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Per un Antispecismo viscido: Divenire-Invertebrato

L’antispecismo viscido proposto da Massimo Filippi e Enrico Monacelli prova a ripensare la specie come un’entità barbarica «una fra le tante contrazioni aggroviglianti e vischiose della materia». Di contro a un homo sapiens che separa e categorizza, il divenire invertebrato perverte e destabilizza, e traccia vie di fuga verso un’instabilità animale

Sin dalla sua emersione, la questione animale si è posta come uno degli strumenti più radicali per mettere in discussione la prerogativa che, nel corso delle epoche e delle civiltà, l’uomo si è auto-assegnato rispetto alla specie. Attraverso le lenti di questo eterogeneo campo di studi, l’essere umano non figura più come il più ‘eccezionale’ e complesso degli animali, ma come quella bizzarra creatura che si sarebbe arrogata il diritto di decidere dello statuto ontologico, politico ed etico degli animali non umani. La capacità dell’essere umano di provare compassione per le altre specie, di aver cura di loro o di decidere del loro destino diviene così indistricabile da una sua più primitiva inclinazione alla categorizzazione, alla manipolazione e alla segregazione del resto dei viventi in un rigido pattern di compartimenti fissi. Già negli anni Trenta del Novecento, ben prima che un simile argomento assumesse l’importanza che gli attribuiamo oggi, Georges Bataille aveva contestato duramente questo indebito primato, denunciando sulle pagine di Documents la credenza dell’uomo di essere una sorta di super-animale, l’unica creatura a cui sarebbero «consentiti degli scarti nella condotta e nel pensiero» (G. Bataille, Il cavallo accademico, in Documents, Dedalo, Bari, 1993). Ribellandosi all’impulso etologico alla classificazione e alla speciazione, Bataille sosteneva che l’infinita storia delle metamorfosi animali, intesa come un costante flusso di aberrazioni, rivoluzioni, violenze e trasformazioni irriducibile al concetto di specie, sarebbe del tutto inconciliabile con la ristrettezza del sapere umano, basato su una logica autoreferenziale della contabilizzazione/accumulazione produttiva delle sue risorse. Se infatti, da un lato, è «incontestabile» che «la libertà di cui l’uomo si crede l’unica espressione appartiene nello stesso modo a qualsiasi [altro] animale» (ibidem), dall’altro occorre precisare anche che, segregate all’interno della microeconomia umana, le varie specie animali non hanno nulla a che vedere con questa libertà. La concezione stessa di specie, decostruita da Bataille in termini di una convenzione arbitraria, di una banale «stravaganza positiva», si fonda su una «scelta oscura» e imprecisa, sulla sottomissione violenta di una rigogliosa eruzione di forme plastiche alla decadente limitatezza dell’idea.

 

 

Come ha recentemente osservato anche Natalie Lawrence, la propensione umana a plasmare l’animalità in forma di specie deve la propria origine ad un’inclinazione anzitutto geografica e dunque oltraggiosamente coloniale: animali sono quelle creature che vivono nelle comfort zones circoscritte dalla mappa, incluse nei reticoli demaniali della cartografia, ma anche del calcolo e della classificazione. Mostruose sono al contrario tutte le creature che esulano dal controllo umano del territorio, quelle manifestazioni dissonanti la cui aberrazione mette a repentaglio l’attendibilità del sapere, ma anche l’effettiva capacità dell’umano di manipolare e assoggettare ciò che lo circonda. Con la progressiva annessione delle terre incognite e con la problematizzazione del confine che separa l’uomo dal resto degli animali dischiuso dalle teorie darwiniane, il sintomo della mostruosità avrebbe subito una “migrazione interna”, spostandosi da un esterno remoto e imponderabile ad un’intimità claustrale, disvelando la sua originaria complicità con il funzionamento della mente umana. Con questo traumatico rivolgimento, l’uomo si è trovato a fare i conti con una duplice, scomoda verità: primo, che non esiste alcun confine strutturalmente invalicabile tra esso e le altre specie, ma solo un’opposizione arbitraria, inconsistente e minacciosamente instabile; secondo, che il mostruoso non risiede nella tessitura degli organismi più strambi e inimmaginabili, ma nella costituzione propria all’essere umano, nel suo inestinguibile bisogno di attribuire un significato stabile ai fenomeni del mondo. Come conclude anche Bataille, la specie è «l’espressione esatta» della nostra «mentalità mostruosa», l’ennesima propagazione di una febbre inestinguibile che «cerca di fare autorità» imponendo alla natura «un aspetto corretto». Ed è proprio quando urtiamo contro la fallibilità di un simile conformismo cognitivo che la natura ci mostra il suo volto più disarmante, quello di un mosaico di processi in costante rivolta contro se stessi, di uno spettacolo sinteticamente composito in cui lo “spavento” dell’informe sovverte la fragile “precisione” apollinea cui l’umano tenta di aggrapparsi disperatamente. In altre parole, la strategia con cui l’uomo approccia l’alterità, inorganica o animale che sia, non è che uno degli aspetti che riflettono l’intrinseca instabilità della natura, una disparità insanabile rispetto alla quale non è l’eterogeneità delle forme plastiche a risultare mostruosa, ma la produttività del genio intellettivo che pretende di ridurre un simile mosaico a una nomenclatura precisa.

