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CULT

The best of 2021. I Film

Sotto l’ombra del potere crescente delle piattaforme digitali, i cinema hanno conosciuto le opere rimaste “sospese” nel tempo della pandemia, in un sovraccarico di proposte non sempre corrisposto da una sufficiente partecipazione del pubblico. In questo quadro profondamente incerto, il cinema tenta di rilanciare se stesso tra le garanzie delle grandi firme e l’originalità di nuove voci. Ecco (in ordine alfabetico) i film che abbiamo amato di più nel 2021.

A CHIARA

di Jonas Carpignano

Chiara è sullo schermo, quasi incessantemente, per circa due ore. La seguiamo in famiglia, una famiglia numerosa retta da un padre amabile (sono i veri familiari dell’attrice Swamy Rotolo, anche se non si tratta di una storia vera), con le amiche, negli incontri e scontri di una qualunque adolescente. Chiara è la protagonista dell’ultimo film di Jonas Carpignano, che torna in Calabria, a Gioia Tauro, dove aveva ambientato anche il precedente A Ciambra. Il regista la segue da vicino, con un pedinamento e un’immersione che non si fanno mai voyeurismo, che non diventano mai asfittici ma permettono anzi allo spettatore di mantenere una distanza critica. Vedere il mondo attraverso gli occhi della protagonista ma senza soffocare, con grande rispetto. Quella di Chiara sembra una vita normale, finché il padre è costretto, improvvisamente, a diventare latitante. È un membro di spicco della ’Ndrangheta e Chiara passa da studentessa modello a figlia di un boss nel giro di qualche scena. Comincia un lungo viaggio che la porta alla consapevolezza di quello che è e può essere. Il cuore del film è dunque la storia di un’adolescente sconvolta da qualcosa di più grande di lei: la criminalità organizzata raccontata nella “normalità” dei rapporti umani. Lo stesso regista spiega in un’intervista: «In dieci anni a Gioia Tauro non ho mai visto una sparatoria. Per me era importante ridimensionare la componente spettacolare e dare più importanza ai rapporti umani che esistono dentro e fuori da questo contesto». È la famiglia che detta quindi il ritmo del film, dei detti e non detti tra Chiara e i vari personaggi (oltre al padre, in particolare le sorelle, la madre, un cugino), ricostruendo un mondo di segreti in una fase della vita in cui non si è più bambine e si vuole sapere tutto, ma non si è neppure adulte. Del resto, «ogni adolescenza coincide con la guerra, che sia falsa, che sia vera», cantavano già i Tre Allegri Ragazzi Morti vent’anni fa. Perso nell’assurdo autunno cinematografico italiano, in cui sono usciti tanti titoli mal valorizzati, il film si è visto poco. Ma è lo stesso regista italo-americano a essere ancora una figura atipica e quasi nascosta nel nostro cinema, nonostante la presenza fissa nei maggiori festival internazionali (A Chiara era a Cannes 2021), nonostante A Ciambra fosse il candidato italiano per il miglior film straniero agli Oscar. A Chiara lo consacra definitivamente come uno degli autori italiani più interessanti di oggi, in attesa che questa consapevolezza diventi davvero diffusa. [Luca Peretti]

