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Tra innovazione e conservazione: pregi e limiti dell’idea di socialismo in Boris Kagarlitsky

Pregi e limiti del libro “La lunga ritirata. Per la rinascita del socialismo in Europa”, l’ultimo lavoro di Boris Kagarlitsky, lo storico e militante di opposizione che Putin ha fatto arrestare e condannare a 5 anni di reclusione

Il libro di Boris Kagarlitsky La lunga ritirata. Per la rinascita del socialismo in Europa è un ambizioso quanto problematico tentativo di presentare una proposta per rilanciare il progetto socialista nel nostro continente. Nonostante le sconfitte subite nel XX secolo, il socialismo non è mai morto perché si tratta di un fenomeno speculare al capitalismo che si alimenta delle contraddizioni generate da questo modo di produzione. Per questo motivo ogni tentativo di darlo definitivamente per morto è destinato al fallimento. Tuttavia al momento ci ritroviamo in una lunga fase di ritirata iniziata negli anni ‘70 con conseguenze negative per il movimento socialista ma non solo, infatti per Kagarlitsky la disfatta del socialismo è coincisa con una regressione politica, culturale e intellettuale che ha prodotto due posizioni socialiste estreme egualmente da condannare. La prima è quella del pragmatismo estremo che si limita a gestire l’esistente negando ogni progettualità rivoluzionaria alla politica. La seconda è l’utopismo di cui sono imbevute alcune realtà socialiste contro cui l’autore si scaglia sostenendo che più i socialisti si sforzano di essere utopisti e meno restano socialisti poiché spostano nel regno dell’ideale e del desiderabile il socialismo che appartiene invece al regno del possibile e del necessario.

Questa conclusione è figlia di una lettura di Marx come scienziato, una posizione da difendere contro gli assalti di coloro che negano ciò a partire da qualche previsione sbagliata contenuta nel Capitale che equivale a non riconoscere la scientificità della fisica o della matematica perché gli scienziati hanno commesso degli errori o utilizzato dati non verificati oppure imprecisi nei loro calcoli. Le ipotesi possono essere smentite al contrario del metodo di pensiero.

Il socialismo scientifico di Marx ed Engels, dice Kagarlitsky, si differenzia dalle utopie perché rinuncia a costruire programmi di trasformazione della società a partire da concezioni soggettive del bene e sostituisce tutto ciò con un metodo basato sull’analisi delle dinamiche e delle contraddizioni dello sviluppo borghese.

Il socialismo diventa qualcosa di possibile e necessario non grazie alla nostra volontà soggettiva ma tramite l’azione dello stesso capitalismo che crea la necessità di una trasformazione orientata alla creazione di una società qualitativamente nuova. Quindi, le conclusioni di Marx ed Engels potevano essere sbagliate o non esattamente corrette in ogni dettaglio ma la loro scientificità deriva dall’essere basate sulle contraddizioni e le dinamiche del capitalismo realmente esistente e di conseguenza le loro analisi si fondavano su ciò che era oggettivamente necessario e possibile.

Elementi innovativi

Il libro si presenta come un continuo oscillare tra analisi contenenti elementi innovativi, specialmente quando l’autore utilizza la cassetta degli attrezzi della teoria dei sistemi-mondo, ed elementi regressivi o figli di un marxismo molto vecchio. Per quanto riguarda gli spunti di riflessione innovativi spaziano dall’analisi della disfatta del socialismo nel XX secolo all’invasione russa dell’Ucraina. Kagarlitsky sostiene che tutte le rivoluzioni socialiste dello scorso secolo erano destinate al fallimento perché il socialismo e la transizione verso un nuovo sistema matura solo a partire dalle condizioni che permetto all’uomo di uscire dall’industrialismo classico. Non erano, però, delle rivoluzioni premature perché la maturazione di nuovi rapporti di produzione non è un fenomeno che avviene in un solo momento. Non esistono condizioni tecnologiche definite a cui associare un livello di maturità funzionale alla trasformazione dei rapporti di produzione, come spesso capita di riscontrare nelle letture economiciste di Marx tipiche dello stalinismo.

