editoriale

The power of fear

Con l’intervento di Christian Marazzi proviamo ad indagare cosa accade sui mercati finanziari.

La scorsa settimana è stata segnata da violente turbolenze nei mercati finanziari, soprattutto in Europa: fuga di capitali da Grecia e Italia, aumento dello spread, pesanti crolli borsistici. Cosa è accaduto? Da diversi mesi, infatti, l’Europa e i suoi PIIGS sembrano fuori pericolo, Draghi procede, seppur lentamente, verso politiche monetarie timidamente espansive, mentre Francia e Italia rivendicano con maggiore forza autonomia nelle scelte di bilancio. I fatti della scorsa settimana ci ricordano, invece, che la catastrofe non è stata risolta, anzi, e le formule di “austerity espansiva” sono continuamente minacciate dai grandi investitori. DINAMO ha la fortuna di poter proporre una riflessione su questi fatti, poco o nulla commentati dai movimenti, a partire da un articolo di Christian Marazzi. Grazie a Marazzi e al suo editoriale afferriamo non tanto e non solo la natura dell’attacco finanziario, ma anche gli scenari che si aprono (“stagnazione secolare”), la comprensione dei quali è decisiva per rilanciare un conflitto all’altezza dell’epoca.

Secondo Naomi Klein, sin dai primi esperimenti nel Cile di Pinoche un tratto distintivo del modo di funzionare del capitalismo neoliberale, e di quello finanziario in particolare, è sempre stato quello di provocare shocks a partire da eventi contingenti, tale da creare situazioni entro le quali imporre la propria logica, a prescindere da qualsivoglia consenso popolare o procedura democratica. Privatizzazioni, tagli della spesa pubblica e liberalizzazioni dei salari non sarebbero politicamente possibili senza il ricorso a una “strategia dei disastri” in cui l’evento scatenante viene creato ad hoc. Questa tesi “complottista” della Klein è stata criticata evidenziando processi di de-democratizzazione ben più sottili e endogeni che si espletano all’interno di una precisa cornice normativa, processi in cui la democrazia si svuota della sostanza senza comunque sopprimerne la forma. Secondo questa linea di ragionamento (Laval e Dardot, ad esempio), la governamentalità neoliberale si inserisce in una globale cornice normativa che, in nome della libertà e a partire dai margini d’azione degli individui, orienta in modo del tutto nuovo i loro comportamenti, le loro scelte e le loro pratiche, cambiandone “cuore e anima”.

Quanto è successo nel corso della settimana tra il 12 e il 17 ottobre sembrerebbe confermare la tesi della Klein, senza con ciò nulla togliere alla teoria della “silenziosa coazione” interna al divenire impresa dello Stato e alla produzione di una “soggettività contabile e finanziaria” di foucaultiana memoria. In due giorni, mercoledì e giovedì, la Borsa di Atene ha perso il 12 percento, salvo poi rimbalzare. Il risultato netto di queste oscillazioni è che i tassi di interesse sui titoli di Stato a dieci anni hanno superato la soglia del 7 percento, ritornando ai livelli del marzo 2012, e i funds stranieri stanno di nuovo abbandonando la Grecia. A scatenare la paura dei mercati internazionali è stata la dichiarazione del primo ministro Antonis Samaras secondo cui la Grecia potrebbe uscire prima del previsto dal programma di sostegno e riforme dall’alto della Troika (“Stiamo cambiando strutturalmente la nostra economia, abbiamo ritrovato la crescita, siamo in grado di attirare investimenti molto più di prima”). Dato che, in sé, questa dichiarazione non ha nulla di particolarmente eccezionale (Portogallo e Irlanda sono ad esempio usciti dai memorandum della Troika senza provocare scossoni di questa portata), la spiegazione dello shock provocato dai mercati finanziari va ricercata altrove. Ed è politica: Syriza di Alexis Tsipras può vincere le (possibili) elezioni anticipate proponendo la ribellione contro la Troika. La destabilizzazione dei mercati, che rischia di trascinarsi fino a febbraio con effetti domino pericolosi, è quindi volta a favorire Samaras e, come è accaduto nel 2011, definisce lo scenario entro il quale i paesi che non vogliono agire drasticamente sul debito (Italia e Francia in primis), o si piegano o spaccano il fragile e sempre precario compromesso con la Germania. In tale secondo scenario, l’intera strategia monetaria della BCE di Draghi per far fronte a una deflazione sempre più probabile (quantitative easing, acquisto di titoli di Stato e di asset-backed securities) rischia a sua volta di essere di nuovo posticipata o adddirittura vanificata, siglando in tal modo la vittoria della linea ordoliberista della Bundesbank. Insomma, due piccioni con una fava: evitare rischi politici in Grecia e, contemporaneamente, mettere in riga Italia e Francia azzerando ogni margine di manovra locale.