IL BUCO

di Michelangelo Frammartino

Per Michelangelo Frammartino il presente non è un tempo innocente e superficiale, è anzi un tempo profondo, pieno di zone d’ombra e punti ciechi. Il suo cinema, potremmo dire, indaga l’inconscio dell’istante, che si pensa senza radici e invece è sempre espressione inconsapevole di una Storia. Il buco, tra i film premiati alla Mostra del Cinema di Venezia, è in questo senso una lucida radiografia storica del presente italiano, messa in luce di un momento d’eccezione dimenticato, in cui la curva del tempo si è flessa, incontrando un punto di non ritorno. Nel 1961, mentre a Milano terminano i lavori per l’edificio più alto d’Europa, un gruppo di speleologi piemontesi discende in una grotta, un abisso, nell’entroterra calabrese: in questa discesa e in quella frattura della terra, simbolicamente si condensa dopo cent’anni la lacerazione dell’unità d’Italia. Mentre a Nord l’onda d’urto del capitale chiede la crescita esponenziale in altezza, il Sud sprofonda sul posto, guarda le immagini del Pirellone in televisione a distanza, si scopre chiamato sconfitto. Tra le due opposte forze si apre una voragine che ha la forma di un rimosso culturale: le nuove divinità del progresso, discese dal futuro e a cui tutti vogliono accorrere, chiedono implicitamente che si faccia una vittima, che si produca abbandono. Allora in virtù del nuovo presente si fa sacrificio del vecchio (questo sembra dire un crocifisso impolverato nel buio di una chiesa), e poi si dimentica. Questo rimosso, l’inconscio della prospettiva senza apparente passato, Frammartino lo porta allo sguardo del presente spettatoriale ri-discendendo nella grotta, producendo profondità. Il suo atto cinematografico, senza definizione tra fiction e documentario, è un gesto di memoria che dice di quanto il presente non sia superficie scattante verso l’alto ma colpo di coda esalato dall’abisso. Perché è proprio l’abisso, l’oscurità informe, a originare sempre ciò che si dice, si vuole, si pensa essere forma. [Leonardo Strano]

IL COLLEZIONISTA DI CARTE

di Paul Schrader

Oscar Isaac è William “Tell” Tillich, un fuoriclasse del blackjack che simula un basso profilo per non dare nell’occhio. La posta in gioco dell’ultimo film di Paul Schrader, presentato alla scorsa Mostra del Cinema di Venezia, è però ben più alta e lo capiamo scoprendo che William è anche stato uno dei torturatori dell’esercito degli Stati Uniti nella prigione irachena di Abu Ghraib, immortalato e ancora intrappolato dalle immagini che fecero il giro del mondo nell’aprile del 2004. In libertà dopo otto anni di carcere, William si sente un reduce, divorato dalle atrocità commesse e schiacciato dal peso di uno scandalo che non coinvolse alcun vertice militare, alcun agente della CIA o dell’intelligence. Come in un flusso onirico che irrompe nelle notti di William, le immagini degli abusi perpetrati sono un videoclip senza montaggio girato con il grandangolo estremo del fisheye a ritmo di punk rock. Sono immagini di una routine che ora, da uomo libero, decide di trascorrere all’interno dei grandi casinò del territorio americano dove il gioco scandisce il tempo e la statistica impegna il giocatore. Un altro luogo dove ciascuno ha i propri rituali e la propria divisa. Un purgatorio interrotto presto da un triplice incontro in cui passato, presente e futuro collimano lungo un unico asse. Il tema della colpa senza espiazione possibile guida le sorti di quest’uomo solitario, così come il cinema di Paul Schrader ci ha abituati con la sua parabola autoriale, ma il regista americano sembra qui proporre una riflessione che, partendo da quelle immagini ributtanti della Guerra al Terrore iniziata all’alba del nuovo millennio e naufragata nel peggiore dei modi possibili con la recente vicenda afghana, serpeggia nella ripetizione del gioco, della dipendenza, della violenza, eccedendo i territori dell’arte ed entrando nel vivo del più impervio rapporto tra la nostra cultura visuale e lo scenario mediale in cui questa, oggi, prende forma. Cosa farsene di tutte queste immagini e dei loro continui ritorni e rimontaggi? Cosa rappresentano esattamente, e a chi appartengono? [Malvina Giordana]