La Storia, sostiene l’autore, non è costituita da processi lineari ordinati e sequenziali. Per quanto riguarda le esperienze del socialismo nel XX secolo, dobbiamo leggere la loro sconfitta come la fase delle prime rivoluzioni socialiste, necessarie ma destinante al fallimento come le prime rivoluzioni borghesi tra il XV e il XVII secolo senza le quali non avremmo avuto le forme di società civile borghese che conosciamo. Allo stesso modo, le prime rivoluzioni socialiste hanno dimostrato la possibilità, per la prima volta nella storia dell’umanità, di una partecipazione universale al governo delle masse popolari. Inoltre, non dobbiamo cadere nell’illusione secondo cui una diversa società possa essere frutto di un solo tentativo.

Il superamento di questo modo di produzione sarà, dice Kagarlitsky, il risultato storico di una serie di tentativi, riforme e rivoluzioni capaci di sedimentare dei cambiamenti irreversibili sul lungo periodo, consentendo anche la correzioni degli errori commessi oppure la fuoriuscita da situazioni di stallo.

La sconfitta delle prime rivoluzioni socialiste è stata annunciata anche da una progressiva offensiva del capitale contro il proletariato in tutto il mondo. Nei paesi del campo socialista questo attacco ha preso la forma della trasformazione della nomenklatura in borghesia. Questa élite non mostrava pubblicamente i propri privilegi e il proprio stile di vita ben lontano dalla masse. Soffriva di una sorta di tormento collettivo, di coscienza sporca che la portava a nascondere la sua reale ricchezza e in questo modo è stato creato un meccanismo psicologico che, al momento del passaggio di campo, giustifica il baccanale di consumi prestigiosi e dimostrativi tipici della borghesia post-sovietica. Il problema della degenerazione della burocrazia sovietica però non risiede nei consumi ma nella struttura di questa tipologia di società e nell’organizzazione delle istituzioni statali che l’hanno portata ad avere il monopolio del potete decisionale sottomesso, tuttavia, all’interesse dello sviluppo della società e non al proprio interesse di classe e individuale. Il loro potere è limitato dalle interconnessioni tra i gruppi di funzionari e le corporazioni che impediva di lavorare ignorando gli interessi reciproci e dalle necessità dello sviluppo economico generale. A questo bisogna aggiungere l’ideologia ufficiale che è capace in questi regimi di svolgere una funzione simile al diritto costituzionale nelle società capitaliste, ovvero legittimare l’ordine esistente e allo stesso tempo restringere lo spazio di manovra dell’élite.

Per tutti questi motivi Kagarlitsky non definisce la nomenklatura un proprietario collettivo dei mezzi di produzione che sfrutta il proletariato perché non esiste in questi regimi una separazione tra proprietario e non proprietario in quanto, tramite una serie di procedure burocratiche con cui richiamare di volta in volta l’attenzione o far emergere i propri interessi, i secondi erano comunque direttamente coinvolti nel processo decisionale. Questo sistema, sostiene l’autore, venne messo in discussione dalle riforme di Kosygin e dalla Primavera di Praga che tentarono di svincolare, tramite il decentramento della governance delle fabbriche intese come comunità industriali capaci di autogovernarsi che andava di pari passo con la democratizzazione politica, la sovranità economica del potere politico, facendogli perdere forza. Le riforme furono bloccate e al loro posto ci fu la lenta trasformazione dell’URSS in un Impero integrato come economia periferica nel sistema capitalista mondiale dove vendeva le proprie materie prime in cambio di tecnologie e beni comprati all’estero.

