazione al problema delle “trattative” con le istituzioni, sono quantomeno improprie se riferite storicamente a una supposta originaria e incontaminata irriducibilità dei centri sociali.

[8]      Da “Eppur si muove…”, foglio dei circoli del Coordinamento zona Sud, Milano, 1976.

[9]      Le lotte per la casa del quartiere Garibaldi/Isola risalgono addirittura al 1968. In quell’anno si formò un Comitato unitario di base per iniziativa di un gruppo di studenti di architettura e delle facoltà umanistiche con l’adesione di molti abitanti dei due quartieri. Comitati dello stesso tipo si formarono in tutta la città prima e dopo I’ “autunno caldo” (famosi quelli del Gallaratese, di Quarto Oggiaro, che poi divennero l’Unione inquilini a livello cittadino). Nel racconto ci riferiamo in particolare allo stabile di corso Garibaldi 89, che fino ai primi metà degli anni Ottanta sarà occupato e diventerà anche polo di riferimento politico. Ai bordi di questo stabile (poi ristrutturato) ci sono attualmente il Csa Garibaldi e l’associazione Filo rosso.

[10]   Per il ciclo dei primi anni Settanta vedi tra gli altri: AA.VV., Città e conflitto sociale, Feltrinelli, Milano 1972; E Di Ciaccia, La condizione urbana. Storia dell’Unione inquilini, Feltrinelli, Milano 1974; A. Daolio, Le lotte per la casa in Italia, Feltrinelli, Milano 1974. Sul territorio come strumento di controllo sociale, vedi G. Della Pergola, Diritto alla città e lotte urbane, Feltrinelli, Milano 1976.

[11] Ciò non vuol dire che nella zona Sud non esistessero organismi operai e sociali con pratiche di lotta dura e determinata, ma che gli stessi avessero un’attività propria, autonoma e indipendente dai “luoghi di socializzazione” che venivano piuttosto usati come ambiti di possibile reclutamento.

[12] Non viene qui analizzata la “scelta armata” che richiederebbe un tempo e uno spazio di riflessione molto più vasto di quello qui a disposizione.

[13]   Su alcune delle caratteristiche di questa esemplare controcultura metropolitana molto è stato scritto e in parte sintetizzato in altra parte di questo volume.

[14] “Resisteranno” fino al 1985-86, la redazione di “Controinformazione”, la libreria Calusca e poco altro. Sono tuttora operanti la sede dei Caf, Comitati antifascisti, e quella di Avanguardia operaia (poi diventata Democrazia proletaria e, oggi, Rifondazione comunista). Reggono invece le occupazioni con spazi sociali di via Conchetta e Torricelli, mentre c’è tutta una lunga storia piuttosto originale che riguarda il Centro sociale territoriale di via Scaldasole dove convivono con l’istituzione un gruppo di occupanti che collabora con alcuni comitati di cittadini ed è molto attivo sul territorio.

[15] Vedi il volume di Cerasi e Ferraresi, op. cit.

[16] Parliamo qui di processi di “invasione” relativamente recenti, come quelli, per esempio, verso Porta Romana/Vigentina, del Ticinese/Navigli, di Porta Genova verso il Giambellino, della zona tra viale Montenero/Piave