ROMA
Ecologia ostile, il caso degli orti anti-bivacco a Stazione Tiburtina
I parchi urbani hanno da sempre una funzione di regolamentazione sociale delle disuguaglianze, volte a disinnescare il conflitto sistemico tra le peripezie della rendita urbana e del valore e la sopravvivenza della “natura che noi stessi rimaniamo”
La comparsa degli orti anti-bivacco nei pressi della stazione Tiburtina (ma pare si debba dire Urban green garden) consente di illuminare a giorno una delle principali ragioni che hanno da sempre motivato l’amministrazione del verde pubblico. Ragioni di ordine cosmetico, innanzitutto, dal momento che non saranno certo le aiuole o un filare di platani a farci uscire illesi dalle condizioni in cui versa il pianeta.
Quel platano sta piuttosto lì a simboleggiare un interesse compatibile con la preservazione o il rilancio di una posa conciliante, vale a dire che serve a disinnescare il conflitto sistemico tra le peripezie della rendita urbana e del valore (per esempio di Grandi Stazioni) e la sopravvivenza della natura che noi stessi rimaniamo, anche in forma di mammiferi che possono eventualmente finire sulla strada.
Il punto è che alla rimozione del conflitto non corrisponde mai un effettivo disarmo, ma il vantaggio che la presunta sospensione delle ostilità assicura alla parte che si riserva di chiamare pace lo stesso deserto in cui rantola quell’altra.
Tanto che sul calco degli studi consacrati a un oggetto davvero ufo come le panchine con il dissuasore, quella che getterà la maschera sugli ortaggi anti-bivacco si potrebbe definire un’ecologia ostile.
Sarebbe molto ingenuo ignorarlo o sottovalutarlo nell’epoca della cosiddetta transizione ecologica: anche la natura può rientrare nell’arsenale di scenografie, prospettive, effetti ottici e trompe-l’oeil che secondo Michel Foucault concorrevano ad articolare la “meccanica positiva” dell’esperienza urbana.
(foto di Evan Bench da commons.wikimedia.org)
È il riferimento a questa meccanica a venir spesso mobilitato dai progettisti dell’Ottocento per giustificare la creazione dei grandi parchi pubblici. Per esempio le Buttes-Chaumont di Parigi, dove quella che a prima vista si sarebbe potuta ritenere una porzione incontaminata della metropoli risultava a tutti gli effetti una voce della sofisticata “agenda estetica” alla quale si stava attenendo Napoleone III per contrastare la tendenza dei suoi connazionali a montare le barricate.
Un’agenda che implica la massima profusione di calcestruzzo e pompe idrauliche al servizio di un paesaggio pittoresco e sublime, fattori che consentono al nuovo parco di rinviare all’esperienza delle Alpi o della costa normanna, favorendo il contatto con la spaventosa alterità delle forze naturali rispetto a un conseguente affratellamento di tutto il genere umano.
Qualcosa di analogo alla barca di Confindustria sulla quale avrebbero dovuto convergere gli interessi di capitale e lavoro nella tempesta dell’emergenza sindemica, perché la barca serve a fronteggiare le potenze del mare e quindi in barca si è tutti uguali, diceva il Marchese Conte Barambani.
All’uscita dalla Stazione Tiburtina, dunque, se mai lo dovesse intrigare l’idea che tutto sommato l’Urban green garden, al viaggiatore riflessivo potrebbe giovare l’esempio dei cittadini di Atlanta che all’epoca della desegregazione reagirono alla presenza dei neri nei parchi con la richiesta di trasferire le terre comunali nelle mani degli investitori privati. Cittadini bianchi della classe operaia, s’intende, individui che non avrebbero minimamente beneficiato del provvedimento ma che lo pretesero con ogni mezzo, ricorrendo addirittura alla rivolta fiscale.
Perché esiste un’insospettabile simbiosi tra la manutenzione del verde e quella delle gerarchie di classe, di razza e di genere che il verde consente talvolta di cromare.