Questo mutamento venne accompagnato dalla proliferazione, tra gli anni ‘70 e ‘80, di ministeri e dipartimenti settoriali che hanno creato una serie di lobby industriali in lotta tra loro per difendere, tramite ogni possibile strumento amministrativo e la corruzione, la propria posizione.

Questo scontro, grazie ai bisogni non soddisfatti dall’economia pianificata, portò alla formazione di un mercato nero in cui la scarsità era trasformata in una moneta utile a bilanciare gli interessi in assenza di un equivalente monetario universale. In questo modo a metà degli anni ‘80 l’economia sovietica era pronta per una massiccia privatizzazione grazie all’autosufficienza raggiunta dalle imprese e alla maggiore integrazione dell’URSS con l’economia mondiale.

L’unico scoglio da superare era l’ideologia ma, come insegna Marx, fu l’evoluzione del sistema a rendere possibile lo smantellamento dell’apparato ideologico sovietico realizzando il sogno collettivo e segreto della nomenklatura, ovvero diventare dei borghesi.

A essere privatizzato non fu solamente il potere e la proprietà ma anche lo Stato, creando uno steccato sempre maggiore tra élite e società e alimentando contraddizioni sociali non presenti nei paesi capitalisticamente avanzati. Questa transizione ebbe come prezzo da pagare la disintegrazione del sistema integrato di pianificazione e gestione e conseguentemente la divisione della proprietà portò alla dissoluzione della stessa URSS. I risultati furono disastrosi per l’industria sovietica, con la scomparsa di larga parte dell’apparato industriale del paese. Contemporaneamente emersero nuove componenti della classe dirigente che finirono per influenzare il processo di transizione e riuscirono ad unirsi alla vecchia nomenklatura. Uno dei maggiori punti di discontinuità con il passato fu il completo disinteresse per lo sviluppo e la modernizzazione del paese che si è affermato nella classe dirigente post-sovietica.

Il capitalismo che è emerso ha assunto immediatamente la sua forma neoliberale intrecciata con il dispotismo asiatico guidato da un’élite più interessata alla rendita corrotta garantita dal potere che al potere in quanto tale. Questo processo avvenne in contemporanea allo smantellamento del welfare state in Occidente che Kagarlistky definisce come la stampella socialista adottata dal capitalismo per poter sopravvivere nel XX secolo e superare le proprie crisi. In questo modo non ha potuto affrontare correttamente la Grande Recessione iniziata con la crisi del 2007-2008 impossibile da superare con le ricette economiche tradizionali che hanno contribuito ad alimentare l’instabilità del sistema. Le misure contro la crisi, in combinazione con la compressione dei salari a cui dobbiamo aggiungere l’indebitamento per usufruire di ciò che prima, grazie al welfare state, era gratuito o a basso costo, hanno prodotto denaro in eccesso inutilizzabile in maniera redditizia nella produzione per mancanza di domanda. Il superamento di questa crisi non è stata accompagna da riforme strutturali, anche limitate, e di conseguenza nessuna delle sue cause reali è stata eliminata. La crisi è stata superata semplicemente pompando denaro nel sistema, abbassando i tassi di interesse e rendendo il credito per le imprese a buon mercato. Le contraddizioni però si sono continuate ad accumulare sommandosi alla pandemia del COVID-19 e alla guerra.