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DRIVE MY CAR

di Ryūsuke Hamaguchi

Le strade come vettori, direzioni da imboccare nella vita, anche invertendo repentinamente la marcia. Il gioco del destino e della fantasia (nella nostra classifica) iniziava con una lunga scena di dialogo in macchina tra due amiche, mentre un tunnel veniva irrimediabilmente imboccato alla fine del secondo episodio. Con Drive My Car Ryūsuke Hamaguchi costruisce un film dove la parte road movie è preponderante, adattando una novella breve dell’acclamato scrittore nipponico Haruki Murakami, pubblicata nella raccolta Uomini senza donne. Il regista, forte del suo approccio corale, stravolge l’opera minimalista dello scrittore, la usa come un canovaccio o una strada principale in cui inserire una gran quantità di diramazioni secondarie, moltiplicazioni narrative, sdoppiamenti, finali che si accumulano. Lo spunto si basa sulla storia di Yusuke Kafuku, un attore e regista teatrale, da poco vedovo, che viene incaricato di una regia dello Zio Vanja di Čekhov da parte di un teatro di Hiroshima e a cui viene anche assegnata una macchina con autista, una donna di nome Misaki. Il tutto serve per permettergli di usare il tempo dei viaggi per provare il testo ascoltando una registrazione audio. Ancora, nell’opera del regista, un testo si rappresenta, si fa scena e immagine, aggiungendo in questo caso un’ulteriore dimensione, quella teatrale, con un sottotesto rappresentato da Čekhov. Un teatro dove la parola è come scollata dal significato, una rappresentazione di archetipi, dove ogni attore recita con una lingua diversa, compreso l’alfabeto dei segni coreano. Una sorta di straniamento che ci riporta al cinema classico nipponico. La condizione da road movie, la narrazione all’interno dell’abitacolo dell’automobile parallela al palcoscenico, avrà la sua catarsi in uno dei finti finali, quello del lungo viaggio da Hiroshima all’Hokkaidō, un tragitto tra i due estremi geografici del Giappone, paese che ha una rete viaria tra le più sviluppate al mondo. Le strade perdute di Hamaguchi si ingarbugliano e arrivano al groviglio rappresentato da quell’immagine aerea di un contorto e intasato svincolo autostradale, scena interrotta dal rumore di uno sparo che ci riporta al teatro, alla dimensione fuori campo/fuori scena di Čekhov, il colpo di pistola non visto tanto in Zio Vanja come nel Gabbiano. Con Drive My Car, presentato in concorso a Cannes a pochi mesi dal successo alla Berlinale di Il gioco del destino e della fantasia, Ryūsuke Hamaguchi viene confermato nel pantheon dei giovani autori in fermento nel cinema mondiale. [Giampiero Raganelli]

DUNE

di Denis Villeneuve

Attesissimo nuovo adattamento del fluviale romanzo di Frank Herbert, classico della fantascienza, il Dune del canadese Denis Villeneuve, che con Hollywood ha saputo costruire una relazione obliqua fatta di trattative sottili fra grande intrattenimento e autorialità, abdica fin dall’inizio all’ideale della sintesi e della riduzione che in passato ha segnato clamorosi fallimenti (vedi il caso Lynch): si predilige al contrario la creazione di un’opera in due parti di cui questo primo capitolo, presentato al Festival di Venezia, ci immerge in una cornice narrativa profondamente curata nei dettagli e mai semplificata nei sottotesti. Nel delicato equilibrio politico che regola la vita dell’universo nel 10191, esposto alle intenzioni opache di un imperatore sotto al quale si trovano a lottare o a trattare importanti casate di pianeti differenti, il destino del desertico Arrakis, dove prospera la preziosa Spezia che tutti vogliono controllare, si intreccia al percorso di formazione di Paul, giovane figlio della casata Atreides: il Dune di Villeneuve, certamente all’altezza delle aspettative in fatto di visionarietà, elude o per lo meno stempera il primato dell’azione (la retorica delle narrazioni epiche) per fare del personaggio il fulcro di un’interrogazione intima e duplice, da una parte sull’accettazione delle eredità familiari e della chiamata all’impegno, dall’altra sulla scoperta di forze interiori senza le quali una vocazione personale profonda non potrebbe essere riconoscibile. Come da romanzo, gli echi del presente pulsano sotto alle trasfigurazioni della fantascienza: un pianeta colonizzato e sfruttato nelle sue risorse, popolazioni in fuga o in lotta contro forze assetate di potere e cieche alla sofferenza, la capacità di entrare in contatto con chi è diverso come via alla sopravvivenza di una cultura. Villeneuve sa bene che il prezzo da pagare consiste nell’alzare al massimo, quando opportuno, l’asticella della spettacolarità, ma il suo sguardo da progettista sofisticato difende implicitamente i territori ormai risicati dell’Hollywood umanista, quella che anche sullo sfondo di suadenti immaginazioni non fugge il proprio debito con la realtà. [Marco Longo]

