ITALIA
Una trattativa al ribasso sulla pelle dei migranti
Se l’emergenza di questi mesi ha mostrato quanto il settore dell’agroalimentare italiano si sostenga in modo sostanziale sulla manodopera straniera, in molti casi irregolare, la mediazione raggiunta sulla regolarizzazione ha invece confermato che lo sfruttamento può continuare indisturbato
La regolarizzazione dei migranti irregolari sembrerebbe in dirittura d’arrivo. L’ultima mediazione, al ribasso, prevede un permesso di soggiorno di 2 o 3 mesi indirizzato esclusivamente a braccianti, con possibili estensioni a «colf e badanti». In altre parole la regolarizzazione durerà giusto il tempo del raccolto e poi a settembre tutto come prima.
Il confronto tra il ministro Bellanova e l’ala leghista dei 5 Stelle porterà così al risultato più ambito: raccolto salvo, a prezzi stracciati come sempre. Gli italiani possono così stare tranquilli, non troveranno scaffali vuoti.
Fin dall’inizio, infatti, il dibattito politico è avanzato su un terreno insidioso. La visione coloniale del migrante/bracciante, diretta filiazione dello schiavo buono del Mississippi, che lo considera (s)oggetto subordinato funzionale alla produzione (agricola), portata avanti dai renziani, si scontra con la whiteness dei 5stelle. Per il portavoce dei pentastellati, infatti, dovrebbero essere i percettori di sussidi a fare la raccolta (gratuitamente), affermando che sono «lavori che si possono fare per mantenere i propri diritti». La lunga filiera agricola potrà così continuare indisturbata: di salari, diritti, salute e sicurezza dei lavoratori non vi è menzione.
Sotto la scure dell’emergenza e della paura, la possibilità di un permesso di soggiorno è stata subordinata alla “convenienza” economica e politica.
Ciononostante, la regolarizzazione rappresenterebbe l’applicazione sana del principio di responsabilità istituzionale a fronte dell’emergenza sanitaria, quello stesso evocato dal primo ministro Conte nei suoi giri di parole in diretta nazionale. Sarebbe anche, più semplicemente, come ribadito da molti, una prova di civiltà. Consentirebbe alle persone irregolari, o divenute tali come conseguenza dei “Decreti Sicurezza”, ancora vergognosamente in vigore, di accedere a strumenti essenziali, quali il supporto al reddito, i buoni spesa, un pieno accesso al sistema sanitario nazionale.
Le tematiche discusse nell’arena politica alludono rigorosamente a questioni ideologiche e propagandistiche, che riguardano il tipo di regolarizzazione, quanto questa assuma i caratteri di “sanatoria”, i requisiti richiesti, così come la dimensione e la composizione delle categorie di lavoratori migranti. Inizialmente le dichiarazioni della ministra Bellanova, accompagnate dal sostegno di Papa Francesco, sembravano chiarire: «Devono essere regolarizzate per una questione di civiltà, di legalità, di tutela sanitaria sui territori. Sia che lavorino in campagna, in edilizia, nelle famiglie, devono poterlo fare in modo regolare». Purtroppo tale dichiarazione ha incontrato resistenze e speculazioni sul significato di “irregolarità” piuttosto che “emersione del lavoro nero”, ritardando ulteriormente una norma doverosa per garantire il diritto a un’esistenza dignitosa per circa 600.000 persone (stime approssimate ricavate dai dati rintracciati su lavoro agricolo e domestico) e dirottando così l’attenzione dalle problematiche strutturali emerse con il lockdown.
L’emergenza sanitaria e socio-economica, ha fatto emergere quanto da tempo denunciato dalle associazioni italiane, migranti e meticce ovvero la presenza di circa 600mila persone sul territorio italiano prive di diritti e costrette all’invisibilità in campagna come in città.
Infatti, la produzione agricola intensiva che si basa prevalentemente sullo sfruttamento di forza lavoro migrante ha rischiato la paralisi. Parallelamente il regolare svolgimento della vita quotidiana di migliaia di famiglie, che spesso si poggia sul lavoro di cura svolto da donne migranti, si è stravolto.