Contro la guerra in Ucraina

Sulla prima ci soffermeremo più tardi perché viene analizzata in maniera totalmente errata dall’autore, mentre l’analisi della guerra in Ucraina dimostra tutta la forza e capacità di analisi della teoria dei sistemi-mondo. L’invasione russa dell’Ucraina ha molte cause di cui tenere conto. In primo luogo, abbiamo a lungo pensato che la guerra fosse un fenomeno confinato alla periferia del sistema-mondo capitalista incapace di influenzare il suo centro ma il collasso del campo socialista ha lasciato sul campo dei regimi periferici guidati da oligarchi che hanno portato il capitalismo periferico a saldarsi con l’Europa Orientale accorciando le distanze geografiche con il centro del sistema-mondo. In secondo luogo la guerra è stata preceduta da una fase in cui allo smantellamento del welfare state è seguita una redistribuzione di risorse a favore delle spese militari e per le forze dell’ordine, con la scusa della lotta al terrorismo o al separatismo, che Kagarlitsky definisce, citando il sociologo William Robinson, accumulazione militarizzata e accumulazione per repressione. Non si tratta di un fenomeno circoscritto alla sola Russia ma è una tendenza generale di questa fase del capitalismo. Questi elementi si ritrovano in azione nel conflitto in Ucraina che appare inizialmente come un disaccordo, quasi tragicomico, sulla Storia, oppure sullo status della lingua russa in Ucraina o la divisione dei fedeli tra Chiesa ortodossa di Mosca e di Kiev. In realtà si tratta di un conflitto tra interessi corporativi ed economici che spiegano l’asprezza dei conflitti culturali e le soluzioni ideologiche proposte. Lo scontro tra la classe dirigente dei due paesi riguarda, più nel dettaglio, il controllo sui resti dell’apparto produttivo e infrastrutturale sovietico, del mercato del grano e i tentativi del capitale russo e occidentale di ottenere il controllo dei settori più redditizi dell’economia ucraina perennemente a corto di investimenti.

Queste tensioni hanno generato la possibilità di un conflitto armato che almeno inizialmente, nonostante una profonda crisi nel sistema politico ucraino nel 2014 che si è tradotto in un cambio di potere a Kiev, la rivolta nel Sud-Est del paese e il conseguente sostegno russo alle repubbliche popolari del Donbass per contenere le rivolte popolari contro il governo di Kiev ed evitare che diventassero una rivoluzione sociale e infine l’annessione russa della Crimea, non divenne un conflitto aperto.

Quest’ultimo esplose nel momento in cui si è aggravata molto velocemente la crisi interna al regime russo in contemporanea con l’ordine economico neoliberale in cui la Russia è integrata.

Non a caso la guerra coincide con l’esplosione di una serie di rivolte in giro per il mondo, da Taiwan all’Iran passando per il Kazakistan. Il conflitto ha ricordato ancora una volta, come sostenuto da Kagarlitsky nel libro L’impero della periferia, la natura periferica della Russia, soprattutto quando è stata espulsa dall’Occidente dal sistema mondiale della logistica e dei legami economici. Questo mutamento di scenario ha impedito al paese di garantire la propria riproduzione e la propria efficacia nei combattimenti senza le interazioni con il mercato mondiale. Sullo sfondo di questi conflitti troviamo una crisi economica crescente, un’escalation dei conflitti sociali e la mancanza di riforme sociali da parte delle classi dirigenti per superare le cause di queste tensioni. La reazione dei governi conservatori davanti a questo accumulo di problemi è l’aggressività che prende la forma di azioni politico-militari con l’intento di ottenere la stabilità politica interna e le risorse necessarie al ripristino dell’equilibrio socio-economico attraverso l’esportazione dei problemi all’esterno, come vuole una classica logica imperialista. Tuttavia in questo modo le classi dirigenti degli stati in guerra non fanno altro che aumentare le disparità sociali ed economiche rispetto al punto di partenza.