È STATA LA MANO DI DIO

di Paolo Sorrentino

Entriamo nel film arrivando a Napoli in volo sul mare, accompagnati da una lunga inquadratura dall’alto carica di sogni e aspettative. Ce ne andremo dopo due ore in modo decisamente più prosastico, in treno, mentre la voce di Pino Daniele canta Napule è, al termine di un racconto di formazione molto denso. Al centro del nuovo lungometraggio di Paolo Sorrentino, Leone d’argento alla Mostra del Cinema di Venezia, c’è una vicenda personale molto intima, un punto di rottura nella storia della famiglia d’origine del regista napoletano in cui si intrecciano tragedia e caso. Per un autore spesso tacciato di compiacimento e autoreferenzialità, avrebbe potuto essere una trappola terribile. Invece, con È stata la mano di Dio, Sorrentino non solo si mette veramente a nudo, spogliando il suo cinema da quei barocchismi che tanto avevano appesantito le ultime prove cinematografiche e televisive, ma riesce anche a trasformare il personale in universale. Attraverso l’alter ego Fabietto Schisa, un giovane studente di liceo classico nella Napoli di metà anni ’80, scopriamo una città che trascende la verosimiglianza storica e si fa incredibilmente viva, un sito della memoria trasfigurato e grottesco, proteso nell’attesa epifanica del Messia Diego Armando Maradona. In una continua dialettica tra miseria della realtà e supremazia della fantasia  – con un’apparizione fuori campo di Federico Fellini a sottolinearla –, l’avvento di Maradona a Napoli coincide con la svolta tragica del racconto, che nella sua seconda parte diventa una sorta di Bildungsroman, un viaggio iniziatico, fatto di esperienze, tappe e stazioni, alla ricerca di uno scopo, di una meta e di una cognizione del dolore che permetta di ritrovare un orizzonte perduto. Amicizie notturne, la prima scopata, il cinema come strumento perfetto per sfuggire all’eccesso di reale che si è mostrato all’improvviso a Fabietto. Qui il film mostra anche la Napoli più sorprendente, notturna e onirica, suggestiva e poetica, sfondo ribollente della ricerca interiore del giovane protagonista. Fino alla confessione conclusiva che  – senza svelare nulla  – esprime l’impossibilità di dare un senso o una forma a ciò che nel dolore sfugge alla vista, alla difficoltà di guardare davvero la morte e di comprendere l’assenza nella presenza. Come a dire che in fondo non solo Sorrentino, ma tutti noi, per sopportare il dolore, facciamo sempre e comunque lo stesso film. [Simone Spoladori]

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FRANCE

di Bruno Dumont

Ce lo dice platealmente Bruno Dumont che la “France de Meurs” protagonista del film interpretata da Léa Seydoux è un’allegoria della Francia contemporanea, la France des mœurs appunto: quella della cultura di massa, dei reality, dei social e della televisione. Lo vediamo già nella prima fulminante scena del film dove la superstar giornalista televisiva Léa Seydoux è in prima fila in una conferenza stampa all’Eliseo e dove pone la domanda più scomoda a Macron (interpretato nel film da un montaggio delle sue stesse apparizioni pubbliche che lo fanno sembrare autenticamente presente nel film). Ma nel giornalismo di oggi la domanda viene fatta solo a beneficio di telecamera e con l’obiettivo di diventare virale sui social: France non ascolta nemmeno la risposta del Presidente della Repubblica intenta semmai a vedere quanto il suo nome compaia nei twitter feed in diretta. In un certo senso è già tutto qui il mood del film: la cultura contemporanea, ci sembra dire Dumont, è una cultura non soltanto cinica e narcisistica (“narcisismo” secondo l’efficace definizione della psicoanalista Colette Soler) ma è anche una cultura dove si è completamente eclissata la verità. E non si è eclissata perché è nascosta – dato che, anzi, è continuamente esposta ai quattro venti – ma semmai perché è strutturalmente inascoltabile per le nostre orecchie. France è una giornalista di guerra e la verità non la vede nemmeno quando le bombe della guerra siriana le cadono in testa; il suo cinismo non emerge nel discorso pubblico nemmeno quando in un fuori-onda parla esplicitamente del suo disprezzo per il pubblico in diretta nazionale, perché anche quel momento di potenziale verità può essere invece ribaltato in un volano per alimentare la finzione mediatica del suo personaggio. Il film ci dà l’impressione di essere sempre sull’orlo che tutto questo circolo di finzione e narcisismo venga spezzato: eppure non accade mai. Perché? Perché il mondo contemporaneo è così allergico alla verità ed è così pieno di immaginario? È quando France investe un poveraccio con la macchina, quando si ferma enigmaticamente a vedere un campo pieno di fango e merda di vacca nel Nord della Francia, o quando un ragazzo si mette in maniera inconsulta e inaspettatamente violenta a distruggere una bici di fronte a lei in mezzo a una strada di Parigi che qualcosa di questo immaginario si squarcia. E si squarcia non per un ingresso della realtà in un mondo di finzione, ma semmai per un surplus di reale. È qui – nel punto dove l’incomprensibile e il grottesco diventano lirici – che il cinema di Dumont ritorna alle atmosfere di P’tit Quinquin, de L’Humanité, di Ma Loute e di Jeannette e in un certo ne svela ex post la loro posta in palio (France è uno di quei film che re-interpreta a ritroso tutto il cinema del proprio autore). E mostra come il problema sia ancora una volta quello che la psicoanalisi chiama “sintomo”: quell’elemento che squarcia l’immaginario e che è a un tempo catastrofe, ragione di sofferenza ma anche àncora di salvezza soggettiva. E che si tratta di essere capaci di ascoltare (o di vedere in questo caso), anche in un mondo che invece sembra essere unicamente preoccupato di metterlo a tacere. [Pietro Bianchi]

