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Un atto di pura invenzione

Contrariamente a quanto si pensa, il cielo cambia. Come l’oroscopo. La conoscenza del cielo, estremamente ricca per gli antichi, si è andata perdendo nel tempo, sostituita dalla tecnologia. Possiamo ora riscoprire il cielo per ritornare dentro noi stessi.

Il cielo non è immutabile come si pensa, ma cambia. Come il vostro oroscopo. L’oroscopo è la mappa del cielo nel momento in cui è stato staccato il cordone ombelicale e, contrariamente al senso comune, non è una previsione ma una cosa estremamente seria che comporta la conoscenza del cielo. Oggi si pubblicano oroscopi validi mille anni fa: se siete nati il 21 dicembre non siete capricorno ma sagittario; se siete nati il 21 di marzo non siete ariete bensì pesci.

Questo è dovuto al movimento di precessione, il moto più lento della Terra, oltre a quello di rotazione a cui sono dovuti il giorno e la notte, e la rivoluzione intorno al sole che causa le stagioni.

 

Come una trottola che gira sul proprio asse leggermente inclinato quando sta per fermarsi, immaginate la cupola del cielo che ruota con un movimento molto lento: fra dodicimila anni vedremmo, d’inverno, il cielo che oggi vediamo d’estate e solo fra ventiseimila anni potremmo rivedere il cielo di questa sera.

 

Il diverso peso tra una trottola e la terra spiega, dal punto di vista meccanico, perché la precessione terrestre sia così lenta: non si riesce a vedere a occhio nudo nel corso di una vita umana dato che si tratta di 0,75 secondi d’arco (il nostro occhio, quando è buono, può arrivare a vedere al massimo mezzo grado). È solo con la scrittura, che permette la traccia di osservazioni passate del cielo, che è stato possibile osservare questo fenomeno. Già i babilonesi, con le loro tavole che ricoprono circa mille anni, avevano indicato il carattere circumpolare di certe costellazioni.

Questo movimento fa sì che a mutare sia anche la stella polare: quella di oggi lo è dall’anno mille; ve ne sono state molte nel tempo, come la celebre stella Thuban al tempo degli Egizi.

 

Del resto, oggi siamo circondati da adoratori del cambiamento: tutti vogliono fare la rivoluzione ma, come il cielo ci insegna, è possibile osservare il cambiamento solo se qualcosa resta fermo, solo a condizione che qualcosa resti uguale a se stesso nel tempo. Se tutto cambia ci si accorge di nulla.

 

Chi è nato nell’epoca digitale non può comprendere i sacrifici che abbiamo dovuto compiere noi quando andavamo in una cabina telefonica, magari con la pioggia, per darci un appuntamento. I giovani di oggi ti guardano come se fossi del neolitico: del progresso non se ne sono accorti perché non hanno l’età giusta di quando si era senza il telefonino. In generale, e in particolare nell’osservazione del cielo, è importante individuare i corpi che non si muovono e che ci permettono di misurare il movimento. Senza qualcosa di invariante non c’è alcuna verità e la scienza è tale perché una sua parte è invariante e non dipende dal tempo.

 

 

Gli antichi possedevano una conoscenza del cielo molto più ricca della nostra. La piramide di Cheope è stata eretta nell’asse nord-sud rispetto alla stella polare con una precisione migliore dell’osservatorio di Parigi costruito dall’italiano Cassini nel 1770, che tuttavia nella costruzione aveva sbagliato più degli Egizi.

Tutto questo non è strano come sembra: la conoscenza del cielo negli antichi ha determinato l’uso dei numeri e delle lettere, dando forma a un sapere astronomico ben al di là della semplice ragione dell’orientamento, a differenza di quegli animali sociali che non vivono sempre nello stesso posto.

Le api esploratrici danzano di fronte a quelle operaie per indicare dove trovare fiori da bottinare: indicano la direzione e la lontananza del luogo, un po’ come se dessero latitudine e longitudine, conoscono l’astronomia di cui hanno bisogno. Altri animali sociali, come i branchi di lupi o gli uccelli migratori che si muovono anche di notte, sono in grado di orientarsi con le stelle, la Luna o Venere.

Orientarsi con il cielo non è un fatto da istruiti, nonostante a scuola si faccia studiare quella cosa orrenda chiamata geografia astronomica alla fine della quale si odiano il cielo, le stelle, i professori. Come uno che vuole fare musica leggendo la storia della musica. L’unico modo per avere un rapporto con il cielo è guardarlo, come avveniva nella tradizione. Nell’antica Grecia il cielo veniva osservato per avere percezione del tempo. Il cielo funzionava come un orologio pubblico e proprio per questo era il tempo di tutti.

Leggendo Orazio, Virgilio, Ovidio non capirete nulla di questa poesia se non avete in mente le costellazioni che fanno da sfondo all’azione.

 

Nell’antichità una persona mediamente istruita conosceva circa quaranta stelle e venti costellazioni. Oggi, se prendete un fisico che non faccia astronomia, un ingegnere o un avvocato, è tanto se conoscono la costellazione del Gran Carro.