I punti deboli del libro

Oltre a un possibile dibattito sulla natura socialista dell’URSS che meriterebbe un lavoro a parte, ci sono fondamentalmente due punti di maggiore attrito con Kagarlitsky. Il primo riguarda la pandemia. L’autore sottovaluta pericolosamente il SARS-CoV-2 e ritiene le misure di restrizione adottate in pandemia per limitare i danni del virus non giustificate dal suo reale pericolo. Sottovalutare un virus con una contagiosità pressoché simile a quella del raffreddore, per cui non avevamo un vaccino e con il rischio di portare le terapie intensive dei nostri ospedali al collasso in assenza di restrizioni è veramente un grave errore. Da questa analisi sbagliata discendono tutta una serie di fantasie su un autoritarismo sanitario inesistente e soprattutto una difesa ingiustificabile dei movimenti ostili a ogni misura di restrizione. Kagarlitsky arriva a definire, per esempio, le lotte dei camionisti in Canada a inizio 2022 contro le misure per contrastare la pandemia come un movimento mosso da problemi economici prodotti dalla crisi economica, la perdita di diritti sociali e il blocco della mobilità verticale. Critica la sinistra incapace di vedere tutto ciò diversamente dai conservatori che hanno provato a sfruttare a loro vantaggio questa lotta. Il problema qui è risolvibile, come suggerì Ida Dominijanni analizzando il movimento contro il Green Pass, facendo piazza pulita dell’idea che certi movimenti possano essere liberamente egemonizzati da destra o sinistra in base alla tempestività dell’intervento di un partito. Utilizzando il concetto di significante vuoto possiamo notare come questo non sia però casuale.

Dietro queste proteste c’è sempre una concezione neoliberale della libertà che si esprime nella ferma volontà di non vaccinarsi, di non rispettare le misure restrittive per affrontare la pandemia e in definitiva di fregarsene della tenuta del sistema sanitario indubbiamente indebolito dai tagli al welfare state. Sono altre le polemiche che andrebbero fatte sulla gestione della pandemia, a iniziare dalla mancata sospensione dei brevetti per la produzione dei vaccini.

L’altro grande problema del libro è l’ostilità di Kagarlitsky verso le cosiddette guerre culturali, sostenendo che queste servono a distogliere l’attenzione da problemi economici come la disuguaglianza e la disoccupazione e in definita dalla centrale contraddizione tra capitale e lavoro. Kagarlitsky accusa le classi dominanti di alimentare queste guerre culturali per dividere i lavoratori e indebolirli. La critica si estende alle politiche di identità e alle lotte intersezionali, ritenute strategie per mantenere lo status quo e non per costruire un vero cambiamento sociale. In sintesi, le guerre culturali sono un’arma nelle mani delle classi dominanti per mantenere il proprio potere e la politica di identità è utilizzata per frammentare la società e impedire la formazione di una classe lavoratrice unita.

A questa analisi bisogna rispondere utilizzando la cassetta degli attrezzi per una politica anti-identitaria presente nel libro di John Holloway La speranza in un tempo senza speranza. Noi sperimentiamo una moltitudine di oppressioni che rovinano le nostre vite. Sono oppressioni a cui noi resistiamo. Si tratta dell’oppressione delle donne, dei neri, dei gay, dei trans, degli stranieri, delle persone mentalmente e fisicamente diverse… Non sembra esserci una fine in questa ragnatela di oppressione che ci intrappola. Possiamo usare però il concetto di capitale per suggerire un’unità tra tutte le forme di oppressione che significa unità delle lotte perché dirette contro la stessa totalità delle relazioni sociali. Per riprendere una metafora zapatista, oppressioni come il sessismo e il razzismo sono teste di un’unica idra il cui corpo è il capitale. Tuttavia non siamo sicuri che questo corpo sia veramente il capitale perché avvolto dalla nebbia e ne possiamo scorgere i contorni solo con la riflessione. Allora cosa spinge Holloway a prendere come concetto unificatore il capitale? La risposta è nel tema dell’identità e nel modo in cui essa è generata dalla merce. Tutte le oppressioni, come quella delle donne, dei gay o dei neri, si basano su discriminazioni di particolari identità. Davanti all’oppressione, allora, può esserci una risposta identitaria che trabocca i limiti dell’identità ma allo stesso tempo rischia di portare a termine il suo traboccamento e, stabilizzandosi, impone una nuova identità oppure una risposta anti-identitaria. Quest’ultima è un disadattamento, uno straripamento. Possiamo essere donne, gay. indigeni ma siamo anche più di questo. Non rientriamo in nessuna categoria perché siamo un movimento in divenire.

