approfondimenti
Il turismo: un’ideologia e una strategia di accumulazione
La chiave per capire il turismo è proprio lì nel suo nome: non è solo una pratica, ma un “ismo” – un’ideologia. Gli adepti del turismo cercano di rimodellare le loro città intorno all’interesse percepito e alle richieste di una specifica classe di turisti. Il turismo, uno strumento di sviluppo economico pigro e in ultima analisi autodistruttivo, è una strategia di pianificazione. Ciò di cui abbiamo bisogno è un nostro piano e il potere di renderlo manifesto.
La chiave per comprendere il turismo sta proprio nel suo nome: non è solo una pratica, ma un “ismo” – un’ideologia. Oltre a essere lo strumento con cui le città riorganizzano spazi, politiche ed economie urbane attorno alle istanze di viaggiatori con una disponibilità economica e alla ricerca di esperienze, l’ideologia del turismo è anche la convinzione che lo spazio urbano debba essere trasformato secondo questi fini e che le esigenze dei turisti debbano essere prioritarie rispetto a quelle di qualsiasi altro utente presente o potenziale della città – residenti, lavoratori, migranti senza soldi, ecc.
Il turismo è un modo di vedere la città attraverso gli occhi di ospiti desiderati e attesi che, così sperano gli adepti del turismo, la attraverseranno con leggiadria spargendo denaro lungo il proprio cammino.
I veri adepti del turismo non sono interessati alla maggioranza delle persone che attraversano lo spazio urbano. Non sono interessati a facilitare gli spostamenti quotidiani dei lavoratori lungo i percorsi obbligati di transito tra le abitazioni e i luoghi di lavoro. Non sono interessati ad accogliere, a dare rifugio, o a garantire un corridoio sicuro per milioni di persone che si spostano perché sono state espulse da guerre e carestie, dai cambiamenti climatici e dai capricci crudeli dell’espansione e della contrazione capitalistica. Non sono interessati ad aiutare quanti migrano perché non possono permettersi un posto da chiamare casa in città devastate dalla gentrificazione o dal disinvestimento – entrambi processi che producono sfratti e la perdita della casa per moltissime persone. Non sono nemmeno interessati ad attirare viaggiatori meno esigenti che cercano di trascorrere il proprio poco tempo in una città comportandosi più o meno come residenti di lungo periodo.
No. Quanti abbracciano l’ideologia del turismo negano la priorità degli interessi di questi abitanti permanenti o temporanei degli spazi urbani. Al contrario, cercano di rimodellare i settori occupazionali delle loro città, i mercati immobiliari, i sistemi di trasporto, i parchi e gli spazi pubblici intorno all’interesse percepito e alle richieste di una specifica classe di turisti. In questo, come per molti altri aspetti della governance urbana, le città sono in competizione tra loro, nella speranza che la prossima ondata di turisti atterri nei propri aeroporti piuttosto che in quelli vicini. Non tutte le città possono vincere questa partita e così molte città – forse la maggior parte – che perseguono questo tipo di trasformazione, si ritrovano con un’economia stagnante e centri urbani ridisegnati per soddisfare le richieste di visitatori facoltosi inesistenti.
I risultati sono a volte imbarazzanti: la creazione di spettacoli inutili, che di solito non riescono a intrattenere i turisti per più di qualche minuto; la sostituzione di quartieri vitali con simulacri di ciò che un tempo furono, quartieri che incarnano l’inquietante scarto tra replica e realtà; il controllo poliziesco di tutto ciò che i turisti non vogliono vedere, sentire, annusare, toccare o assaggiare; e il costante sforzo di riconfezionare ciò che esiste per farlo somigliare a ciò che i turisti vogliono che esista.
Spesso questo significa rappresentare la cultura di una città o di un quartiere attraverso i falsi termini con cui si presume che il turista la comprenda. Le città si affidano eccessivamente ad alcuni significanti – stili architettonici e di design estremamente semplificati ma facilmente riconoscibili, qualche prodotto tipico di street-food, un logo o un meme ripetuto fino alla nausea, stampato su magliette e souvenir – che sfruttano il più intensamente possibile. Scrivendo della storia del quartiere di Chinatown a Manhattan, Umbach e Wishnoff definiscono questo processo come “auto-orientalismo strategico”: consiste nella pratica di proiettare messaggi caricaturali e razzialmente codificati per attirare turisti che cercano manifestazioni di cosiddetta autenticità[1]. Si intende per “orientalismo” il concetto descritto da Edward Said, ovvero il modo in cui le culture occidentali presentano come esotiche, degradandole, le culture di popolazioni orientali colonizzate[2]. Questa pratica è stata definita come “auto-orientalismo” in base al caso delle élites cinesi che hanno ridisegnato un quartiere per adattarlo alle concezioni orientalistiche dell’urbanistica cinese. È “strategico” in quanto pratica intenzionale mirata a creare profitti attraverso la modifica di un quartiere per soddisfare le concezioni razziste che i turisti hanno sul carattere e l’atmosfera locali. È stato un modo per combattere le organizzazioni di sinistra che negli anni Sessanta e Settanta avevano iniziato a cacciare i pullman turistici arrivati ad ammirare la loro povertà e la loro cultura. Il rifacimento del quartiere era un modo non solo per accogliere i turisti, ma anche per eliminare i gli attivisti politici sovversivi.