 

Siamo di fronte a una sorta di mutilazione di un sapere che è, tra l’altro, legato al corpo, allo spostamento; una conoscenza senza la quale non avremmo circumnavigato il mondo e le grandi migrazioni dei popoli non sarebbero state possibili. Oggi tale sapere è sostituito dalla tecnologia: non bisogna conoscere le costellazioni per essere piloti. Questa sua inutilità potrebbe spingerci a riappropriarci del cielo, così come si dice di un paesaggio, di uno sguardo. Come un ritorno. Poiché la tecnica ci ha liberato dalla necessità del compiere calcoli, potremmo impiegare quest’energia mentale per ritornare dentro noi stessi. Quando si osserva il cielo si è presi, alle volte, da un tremolio nello stomaco come sull’altalena. Vi suggerisco di interpretare questo fremito, più simile a uno starnuto alle volte, come se il cielo si guardasse attraverso di voi; come se attraverso l’uomo la natura si guardasse. La prima cosa che l’uomo ha guardato e che ha avuto un’importanza cognitiva è stato infatti il cielo: una conoscenza parte del nostro corpo.

Se mi passate una facile retorica, di cui un po’ anche mi vergogno, potremmo affermare che siamo figli delle stelle: gli atomi di cui siamo costituiti sono stati sintetizzati miliardi di anni fa nelle stelle, senza cui il nostro corpo non esisterebbe, così come la vita, rara nell’universo. Nella comunità scientifica è diffusa l’idea che la vita esista altrove, in altre galassie formate da migliaia di stelle che, come le api, non stanno da sole. Invidierei qualcuno che vivesse attorno a Sirio, questa bellissima stella molto diversa dal nostro Sole, che è un po’ meschina e non particolarmente energica.

Forse la vita è solo una fluttuazione statistica in un buco dell’universo, o forse non avremo mai la prova che ci sia su altri pianeti a causa delle distanze: se mandiamo un segnale alla velocità della luce sulla luna, questo impiega un secondo ad arrivare; sul Sole otto minuti e su Arturo trent’anni. Non dovremmo mai dire ai nostri figli di guardare lontano perché diremmo loro di guardare indietro. Guardare lontano non è vedere il futuro che non c’è, ma semplicemente ciò che è stato.

Recentemente è stata individuata una galassia che dista tredici miliardi di anni luce; un caso del genere rende impossibile l’avere notizie sulla vita, sulle specie che si sono estinte e su quelle che, come è accaduto ai dinosauri, a Berlinguer e a Occhetto, non sono scomparsi ma sono diventati lucertole. Questo non è il caso dei ragni che sono uguali a loro stessi da trenta milioni di anni; si potrebbe pensare perché sono perfetti. Qualcosa che non evolve da così tanto tempo è perché ha avuto un adattamento talmente buono al suo ambiente che non necessita della ricerca scientifica, questo sapere dell’uomo occidentale, dove ciò che è nuovo è più importante di quello vero. Se una cosa è vera è banale, ma se è nuova cambia tutto.

 

Seguendo il suggerimento di Plutarco potreste scegliervi una stella, non necessariamente della vostra costellazione, per eleggerla a vostra protezione. Quella stella ve ne sarà grata, perché le stelle amano essere guardate. Quando vi capiterà di poterla vederla, magari nello squarcio di tre secondi in cui si apre un cielo coperto, esclamerete: eccola! Credetemi, il riconoscimento è fortemente gratificante.

 

Le stelle hanno per la maggior parte nomi arabi, pochi greci e ancor meno latini; i greci usavano catalogarle con le lettere dell’alfabeto, mentre gli arabi le attribuivano nomi legandoli alle figure come Vega, letteralmente “occhio dell’aquila” della costellazione della Lira. Secondo la mitologia, questa costellazione rimanda allo strumento musicale costruito da Mercurio con i tendini rubati ai buoi di Apollo che, sentendo questo suono strampalato, si arrabbia non tanto perché scopre di essere senza buoi, ma perché suo fratello Mercurio suonava senza l’accompagnamento della voce umana (per i greci, la poesia deve essere recitata, cantata in musica).

La costellazione del Cigno rimanda invece a uno degli amori di Giove, simile a un uomo immortale e con un’energia infinita, antesignano della lotta per la libertà sessuale. È una divinità che esalta, come tutte quelle greche, l’elemento corporeo, il sesso, l’amore, il canto, la morte; bevono vino, ne fanno di tutti i colori e restano dei.  Compiono vendette su persone innocenti e azioni crudeli, come racconta la costellazione della Grande Orsa. Il Cigno, Orione, la Lira, il Drago sono tutte costellazioni che riguardano un mito, un racconto, romanzi di formazione che rimandano a un sentimento più che a un episodio storico.

Le costellazioni, la stilizzazione di un oggetto in un’immagine familiare, sono del tutto arbitrarie: le stelle tra loro sono tutt’altro che vicine ma ci appaiono tali dal posto in cui le osserviamo, dalla Terra. In realtà la distanza tra le stelle, soprattutto tra quelle più intense, è abissale. Un atto di pura invenzione senza il quale l’astronomia non sarebbe mai cominciata.