IL GIOCO DEL DESTINO E DELLA FANTASIA

di Ryūsuke Hamaguchi

Film in tre episodi, tutti giocati sul tema del destino e della casualità e sulle diverse direzioni che può prendere la vita in ambito amoroso. Presentato alla Berlinale e premiato con l’Orso d’argento, ha consacrato il successo di Ryūsuke Hamaguchi quale autore di punta del nuovo cinema nipponico. Nel secondo episodio compare il personaggio di un docente universitario, il professor Segawa – oggetto di un tentativo di vendetta da parte di uno studente bocciato –, che insegna letteratura francese. Segno questo della tensione dell’autore verso il cinema di Rohmer o Rivette (il primo episodio si gioca su un meccanismo narrativo analogo a quello di La mia notte con Maud). Il docente è anche romanziere e ha vinto il premio Akutagawa, il massimo riconoscimento letterario giapponese dedicato a un grande autore del Novecento, che nel cinema è ricordato per i racconti da cui è stato tratto Rashōmon. E questo rappresenta, con le sue infinite realtà possibili, il debito nazionale di Il gioco del destino e della fantasia, il cui titolo originale, Gūzen to sōzō, significa semplicemente “casualità e immaginazione”: ingressi inaspettati da porte lasciate aperte (come fossero personaggi teatrali classici che compaiono su un palcoscenico, e la dimensione teatrale tornerà nel successivo Drive my Car), incontri sui mezzi pubblici o su scale mobili in opposte direzioni, mail inviate a indirizzi sbagliati rappresentano le collisioni casuali delle parabole dei personaggi e i fulcri di nuovi cambi di marcia nella loro vita. La forma del film riflette le storie: richiami interni alla sceneggiatura, dialoghi brillanti sempre prossimi ai maestri francesi, intersezioni frequenti tra parola e immagine. Il professor Segawa espone la sua concezione dell’economia narrativa, con il punto focale da collocare al centro di un romanzo: la lettura di un suo intensissimo brano si trova esattamente nel cuore del film. Tutto è pronto perché Hamaguchi si confronti con un gigante della letteratura nazionale contemporanea quale Haruki Murakami. [Giampiero Raganelli]