Riflettendo sulla svolta turistica dei territori prevalentemente Chicani e indigeni del New Mexico, Laura Pulido descrive il turismo come una modalità di sviluppo economico pigro e, in ultima analisi, autodistruttivo. «Si potrebbe sostenere che il ruolo crescente del turismo riflette le più potenti forze del mercato, ma si potrebbe anche sostenere che il turismo rappresenta semplicemente la strada più facile da seguire, poiché finora ha richiesto poca pianificazione portando denaro direttamente nelle casse dello stato».
Progettare un futuro equo richiede il contrasto degli interessi dei potenti e la redistribuzione le risorse, togliendole a coloro che hanno beneficiato del sistema per generazioni; il perseguimento di un modello di crescita economica guidata dal turismo è, al contrario, il percorso di minore resistenza e permette ai potenti di mantenere i propri privilegi. Infatti la pianificazione del turismo tende a rafforzare proprio queste disuguaglianze.
«Nonostante la forte dipendenza di molti luoghi dal turismo – prosegue Pulido – questo modello può piantare il seme della propria scomparsa e generare altre contraddizioni. Questo è il caso del turismo etnico, dove la popolazione locale diventa essa stessa spettacolo»[3].
Il turismo come strategia urbana non è una novità, ma il ritmo della trasformazione ha subìto una rapida accelerazione negli ultimi anni. In molte città del mondo l’industria dell’ospitalità si sta contemporaneamente espandendo e consolidando. Il mercato alberghiero internazionale è oggi dominato da poche aziende globali: Marriott, Accor, Hilton, Intercontinental Hotels Group, Starwood e Carlson-Rezidor SAS. Ognuna di queste aziende commercializza i propri “marchi”, catene alberghiere destinate a una particolare fascia demografica e di prezzo, con un’estetica e servizi standardizzati in tutto il mondo. Una volta entrati nella camera tutto, tranne il panorama, è uguale, da un albergo all’altro. Queste aziende globali costruiscono anche hotel “all’avanguardia”, con un’architettura post-moderna e un’estetica minimalista, nei quartieri centrali dove gli affari si concentrano nei settori dei media, della moda e della pubblicità, mentre riservano i marchi più conservatori alle città specializzate in settori come quelli delle assicurazioni e della contabilità. Alcuni magnati globali della ricettività aprono due o più hotel di marchi diversi nello stesso quartiere, li fanno competere tra loro e poi raccolgono i profitti[4].
Le città amano lo sviluppo immobiliare alberghiero perché questo risponde a una doppia funzione: come spettacoli architettonici, gli alberghi possono rafforzare l’orgoglio e l’identità delle città; come strategie di sviluppo, possono aiutare a costruire il mercato delle attrazioni locali[5]. Nel XXI secolo la costruzione di alberghi a New York City è esplosa, sostenuta da un settore turistico in espansione, da mercati del credito generosi, da convenienti operazioni di zonizzazione e dalla gentrificazione di vari quartieri – come Chinatown, Long Island City e Downtown Brooklyn – che non molto tempo fa sarebbero stati candidati improbabili per la costruzione di nuovi alberghi. Tra il 2006 e il 2015 la città ha aggiunto 45.000 camere d’albergo al suo stock – un aumento del 48% rispetto al dato precedente[6].
Oltre alla costruzione di nuovi hotel o alla ristrutturazione di quelli vecchi, le città hanno assistito alla trasformazione – spesso facilitandola – delle case in hotel attraverso siti web come Airbnb. Sia attraverso la promozione attiva della “condivisione della casa” che attraverso l’applicazione molto lassista di norme che dovrebbero frenare la trasformazione di affitti a lungo termine per residenti in alloggi a breve termine per turisti, molte città hanno incoraggiato il ripensamento della funzione delle case. Per gli affittuari, questo significa fare propria la mentalità del locatore e trasformare la propria abitazione in una macchina da soldi.
Airbnb ha trasformato la gentrificazione delle nostre città in una giustificazione per il suo stesso prodotto: mentre le città diventano inaccessibili agli inquilini, le città offrono una strategia per trasformare il problema degli inquilini (i valori immobiliari gonfiati) nella sua soluzione (un flusso di entrate che può coprire alcuni dei costi). Dimenticate la regolamentazione degli affitti; dimenticate l’edilizia popolare; dimenticate l’espropriazione; dimenticate l’uso comune del terreno; mettete su Airbnb il vostro appartamento! Cosa potrebbe mai andare storto?