C’è però un altro risultato che emerge dalle oscillazioni feroci degli indici borsistici su tutti i mercati finanziari, di cui l’attacco alla Grecia rappresenta un “evento contingente”. Rispetto a due anni fa, quando il debito dell’eurozona rappresentava il bersaglio da attaccare, quanto emerso dalle oscillazioni che hanno interessato tutte le borse è la realizzazione da parte degli investitori internazionali che lo scenario di una depressione con bassissimi tassi d’inflazione per i prossimi vent’anni è ormai più che probabile. Il problema non è più la solvibilità di un paese membro dell’eurozona, ma la “stagnazione secolare”. Disoccupazione sempre più elevata, salari reali e nominali stagnanti, debiti che non diminuiscono in termini reali, declino nei servizi e negli investimenti pubblici, calo del prezzo del petrolio con i suoi effetti devastanti sull’economia russa, tutti questi “segnali” convergono verso la stagnazione secolare. In un contesto di questo tipo, un aumento del costo del denaro è estremamente pericoloso.

Era dall’inizio di gennaio che ci si attendeva un aumento dei rendimendi sui Treasury bonds come conseguenza della fine della politica di allentamento quantitativo, cioè di creazione di liquidità, da parte della Federal Reserve. Con la scomparsa, programmata per la fine d’ottobre, degli acquisti mensili di titoli di Stato e di asset-backed securities da parte della Fed, il loro prezzo sarebbe dovuto diminuire, e di conseguenza il rendimento (che rispetto al prezzo è inversamente proporzionale) sarebbe dovuto aumentare, tirando verso l’alto tutti gli altri tassi d’interesse. Invece, grazie agli smottamenti borsistici, i rendimenti sui buoni del Tesoro statunitense sono diminuiti, benché per poche ore, sotto il 2 percento (erano al 3,02 percento a inizio gennaio). Si tratta di un risultato alquanto significativo perché, comunque lo si spieghi (ad esempio: rendimenti reali statunitensi superiori a quelli europei che attraggono capitali da tutte le parti del mondo in cerca di sicurezza), dimostra che i mercati finanziari vogliono che le banche centrali, a partire da quella americana, continuino a mantenere bassi i tassi d’interesse. Tant’è vero che ora ci si attende un aumento dei tassi non prima del… marzo 2016, una previsione supportata da due esponenti autorevoli della Fed e della Banca d’Inghilterra che venerdì si sono precipitati a dichiarare che in un contesto di crescita debole, di riduzione della produzione industriale (in Germania, ma anche nei paesi emergenti) e del volume del commercio mondiale, dei prezzi delle materie prime, della situazione occupazionale (anche negli USA, dove la creazione di nuovi posti di lavoro è più che compensata dal numero di disoccupati scoraggiati), sarebbe auspicabile che la Fed continuasse con il suo programma di quantitative easing.

Questo dimostra che i mercati finanziari possono continuare a funzionare a una sola condizione, e cioè che lo Stato intervenga, e continui a intervenire attivamente in loro sostegno con misure di politica monetaria non-convenzionale, benché l’efficacia della creazione e iniezione di liquidità per uscire dalla “stagnazione secolare” sia lungi dall’essere dimostrata. La liquidità creata dalle banche centrali, di fatto, non “sgocciola” nell’economia reale, restando all’interno dei circuiti finanziari e alimentando una spirale autoreferenziale sul valore degli attivi finanziari.