MARX PUÒ ASPETTARE

di Marco Bellocchio

Nell’anno della Palma d’oro onoraria al Festival di Cannes, Marco Bellocchio torna in sala con un film oltremodo personale, autobiografico nell’argomento e intrinsecamente spiazzante rispetto a tutto quello che viene prima, di cui costituisce una sintesi e un gesto di critica interna. Marx può aspettare è un documentario familiare, aperto alle testimonianze dirette dei fratelli e sorelle del regista (Piergiorgio e Alberto, Maria Luisa e Letizia), in cui Bellocchio riflette su un evento decisivo della propria vita: la scomparsa del gemello Camillo, nato poche ore dopo di lui il 9 novembre del 1939 a Piacenza, e morto suicida ad appena 29 anni, nel dicembre del 1968, quando l’enfant terrible del cinema italiano era già riconosciuto e premiato in tutto il mondo. Lontano dall’inchiesta o dall’indagine, il film non cerca facili risposte o verità oggettive: il gesto di questo fratello fermatosi in anticipo lungo il corso del tempo è del resto il nodo irrisolto di tutto il cinema di Bellocchio, l’immagine rimossa che da sempre eccede la capacità del regista di tenere separate l’arte e la vita. Meravigliosamente scandito dagli archivi privati in cui emerge di Camillo un profilo da vitellone malinconico, Marx può attendere diventa un film generoso e catartico, in cui Bellocchio, senza volersene scagionare, cerca di capire (e condividere, anche con i suoi figli) le proprie responsabilità di fronte alla scelta di un fratello che, per ragioni solo in parte razionalizzabili, non ha saputo risolversi con la stessa facilità in una missione o in una vocazione. Del resto lo stesso titolo che Bellocchio dà al proprio film è la battuta geniale che Camillo gli diede quando, cercando di rispondere alle sue manifestazioni di sofferenza, Marco gli suggerì di abbracciare la causa rivoluzionaria per risolvere i suoi problemi personali. Rilanciando programmaticamente la poetica del suo autore, il film ci ricorda che il passato vive nella vita di chi rimane, abita come un fantasma la coscienza di chi se ne fa portatore, e come tale è un mistero quasi spirituale: il tentativo commovente di tenere vivo attraverso lo sguardo del cinema un legame perduto. [Marco Longo]

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MEMORIA

di Apichatpong Weerasethakul

Jessica Holland, di origini scozzese, porta avanti un’attività di coltivazione di orchidee a Medellín, in Colombia. Si reca a Bogotá per trovare la sorella in ospedale. Con un’ulteriore immagine di malattia, come quelle che percorrono tutto il suo cinema, si apre Memoria, il film di Apichatpong Weerasethakul con protagonista Tilda Swinton, presentato in concorso a Cannes dove ha ricevuto il Premio della giuria. Un’opera che ritrova in terra sudamericana quella stessa fascinazione metafisica della valle del Mekong, cui finora il regista si era rivolto. Alla sorella appena svegliata nel letto d’ospedale, Jessica dice che è stato bello vederla dormire e lei racconta il suo sogno su un cane morente. La condizione di sonno, di mancanza di coscienza, equivale, nella poetica del regista thailandese, allo stato buddhista del nirvana, alla connessione con un mondo altro, o alla capacità di cogliere le idee platoniche andando oltre le loro ombre. Lo stato onirico si collega all’arte surrealista: nel film si cita Salvador Dalí, definito come «uno che capì la bellezza di questo mondo». Jessica, al contrario, soffre di insonnia, come spiega alla dottoressa da cui va a farsi visitare per i suoi disturbi. Eppure la donna sembra percepire tutte le vibrazioni del mondo, assorbire le pulsioni del presente come del passato, ricordare le vite precedenti. Lungo il racconto viene definita “un’antenna”. Jessica non ha bisogno di dormire perché è uno zombi, un personaggio ripreso, con lo stesso nome, da Ho camminato con uno zombi, il classico horror RKO di Jacques Tourneur, del 1943. Jessica cammina in lungo e in largo, nella città e nella campagna circostante. Visita un laboratorio di antropologi che compongono gli scheletri di uomini di tribù precolombiane. Guarda un libro con le malattie, i parassiti fungini, i microrganismi patogeni che attaccano le piante come le sue orchidee. E si recherà in una ditta produttrice di celle frigorifere, in grado di conservare i fiori impedendo la formazione di funghi patogeni. Sente uno strano rimbombo in testa e si rivolge a un tecnico del suono, Hernán, che riesce a riprodurre quel rumore, con le sue indicazioni, attingendo a una libreria di effetti sonori per il cinema. Quando ritorna da lui e non lo trova, Jessica scopre dal personale che nessuno con quel nome ha mai lavorato in quello studio. Jessica è l’antenna del sincretismo di Apichatpong Weerasethakul, capace di connettere i fantasmi con i protozoi e con le astronavi, la medicina con l’archeologia, la mitologia e la fantascienza. Capace di cogliere, in quella terra straniera, le stratificazioni di memorie, di civiltà, e di cinema. [Giampiero Raganelli]