È bene, infatti, accordarsi su alcune precisazioni. Nelle ultime settimane ci si sta dunque rendendo conto che il settore dell’agroalimentare italiano si sostiene in modo sostanziale sulla manodopera straniera, in molti casi irregolare. Un sistema che, ça va sans dire, favorisce sfruttamento, violazione dei diritti umani mentre garantisce profitti soprattutto per la Grande Distribuzione Organizzata e le mafie. In Italia dunque in accordo con il “criterio dell’utilità” si è cominciato a discutere della regolarizzazione dei braccianti stranieri solo nel momento in cui il settore agricolo e il suo indotto sono entrati in crisi.
Si tratta infatti di un settore paradigmatico in termini di presenza e di protagonismo del lavoro migrante. Negli ultimi anni, infatti, sono state molteplici gli scioperi e le manifestazioni contro lo sfruttamento. Senza dimenticare le rivolte di Rosarno e Castel Volturno che hanno posto al centro anche la grave violazione dei diritti umani nelle campagne del Sud. In questo contesto la regolarizzazione per pochi mesi sembrerebbe un’ammissione indiretta delle effettive condizioni di lavoro e di salario dei migranti irregolari, alle quali la classe imprenditoriale e politica auspica di tornare, una volta rientrata l’emergenza, per diminuire nuovamente il potere contrattuale della categoria, grazie a un surplus di offerta di lavoratori irregolari senza alternative.
A fianco del lavoro agricolo, anche il lavoro di cura presso le famiglie è al centro del dibattito. Sembra paradossale dover ricordare, proprio ora che il linguaggio mainstream sembra accorgersi della centralità del concetto e del lavoro di “cura”, che il contributo delle cosiddette badanti e colf è un lavoro riproduttivo indispensabile. Lo è soprattutto in un sistema socioeconomico che, come l’emergenza in corso mostra in modo lampante, ha tagliato i servizi sanitari, assistenziali e welfaristici e li ha definiti in termini di privilegi. La proposta di regolarizzazione delle lavoratrici domestiche, che sta trovando altrettante resistenze, chiama direttamente in causa il tema del reperimento delle risorse. Riportiamo a titolo esemplificativo l’intervento in proposito della professoressa Zanfrini: «Il tema dei costi resta da affrontare, attraverso interventi di integrale deducibilità degli stipendi e forme di sostegno a valere sulla fiscalità generale, visto che l’assistenza dovrebbe essere considerata un diritto di cittadinanza, non un fardello che grava unicamente sulle famiglie».
Sebbene assente dal dibattito istituzional-elettorale, è importante sottolineare la necessità di ampliare l’eventuale processo di regolarizzazione anche ai migranti irregolari in cerca di lavoro, come spesso sottolineato da ASGI. Si tratta di una proposta realistica e non ideologica, perché guarda all’effettivo funzionamento dei lavori stagionali e trasformerebbe lo sfruttato, in condizioni al limite dello schiavismo, in “soggetto avente diritti” costringendo i “datori di lavoro” ad assumere con contratti regolari.
Purtroppo, il richiamo ai principi della convenienza economica, della paura e dell’emergenza sia nelle politiche sociali che migratorie impedisce di mettere al centro del dibattito i diritti della persona che dovrebbero costituire le colonne portanti di una società più ‘umana’. Il rischio è che la Covid-19 divenga un ulteriore pretesto per smantellare la pretesa universalità dei diritti fondamentali, sanciti in un contesto come quello del dopoguerra spesso retoricamente evocato in questi mesi.
I diritti fondamentali della persona rischiano di diventare così terreno di una contesa al ribasso, in cui si sancirebbe ulteriormente una gerarchizzazione normativa delle figure socialmente vulnerabili, lungo le linee già sperimentate di razza e genere.
Se lo “Stato” sta dunque bruciando un’occasione dopo l’altra in termini di responsabilità e solidarietà, come dimostra il ritardo e lo svilimento della regolarizzazione, le risposte solidali di migliaia di persone, singole o associate, rappresentano un segnale positivo e incoraggiante. Le nuove pratiche solidali che si sono create, quali le staffette territoriali, stanno contribuendo a ricostruire legami sociali di prossimità nel rispetto delle misure di sicurezza individuale e collettiva dimostrando un’immensa capacità di leggere i bisogni delle persone dall’interno del tessuto sociale. Ci auguriamo che queste realtà alimenteranno l’auspicabile stagione di lotte post-pandemica a difesa del bene comune e dell’imprescindibile universalità del diritto a una vita dignitosa.