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Un abbecedario per il reale
“Abbecedario del reale” è un volume colletaneo che traccia una cartografia tra psicoanalisi, filosofia e pratiche artistiche di quel registro sfuggente e paradossale dell’esperienza che non si fa catturare dal linguaggio e dalla domanda filosofica del “che cos’è”
“Guasto”, “idiota”, “zero”, “solo”. Sono alcune delle voci che compongono un recente testo a cura di Alex Pagliardini e Felice Cimatti, dal titolo Abbecedario del reale, edito da Quodlibet. Ecco un altro libro dedicato al tema del reale, in cui psicoanalisi, filosofia e arte sono chiamate a dire qualcosa sull’indicibile, parlare di ciò che non si lascia catturare dal linguaggio, di ciò che è al di qua e al di là dell’enunciato. Ultimo di una serie di lavori su questo tema, il libro dà voce a filosofi, artisti, femministe, letterati, intellettuali, psicoanalisti e pone loro una sola, semplice domanda: che cos’è il reale? Semplicità capziosa, che subito rivela la complessità insita nel compito di dover dire il reale per mezzo di ciò che è più distante da esso, il linguaggio. Nel linguaggio, nell’ordine simbolico, il reale è proprio ciò che non risponde a quella domanda, ciò che resta fuori dal “che cosa” metafisico, ciò che se la svigna dalla correlazione soggetto–oggetto propria della metafisica occidentale. Rocco Ronchi, che nel testo dedica delle belle pagine a Holy motors di Leos Carax, ce l’ha insegnato molto bene (Il canone minore, Feltrinelli 2017).
In psicoanalisi, la frequentazione del reale è qualcosa di particolarmente cogente, che fa lo specifico dell’esperienza analitica stessa. Se una psicoanalisi non consente al soggetto analizzante di frequentare il reale, di sovvertire i propri rapporti con il reale, di avvicinare il reale, di farsi causare dal reale, se questo orientamento verso il reale non ha luogo siamo in presenza di altro e il vecchio Lacan si chiedeva spesso se “truffa” non sia il nome giusto in questi casi.
Ma il reale, in psicoanalisi, non sta in chissà quale altro mondo, in chissà quale esperienza mistica al di là del linguaggio. Tutt’altro: il reale in psicoanalisi prende corpo in una parola, in un evento, in un’immagine, che diventano di importanza capitale per il soggetto. Come può una parola, un’immagine, una scena, un evento orientare una vita intera? È questa infatti la caratteristica specifica di ciò che chiamiamo “trauma”, un nome del reale. Il trauma segna un prima e un dopo, frattura l’omeostasi, inaugura una storia a partire da un punto cieco. Di che natura è fatto, come agisce, come funziona l’episodio traumatico? Sono questioni che chiunque porti avanti un’esperienza analitica, oltre la soglia della terapeutica, si pone.
Chi entra in analisi si domanda: «qual è la causa della mia sofferenza?», domanda che nel corso di un’esperienza analitica prende una piega sempre imprevista, sempre sorprendente. È sempre una sorpresa scoprire come la sofferenza sia tale solo se guardata dalla prospettiva dell’ideale. E quando l’ideale, nelle sue fattezze immaginarie, si sgretola grazie al lavoro analitico, la sofferenza è sondabile, è frequentabile non più tramite quella lente impregnata di ideali, gli occhi del buon senso, ma per quello che è.
E dunque: che cos’è una sofferenza in sé? Cos’è una sofferenza senza sofferenza? Il suo nome psicoanalitico è “sintomo”. Per provare a fare chiarezza nella confusione che il linguaggio ci procura, Lacan scriveva la sofferenza senza sofferenza, il sintomo meno la sofferenza, con una vecchia grafia francese: sinthome, diversamente dal termine corrente symptôme. Un modo per provare a dire che il sintomo comunemente inteso (symptôme), lavorato all’interno del dispositivo analitico, si trasforma in qualcosa di totalmente altro rispetto a ciò che era (sinthome). O, per meglio dire: il sintomo, congiunto al dispositivo analitico e “ripulito” della sofferenza, diventa ciò che è sempre stato, e che ora è dimostrabile nella sua natura di “pietra angolare” di una vita, perché tutto ciò che lo ricopriva, lo rimuoveva, lo scartava si è dissolto. Le identificazioni, gli ideali, le grandi costruzioni di senso, tutto sospeso a favore del sintomo-verità del soggetto.
Allora diremo che, nel corso di un’esperienza analitica, «qual è la causa della mia sofferenza» diventa una nuova interrogazione che passa da «qual è la causa del mio sintomo» e arriva a «qual è la causa?». Qual è la mia causa? Cosa c’è in me, fuori di me, che è a causa di ciò che vedo per come lo vedo, di ciò che dico per come lo dico, di ciò che faccio per come lo faccio? Che cos’è che mi causa? Come mi causa?
La causa spinge, muove, scomoda. La causa è il versante meno carino, meno romantico, meno narcisistico del desiderio. Da un lato, il desiderio ha le sue mire, sempre più o meno narcisistiche, espansionistiche, progressivistiche. Su questo lato, sull’incentivazione di questo versante, il capitalismo prospera. Mentre l’altro versante del desiderio, che un’analisi permette di frequentare, è ciò che sta a monte, ciò che innesca la propulsione del desiderio, ciò da cui tanto più ci si allontana inorriditi, quanto più causa tutto il nostro movimento. Lacan diceva che ciò che è richiesto a un analista è di aver isolato, attraverso l’analisi, il proprio «orrore di sapere». Cos’è che fa macchia, che è punto cieco nel sapere, di che cosa il sapere non ne vuole sapere?
«Non c’è causa se non di ciò che zoppica». L’inciampo, l’errore, il lapsus, l’imbroglio, è da queste parti che dobbiamo bazzicare se vogliamo, in psicoanalisi, rintracciare qualcosa della nozione di “causa”. Lo indicava Freud stesso, quando si interessava alla psicopatologia della vita quotidiana. Sbadataggini, lapsus, dimenticanze ripetitive erano per Freud modi di manifestazione dell’inconscio, esperienze non conformi al programma dell’io e cariche di una quota di verità.
“Ciò che non funziona” è di fatto tra le più semplici descrizioni di ciò che è il reale nell’esperienza umana, e una psicoanalisi consiste proprio nel rovescio della tipica esperienza umana, dove il mondo (ciò che funziona) è organizzato a partire dalla rimozione dell’immondo (ciò che non funziona). La psicoanalisi è, a oggi, forse l’unica esperienza soggettiva in cui il perno attorno a cui ruotano i giochi è proprio ciò che non va, ciò che non funziona, in cui sia possibile fare attenzione a ciò che non funziona e, per giunta, ripartire, ricominciare proprio da ciò che non funziona. Scoprire, conciliarsi, attingere a ciò che non funziona e alla sua energia. Costruire un progetto con i piedi ben saldi in ciò che non funziona.
Un’etica, quella psicoanalitica, di enorme attualità, se si pensa che proprio oggi l’immondo, lo scarto del mondo, si presentifica nell’Oceano Pacifico, nella forma di un’isola galleggiante che si impone alla nostra attenzione per la sua angosciante estensione. L’isola dell’immondo è il segno delle nozze tossiche tra il desiderio e il capitalismo, della ricerca compulsiva del godimento negli oggetti del mercato. Che non possa allora essere, quella della psicoanalisi, una scommessa profondamente ecologico-politica? Fare dello scarto la più importante risorsa, della «pietra di inciampo, pietra angolare».