La proposta finale per il socialismo

Boris Kagarlitsky lega fortemente la lotta per il socialismo con la difesa della democrazia. L’autore parte dall’idea secondo cui alla borghesia non sia necessaria la democrazia, il cui principale scopo è quello di limitare la libertà d’azione delle élite per mezzo della volontà collettiva della società. Alla borghesia basta uno Stato di diritto con tribunali indipendenti, informazioni affidabili, una burocrazia responsabile e prevedibile, garanzie contrattuali e la difesa della proprietà privata. Tutte cose ottenibili anche in regimi autoritari come a Singapore e in Cina alla fine del XX secolo, momento storico in cui la borghesia si trova davanti a un bivio, ovvero: come limitare il controllo dello Stato sull’economia senza cancellare il suffragio universale e le istituzioni democratiche? La soluzione è stata trovata trasformando le questioni economiche per mezzo della liberalizzazione del mercato o rendendole un dibattito per tecnocrati inaccessibile al grande pubblico. Questa trasformazione ha favorito i processi di alienazione tra Stato e società, spianando la strada ad una recrudescenza dell’autoritarismo.

L’autore, richiamandosi a Rosa Luxemburg, sostiene che la democrazia moderna necessita di una ridefinizione. La difesa della democrazia non può limitarsi alla protezione di procedure formali, ma richiede la lotta per la libertà sociale e la trasformazione dello Stato in uno strumento della volontà popolare. L’obiettivo finale è quello di superare la dicotomia tra riforme e rivoluzione.

«Rosa Luxemburg, considerando il rapporto tra democrazia e riforme sociali, ha dimostrato che sono proprio le libertà civili a far nascere la speranza di trasformare lo Stato in uno strumento della volontà della maggioranza. Secondo la teorica polacca la democrazia avvicina lo Stato alla società (e addirittura “sviluppa lo Stato nella società”) e serve “da molla propulsiva del movimento socialista”. Tuttavia, la democrazia trasferisce la contraddizione all’interno dello Stato, che si trasforma in un’arena per la lotta di varie forze di classe. Le vecchie classi dominanti possono vincere questa lotta solo limitando, riducendo o emarginando la partecipazione dei cittadini alla politica. Ecco perché la svolta verso il neoliberismo e lo smantellamento dello Stato sociale ha rappresentato allo stesso tempo un periodo di arretramento palese o nascosto della democrazia anche nei Paesi più liberi e avanzati»[1].

A questo punto delinea le basi di un programma di transizione verso una società socialista. Kagarlitsky sostiene che la crisi del 2007-2008 ha dimostrato la necessità di una gestione pubblica di settori chiave dell’economia, come trasporti ed energia, e propone un modello di pianificazione democratica ispirato a Keynes e Oskar Lange. Il libro cita esempi concreti per applicare questa forma di pianificazione come il bilancio partecipativo in Brasile e la pianificazione quinquennale nella regione di Irkutsk in Russia. Kagarlitsky sottolinea anche l’importanza di lottare per un Green New Deal e un settore pubblico che protegga l’ambiente e le comunità locali dentro questo programma di transizione. L’obiettivo è un socialismo inteso come il ripristino della socialità minacciata dalla logica della competizione del mercato che ha assunto una forma radicale con il neoliberismo. Bisogna unire la società tramite la partecipazione alla costruzione di una nuova economia e di un processo decisionale comune a più livelli.


[1] Boris Kagarlitsky, La lunga ritirata. Per la rinascita del socialismo in Europa, Castelvecchi, Roma 2024, p. 264

Immagine di copertina: A.Savin su wikimedia commons
Nell’articolo: 1) copertina de La lunga ritirata. Per la rinascita del socialismo in Europa, Castelvecchi, Roma 2024;
2) Maxim Sokolov su WIkimedia Commons

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