In definitiva il boom degli hotel e degli Airbnb e il successo della pianificazione in chiave turistica non possono essere separati da un’altra vicenda globale: l’ascesa del capitale immobiliare. L’immobiliare non è una novità, né lo è il suo potere: da quando gli stati e la proprietà privata coesistono, i proprietari terrieri hanno avuto una notevole influenza sulle scelte politiche della città. Le dimensioni e il potere del settore immobiliare oggi, tuttavia, sono impressionanti. Si stima infatti che il settore immobiliare valga oggi circa 1.821 bilioni di euro, più di 36 volte il valore di tutto l’oro mai estratto. Il settore immobiliare comprende il 60% del patrimonio mondiale. Per un verso questo dato di per sé non è necessariamente un elemento di novità: in molti altri periodi storici una percentuale identica o maggiore è stata investita in qualche forma di proprietà fondiaria. La novità, degna di nota, è che oggi il 75% degli investimenti in terreni ed edifici è destinato all’edilizia abitativa, piuttosto che all’agricoltura o a funzioni industriali. Dato che la stragrande maggioranza di tali abitazioni si trova in aree urbane, questo significa che la strategia di crescita globale del capitale si basa su valori fondiari e immobiliari sempre più elevati.
Perché la concentrazione di capitali nel settore immobiliare preannuncia una svolta verso il turismo? Ci sono diverse ragioni per questo. In primo luogo, quando la città stessa diventa una strategia di investimento (piuttosto che la sede di altre attività economiche in cui investire), il turismo diventa uno strumento fondamentale per aumentare i rendimenti. In secondo luogo, l’ascesa del settore immobiliare è intimamente legato alla redistribuzione geografica della produzione industriale al di fuori di zone urbane centrali, verso aree più periferiche. Questo non solo libera nuovi spazi per le iniziative immobiliari – tra cui la costruzione di alberghi, di centri commerciali, di parchi-divertimento e altre attrazioni turistiche – ma crea la necessità di assunzione dei lavoratori licenziati da parte di altre industrie. In molte città il turismo è stato una forza trainante di questa ristrutturazione economica. Infine, l’ascesa del settore immobiliare ha reso alcune persone incredibilmente ricche, e a queste persone piace viaggiare in modo lussuoso. Il mercato del turismo cresce quindi di pari passo con l’aumento dei prezzi di terreni e abitazioni.
Cosa possiamo fare? È facile lamentarsi, deridere i turisti o rinunciare individualmente a usare siti web come Airbnb. Ma se davvero vogliamo trovare nuove alternative al turismo come strategia di sopravvivenza delle nostre città, dobbiamo pianificarle. Non possiamo aspettare che gli attuali amministratori comunali lo facciano da soli – chiaramente gli incentivi sono tali che continueranno a pianificare la crescita del turismo e del mercato immobiliare fino a quando i movimenti politici non cambieranno le carte in tavola alle politiche urbane. Sarà necessaria una visione collettiva per immaginare la città che desideriamo – la città che dà priorità alla mobilità del residente, del lavoratore, del migrante e del vagabondo rispetto a quella del turista – e sarà necessaria un’azione collettiva per renderla reale. Anche se il turismo è una strategia di pianificazione pigra, è comunque una strategia di pianificazione. Ciò di cui abbiamo bisogno è un piano nostro e il potere di renderlo manifesto.
*Samuel Stein sta svolgendo un PhD in geografia al CUNY Graduate Center. È autore di Capital City: Gentrification and the Real Estate State.
Questo saggio è incluso nella pubblicazione, curata da Lucia Tozzi, per la mostra City Killers – A critique of tourism, sulle conseguenze del turismo sulla città, curata da Raumplan, che inaugura a Roma Venerdì 31 Gennaio presso Campo. La traduzione è di Sarah Gainsforth.
[1] Umbach, Greg, and Dan Wishnoff, Strategic Self-Orientalism: urban planning policies and the shaping of New York City’s Chinatown, 1950-2005, “Journal of Planning History” 7, no. 3 (2008), pp. 214-238.
[2] Said, Edward W., Orientalism, Pantheon Books, New York 1978.
[3] Pulido, Laura, Environmentalism and economic justice: Two Chicano struggles in the Southwest, University of Arizona Press, 1996.
[4] McNeill, Donald, The hotel and the city, “Progress in Human Geography” 32, no. 3 (2008), pp. 383-398.
[5] McNeill, Donald, and Kim McNamara, Hotels as civic landmarks, Hotels as Assets: The case of Sydney’s Hilton, “Australian Geographer” 43.3 (2009), pp. 369-386.
[6] DiNapoli, Thomas P., The Hotel Industry in New York City, Report of the Office of the New York State Comptroller, June 2016.
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