È il caso delle fioriere del sindaco Nardella esaminato da Wolf Bukowski nelle prime pagine di La buona educazione degli oppressi, ma pure quello più fondativo del reportage scritto nel maggio del 1851 da Frederick Law Olmsted, quando davanti all’entrata del Birkenhead Park di Liverpool («generalmente riconosciuto come il primo parco civico finanziato dalla cittadinanza», dice Wikipedia) si imbatte in un miserabile gruppo di donne.
(foto di Rodhullandemu, da commons.wikimedia.org)
Le donne gli vanno incontro urlando: «Prendete una tazza, signori! Latte buono, latte fresco, latte dolce, latte di mucca, signori, latte ancora caldo di culo», finché il cronista non se la riesce a svignare attraversando il colonnato ionico che lo introduce a un mondo completamente diverso. Un mondo alberato e fiorito, pieno dei sentieri-arabeschi alla maniera tipica dei britannici, che a differenza degli altri stili europei cancellano qualunque traccia del lavoro umano.
E qui, accanto ai gentiluomini che giocano a cricket o tirano con l’arco, tra un laghetto pieno di piante acquatiche e l’orchestra per le bande musicali, anche le «mogli dei lavoratori molto umili» possono finalmente assumere un contegno che non ha più nulla a che fare con il latte ancora caldo di culo, del quale enfatizzano semmai la matrice irredenta e plebea.
Olmsted lascia quindi che a tirare le somme della sua scampagnata sia la guida che sta consultando e che dice: «Qui la natura può essere vista nella sua veste più bella, il cuore più ostinato può essere ammorbidito e la mente dolcemente condotta a occupazioni che perfezionano, purificano e calmano il più umile dei lavoratori». Al parco corrisponde allora una strategia che si può definire al tempo stesso estetica e morale e che comporta la trasformazione del modo in cui viene percepito e riprodotto lo spazio pubblico.
Uno spazio del quale la sineddoche del parco è deputata ad addomesticare gli usi, infondendo nella coscienza delle classi subalterne l’insofferenza nei confronti delle pratiche come gli scioperi, la piccola delinquenza o la prostituzione che in quegli stessi anni stanno rendendo più tumultuosa la vita di strada.
Da un lato la natura, dall’altro la lotta: è una dicotomia che sopravvive alla creazione dei grandi parchi ottocenteschi e si rifa viva per esempio tra le pagine di un libro comunque stimolante come Nell’antropocene. Etica e politica alla fine di un mondo, laddove Gianfranco Pellegrino e Marcello di Paola sostengono che «impegnarsi nei giardini urbani è meno appariscente che promuovere una manifestazione, ma può avere conseguenze politiche e simboliche molto più durature».
Perché il parco sembra destinato a questa funzione governamentale sin dalle origini (l’antico francone parrik che permane nel latino parricus e nel tedesco pferch significa appunto recinto), ponendo l’ecologia ostile degli orti anti-bivacco in una prospettiva più ampia rispetto a quella della semplice stupidata alla moda, erede semmai di una lunga storia di connivenze tra le insegne non solo romantiche del ritorno alla natura e i dispositivi di regolazione sociale.
(da commons.wikimedia.org)
Bisognerebbe tenerlo sempre presente, mentre assistiamo alla continua trasformazione delle nostre città in una serie articolata di parchi a tema. Parchi che estendono il modello correttivo di Birkenhead a tutti gli spazi traducibili in un’ambientazione più adeguata al consumo turistico, lo shopping, i festival culturali, la bohème, l’enogastronomico o quello che Jane Jacobs chiamava già il feticcio del green. Come ha sostenuto più volte Mark Fisher, si tratta di processi che definiscono moderno o doverosamente al passo con i tempi il sistematico ricorso del neoliberismo alle soluzioni economiche e sociali del diciannovesimo secolo.
Immagine di copertina di altotemi da Flickr