 

 

Divenire invertebratoDalla Grande Scimmia all’antispecismo viscido, il volume curato da Massimo Filippi ed Enrico Monacelli recentemente uscito per Ombre Corte, recupera con rinnovato interesse questa ‘cura’ per l’instabilità animale, ma riarticolandola sotto forma di un caustico manifesto che si scaglia tanto contro l’insostenibile essenzialismo della modernità, quanto contro lo sciame discorsivo postmoderno. In questo senso, le “vertebre” di cui la struttura del pensiero deve liberarsi non sono solo quelle dichiaratamente speciste, che violentano ed estinguono l’alterità nel magma dell’identico, ma anche – e soprattutto – quelle delle posizioni pseudo-libertarie che ripropongono la centralità della figura umana in forma vagamente dissimulata (è il caso di buona parte dei cosiddetti approcci postumani, antiumani e inumani) o gloriosamente masochistica (l’uomo come artefice della fine del mondo/sola creatura in grado di compromettere irreversibilmente e fatalmente l’equilibrio geo-climatico del pianeta). Come scrivono Filippi e Monacelli nell’Introduzione al volume, gli antispecismi odierni avrebbero finito per boicottare la centralità della questione animale, dimostrandosi incapaci di formulare un adeguato pensiero della differenza. Per quanto varie e dissimili tra loro, tali derive dell’impegno antispecista si ridurrebbero a due approcci specifici: quello classico/assimilazionista e quello “animal-straight”. Il primo dei due è per certi versi il più noto e consolidato, e la sua tradizione risale all’utilitarismo di Peter Singer e al giusnaturalismo di Tom Regan. Pur prendendo atto dell’urgenza della questione animale, questo approccio non riuscirebbe a interrogare la differenza di specie prescindendo dall’antropocentrismo: l’animale è qui pensato per somiglianza, concepito attraverso un processo di fagocitazione e assimilazione che, senza intaccare in alcun modo la centralità dell’umano, ci restituisce un’animalità normalizzata, mansueta, domestica (l’animale come pet). Solo il simile a noi, ciò che ci è empaticamente più prossimo, partecipa del processo che Jacques Lacan definiva di «hominazione» del mondo, mentre «nessuna squama, nessuna vena ricolma di sangue gelido, nessun tentacolo, nessun essere strisciante, umido e invertebrato entra nel paradiso di questa visione» (ivi, p. 17). Se questo cluster di approcci si rivela subdolamente antropocentrico, in quanto la decisione di quali animali prendere in considerazione rimane nelle redini del giudizio umano, il secondo appare invece eccessivamente «antropodecentrat[o]». La prospettiva animal-straight, cui afferiscono sia gli anarco-primitivisti che le frange eco-fasciste, peccherebbe di una malcelata purezza identitaria, che deriverebbe il proprio rivolgimento agli animali non umani proprio dall’irriducibilità di quest’ultimi alla sfera dell’umano, dalla loro «alterità inattingibile» (ivi, p. 16). Lungi dall’essere realmente problematizzata o soppressa, la differenza viene qui esasperata e feticizzata: è proprio perché tali esseri sono il bislacco prodotto di una natura «aliena» (ivi, p. 18), inappropriabile, che essi meriterebbero di essere in qualche modo interpellati. Pur perseguendo obiettivi e politiche apparentemente divergenti, entrambe le proposte finiscono per richiudersi su se stesse, depurando il proprio antispecismo da ciò che Filippi e Monacelli definiscono le fondamenta viscide del mondo, quel substrato costruito con «il sangue, il sudore e le carcasse» dei “dannati della Terra” (ivi, p. 16).

 

 

