ITALIA
Turismo e sfruttamento stagionale. Se i lavoratori sono “sacrificabili”
Imprenditori e politici (e buona parte della stampa “mainstream”) danno la colpa al Reddito di Cittadinanza per la carenza di lavoratori e lavoratrici nel settore vacanziero. Ma la realtà è che i datori di lavoro non sanno più gestire un elemento intrinseco come quello della stagionalità
Con l’arrivo della stagione estiva e il contemporaneo allentamento delle restrizioni – coprifuoco incluso – si preannuncia una stagione turistica intensa, con molto “turismo interno” (italiani che viaggeranno in Italia come lo scorso anno) e “in entrata” (stranieri, soprattutto europei dell’area Schengen, vaccinati o con tampone negativo). Non si tornerà ai livelli pre-Covid, ma è sicuramente una boccata di normalità e di lavoro.
Si rimette quindi in moto la macchina del turismo: trasporti, ristorazione, hospitality (gli alberghi sono solo una voce di questa categoria, nonostante la tendenza italiana a pensare che lavorare nel turismo voglia dire lavorare in un albergo), uffici di promozione turistica di comuni e destinazioni varie, lidi balneari, musei, eventi, più tutto l’indotto.
Una macchina che muove il Pil tanto quanto la precarietà. Ed è questa la normalità che torna assieme al lavoro in questo settore.
Contestualmente alla ripresa del turismo tornano infatti i titoli di vari organi di stampa che lanciano l’allarme: non si trovano lavoratori stagionali! Il famoso ritaglio di giornale in cui l’albergatore afferma «non venite a chiedermi quanto vi pago», che sta girando sui social in questi giorni, era già presente su Reddit lo scorso anno. Ci si appella alla situazione difficile degli imprenditori chiedendo uno sforzo di buona volontà, senza ovviamente considerare che la situazione di difficoltà in cui versano è la stessa dei lavoratori, e non si capisce perché tra i due la categoria da “sacrificare” sarebbe quella di questi ultimi. In nome di cosa?
Ovviamente l’articolo che circola sui social ritrae un caso estremo, ma serve per far capire come il problema sia insito all’interno del sistema turistico che si è creato in Italia, e che non si tratti di una novità. Un sistema dove il turismo di massa verso molte destinazioni sposta forza lavoro da alcune destinazioni ad altre (come, per esempio, da quelle a turismo stagionale a quelle a ciclo continuo come le città d’arte), costringendo chi rimane ad accettare qualsivoglia condizione.
(da commons.wikimedia.org)
Un sistema dove le infrastrutture fanno la propria parte nel movimentare le persone e quindi i flussi turistici, dove gli investimenti locali in cultura, salvaguardia del territorio, promozione, soffrono mancanza di pianificazione (planning), di figure professionali qualificate e riconosciute (come il destination manager), e di investimenti, almeno per le regioni che non hanno budget da investire.
Un sistema che sembra premiare chi ha più turisti, che ha contraddizioni interne a partire dalla legislazione nazionale fino ai contrasti normativi con quella europea (ne avevo parlato durante il primo lockdown). Mi sembra che nulla sia cambiato mentre nel mondo cambiava (quasi) tutto.
Imprenditori e politici danno la colpa al Reddito di Cittadinanza per la carenza di lavoratori. È successo nel 2019 con il caso di Gabicce, in Riviera Romagnola, cavalcato da Renzi; recentemente è stata la volta del governatore De Luca che lamenta «non si trovano più camerieri». Sempre cercando sui vari media, si trova diffusa la risposta al disperato grido d’allarme: «Volete i lavoratori? Pagateli!». Il presidente dell’Associazione Nazionale Lavoratori Stagionali, Giovanni Cafagna, afferma che «I lavoratori stagionali sono sfruttati al di là di ogni limite, non hanno nessuna rappresentanza (…) oggi vengono anche strumentalizzati per fare polemica contro il reddito di cittadinanza. Si è superato il limite».
Sul blog dell’Asnl poi, lo stesso Cafagna spiega la differenza tra reddito di cittadinanza e stipendio, dimostrando come la retribuzione netta mensile, con contratto di pubblici servizi (che è quello adottato in genere nel settore) a 40 ore, sarebbe di 1456 euro al mese, mentre il massimo che si può prendere dal reddito di cittadinanza è di 780 euro mensili, se si hanno i requisiti.
Quindi perché rifiutare un lavoro in regola, e quasi il doppio del compenso? Semplice: quei contratti sono un miraggio o un privilegio per pochi.
Le ripetute e infondate grida di allarme, spesso infarcite di cifre, lo dimostrano. Se tutto fosse fatto, e controllato, come il mercato e la logica (e le leggi) vogliono, le grida di allarme non ci sarebbero. È evidente, altresì, che il sistema turistico, in destinazioni anche diverse tra loro, si sia omologato fino a collassare per i suoi lati oscuri.
Anche il delegato dell’associazione Maitres D’Abruzzo, Valerio Torino, conferma quello che stiamo sostenendo: ha infatti affermato che «Addebitare il fenomeno (…) al Reddito di Cittadinanza, significa implicitamente ammettere che in molti posti i datori di lavoro offrono salari bassi, contratti stagionali (quando vengono offerti, vista l’altissima percentuale di nero) poco convenienti». Non potrei trovarmi più d’accordo con Torino quando afferma, nella stessa intervista, che «uno dei meriti del reddito di cittadinanza (pur tra le sue mille contraddizioni) forse è stato quello di mettere al centro la dignità della persona, svincolandola dal ricatto occupazionale».