Per non ricadere nell’ennesima dialettica di un’appropriazione/espropriazione reazionaria dell’animalità, occorre allora sottoporre la differenza di specie a un questionamento radicale, che frantumi sino alla base quel che Nick Land chiama opportunamente il sistema di sicurezza umano. Piuttosto che enfatizzare l’Altro come nostro simile o celebrare la sua atopica oscurità, l’antispecismo viscido si pone come una “via di fuga” da questo interminabile aut-aut, una macchina “disorganica” e “senza progetto” che resiste alla tentazione di istituirsi come l’ennesimo tra gli altri antispecismi esistenti. Il suo obiettivo non è quello di tracciare nuove soglie o linee d’appartenenza, ma di ripensare la specie come un’entità barbarica, «una fra le tante contrazioni aggroviglianti e vischiose della materia» (ivi, p. 20). Al centro di questa disamina, non spiccano solo le mostruosità fantasmatiche di China Miéville (Tesi sui mostri), che identifica nell’homo sapiens il più clamoroso «produttore di mostri» mai esistito (ivi, p. 48) (dalle creature freak e disumane che popolano i bassifondi della storia della nostra civiltà sino ai ben più terrificanti dispositivi di potere degli ultimi due secoli), o la criptobiologia di Eugene Thacker (Criptobiologie), in cui ciascuna delle diverse teratologie (le discipline dedite allo studio dei mostri) ci restituisce compulsivamente l’immagine di una «animalità che non si ‘adegua’» (ivi, p. 53) ai vincoli umani. La rimozione delle vertebre, una vera e propria catastrofe della ragione, lascia evaporare il moralismo umanista come un’esalazione di «liquami caustici» (ivi, p. 65) e trasforma la sua concezione strumentale di natura in un’entità «queer» (ivi, p. 70) sconquassata da interminabili cicli di metamorfosi. Al di là del fantasma spinale, del velo (ideologico e specista) della mostruosità, l’antispecismo viscido situa la performatività eteromorfa di esorbitanti creature senza esemplare: singolari intrecci di relazioni materiali prodotte da un mondo che si differenzia e muta costantemente, condensazioni stravaganti che destabilizzano intrinsecamente la produzione di qualsiasi identità determinata. Come suggerisce Karen Barad nel suo lungo contributo (La performatività queer della natura), che la natura e le sue creature siano entità queer vuol dire che la loro comprensione resiste a qualunque significato fisso. Al posto dei binarismi insostenibili (natura/cultura, medesimezza/alterità, Io/Altro) o delle interconnessioni unarie (il Mondo, la Specie, le presunte leggi naturali), la queerness produce termini privi di referenze stabili, «molteplicità in selvaggia differenziazione» (ivi, p. 71) dinanzi alle quali non esiste alcuna distinzione fondamentale o inamovibile. Laddove lo specismo erige enclosures e compartimentalizza gli enti in un deleterio ciclo di separazioni ed etichettamenti, la macchinazione queer della natura produce «connessioni e responsabilità», modalità di pensiero in cui la causalità, l’agency e la relazionalità riflettono in un avvolgente movimento continuo «l’immanenza della materia a se stessa» (ivi, p. 119).

 

 

Apocrifo, senza esempio, l’antispecismo viscido è ciò che, con le parole di Yvette Granata e Bogna M. Konior (Ivvelenismo, uno scavo), si potrebbe definire una «filosofia del veleno», una sostanza tossica che, secreta direttamente dal corpo interno della filosofia, si irraggia sino a «scarnificare» la superficie del pensiero (ivi, pp. 122, 123). Laddove l’umanismo studia, misura, controlla, il viscido aggroviglia, invischia, si fa “sciame”. Se il sapiens separa, simbolizza e semplifica, l’invertebrato perverte, profana e destabilizza. Quella che chiamiamo erroneamente specie non segue una logica verticale, dall’alto verso il basso, accordando dunque l’esito dell’esemplare ai criteri del pensiero, ma è un’eruzione dal basso, un transito di presenze reali davanti alle quali le convenzioni del linguaggio non possono che apparire un compromesso puerile. In questo movimento di riflessione tentacolare, il concetto di specie non è semplicemente negato ma, come esemplificato dalla tranimalità di Hayward e Weinstein (Tranimalità nell’epoca della trans*-vita), trasformato in una concezione vischiosa, che procede per concatenamenti prensili, assemblaggi suffissiali, catene di sequenze e composizioni indifferenti ad alcuna logica o disposizione pregressa. La cosalità e l’essere, così spesso recepite nella loro fissità immateriale, scaturiscono da un ombelicale mormorio materico, dall’infima complicità di invarianze plastiche e variazioni evenemenziali. Come scrive Claudio Kulesko in quello che è probabilmente il contributo più interessante della raccolta (Macchine compositive), la natura è un’intelligenza sintetica in cui sono «la molteplicità, l’eterogeneità e la frammentarietà» a innescare i cosiddetti processi naturali: ciò che appare solido, stabile o permanente non è altro che il prodotto di una rete di relazioni costantemente «minacciate» e «smembrate» da una fondamentale entropia. L’integralità è un’illusione sostenuta da una serie interminabile di ricorsività, una «stratificazione di automatismi» (ivi, p. 34) di cui ogni cosa è parte e da cui ogni cosa è a sua volta costantemente messa a repentaglio. Anziché scaturire da vincoli e ordinamenti necessari, quelle che chiamiamo specie sono aggregati molecolari di «errori, scarti e slittamenti prospettici» (ivi, p. 46), l’esito fragile e sempre sull’orlo della dissoluzione di movimenti le cui «possibilità concrete oltrepassano qualunque immaginazione» (ivi, p. 47).

 

Le immagini in copertina e nel testo sono prese da Wikimedia Commons