(da commons.wikimedia.org)
Perché è di questo che si parla, almeno per le destinazioni che non riescono a spalmare i flussi turistici durante tutto l’anno, o non riescono a diversificare, dove il lavoro è concentrato in pochi mesi. Le regioni dove tutti gli italiani vogliono andare in estate, quelle del sud, quelle ancora legate a una vocazione turistica impantanata nelle cosiddette “3 S” (sun, sea, sand, sole, mare, sabbia), concetto di turismo balneare vetusto come le idee imprenditoriali di molti personaggi.
Se è pur vero che molte destinazioni del sud hanno problemi legati alla stagionalità, non è una colpa avere turismo solo tre mesi l’anno.
È una colpa, invece, voler sfruttare quei turisti (con prezzi gonfiati e truffe) o, in particolar modo, preservare i turisti che portano pecunia ma sfruttando la loro presenza per incrementare la precarietà tra gli abitanti di quelle stesse destinazioni, che sono poi la forza lavoro che fino ad oggi era sotto ricatto occupazionale: o così o senza lavoro, o lo si va a cercare altrove.
Porto l’esperienza di S.F., operatore salentino attivo per un po’ di anni in uno degli stabilimenti della costa jonica: «Dalle 8 di mattina alle 9 di sera, a meno che non c’erano cene in programma, allora potevi andar via anche a mezzanotte o all’1. Lavoravo 7 giorni su 7 senza riposi, neanche mezze giornate. Il contratto era regolare per fortuna, ma era solo di 1200 euro. Un contratto da addetto alle pulizie, nonostante mi occupassi di tutt’altro. Non ho mai visto un Tfr, né gli 80 euro “di Renzi” nonostante avessi firmato per prenderli».
I fattori che portano le persone a rifiutare proposte di lavoro criminali come quella appena descritta sono vari e non solo legati al salario, molto al di sotto di quello che dovrebbe essere, ma anche al monte ore (si superano spesso le 40), agli straordinari non pagati, al nero, al lavoro esternalizzato, alla mancanza di giorni di riposo, a problemi di razzismo e di rappresentanza sindacale, a inquadramenti truffaldini.
Uno studio sul settore turistico salentino, per esempio, che prende in esame in esame tutti i lavoratori dipendenti nelle attività turistiche della provincia di Lecce che operano nei settori dell’alloggio e della ristorazione, fornisce i seguenti dati: «Sono 28.506 le posizioni lavorative in provincia di Lecce, con una retribuzione media annua di appena 6.460 euro”. Nello studio si parla anche della durata dei contratti: “il 68,7 per cento ha un contratto a tempo determinato o stagionale e, in questi casi, la retribuzione media scende ad appena 4.580 euro».
E questi sono dati sui contratti regolari. Non dobbiamo stupirci se le persone, finalmente, hanno preso coscienza della situazione. Non è merito del reddito di cittadinanza, semmai quello è stato uno strumento con cui poter dimostrare il ricatto spesso in corso.
Dobbiamo essere contenti di questi “gridi d’allarme”, che dimostrano come i precari del settore, pur se non rappresentati, sono una voce forte e consapevole che ha imparato a dire no. Imparare a denunciare sarà il prossimo passo?
(foto di Igor Saveliev da Pixabay)
Semmai, possiamo constatare come i datori di lavoro non riescano più a gestire un elemento intrinseco del settore come la stagionalità. Sulle difficoltà di gestione della rotazione dei lavoratori stagionali, scrive Francesco Iannuzzi che “Le motivazioni principali sono da ricercare nel trend innegabile di peggioramento delle condizioni di lavoro e salariali e in altri macro-fenomeni che hanno modificato sia la conformazione spaziale sia la conformazione temporale del turismo e, con esse, le tutele sociali associate a questo tipo di occupazione”. L’articolo, scritto nel 2019 prima della pandemia, è anche un’ottima analisi della graduale degradazione delle tutele sociali provocate in passato a causa del Jobs Act.
La pandemia ha ovviamente acuito ed esasperato i processi già in corso. Sempre Iannuzzi afferma che «Il problema (…) non è la difficoltà di reperire manodopera. Il problema è reperire manodopera al salario che vogliono loro, per di più senza gli incentivi che funzionavano nel passato. Anziché interrogarsi su queste dinamiche, i nostrani commentatori preferiscono invertire totalmente l’ordine del discorso e cimentarsi in epiche discussioni sulla necessità di «educare al lavoro» e di trasmettere i valori dell’etica del lavoro ai giovani meridionali».
Se per decidere quante persone possono sedersi ai tavoli dei ristoranti si riuniscono Stato e Regioni, perché per affrontare il problema della precarietà e della (sotto) occupazione nel settore sul quale l’Italia punta (Draghi si è speso in prima persona per inaugurare la stagione invitando i turisti a venire nel nostro paese) non si fa nulla di concreto?
Questo è uno dei tanti problemi che affliggono il settore, e di cui tutti ormai sanno. Addetti ai lavori e non.
È ora di parlare di salario minimo, per esempio. La stessa Inps nel suo report annuale afferma che questo «avvantaggerebbe proprio gli stagionali, oltre a generare un effetto positivo in termini di gettito fiscale derivante dall’emersione del lavoro nero e dal caporalato (…) la platea degli interessati, circa tre milioni di lavoratori italiani, sarebbe largamente concentrata nel sud del paese. Infatti, i salari al di sotto dei minimi contrattuali si riscontrano largamente in imprese di piccole dimensioni, sotto i dieci addetti, prevalentemente nei settori stagionali e legati alla ristorazione e al turismo».
È ora di cominciare a dare risposte alle tante domande del settore turistico, invece di continuare ad accatastarle come sdraio in un lido, a fine giornata.
Foto di Matthias Böckel da Pixabay