PETITE MAMAN

di Céline Sciamma

Nei suoi film, Céline Sciamma si è sempre posta interrogativi sull’identità: che cos’è, come si forma, perché si forma e, soprattutto, a che prezzo? Film dopo film, la regista francese ha intuito che l’identità non è qualcosa di granitico e definito una volta per tutte, ma si avvicina piuttosto a una flebile vibrazione, a una sottile immagine prodotta dall’incontro tra la persona e le pressioni del mondo. Petite Maman non sembra essere altro che l’ultimo risultato di questa intuizione, un piccolo racconto sulla formazione dell’identità di una bambina che deve venire a patti con la perdita della nonna e l’apparente abbandono della madre. La sua messa in scena non argomenta però il tema alla maniera dei film precedenti: propone piuttosto una forma particolarmente attenta a rimanere silenziosa, a dissolversi lentamente nel racconto, rimuovendo simboli e marche formali evidenti. Scompare, ad esempio, il simbolo dello specchio, segno con cui Sciamma spesso ha trasmesso l’idea che l’identità individuale è sempre un’immagine compromessa dalle rifrazioni del mondo. Scompare perché la forza con cui questa volta si relaziona l’identità – è la morte ciò che la piccola protagonista Nelly è chiamata ad affrontare per crescere – non richiede tanto la presenza di un’opinione simbolica quanto una scelta di preciso rispetto verso il mistero, una scelta di ritegno. Sciamma lascia che la sua grafia di autrice scompaia a favore della storia; lascia che a parlare non siano le strategie formali, ma la vicenda stessa, i personaggi che la vivono e la soffrono, perché si confronta con il fenomeno dell’assenza. Come dire in immagine l’assenza che forma l’identità? La regista cerca risposte a questa domanda tramite inquadrature di commossa distanza, di minimo intervento; trova alla fine soluzione nella magia dello sguardo d’infanzia, quello sguardo per cui le cose si accendono di significato per il solo fatto di esserci, di essere presenti. [Leonardo Strano]

LA SCELTA DI ANNE – L’ÉVÉNEMENT

di Audrey Diwan

Siamo nel 1963 in Francia, l’aborto è illegale e chiunque ne faccia ricorso finisce in prigione quando va bene, muore quando va male. Anne vive lontana dalla famiglia, in collegio, è una brillante studentessa di letteratura e una ragazza che non ha problemi a esternare il suo desiderio sessuale per il mondo maschile. Sa cosa vuole ma le persone intorno a lei non sanno confrontarsi con l’evidenza del suo desiderio. A volte ne sono attrattǝ, più spesso ne hanno paura e lo giudicano. La regia di Audrey Diwan, fisica e precisa, ci conduce all’interno della vicenda senza mai abbandonare il volto della ragazza. È con lei quando si racconta alle amiche, di nascosto, e dice di essere rimasta incinta dopo una notte con un ragazzo appena conosciuto; è con lei quando si racconta al medico, maschio, che le risponde «Capisco», quando dice di non voler smettere di studiare per portare a termine la gravidanza (ma come fa a capire?). Nessuno vuole aiutarla per paura di essere complice morale, e legale, di un gesto indicibile. Le settimane passano e con loro anche la possibilità di liberarsi da quel peso. Nel cercare senza sosta una soluzione, Anne rischierà la vita più volte. Quello che colpisce della sua lotta è soprattutto la determinazione che mette nel cercare di non restare sola, nonostante i continui abbandoni delle persone che le stanno intorno. D’altronde una società che tratta la gravidanza indesiderata come una questione morale o una questione squisitamente femminile impedisce di raccontare agli altri e alle altre la propria scelta e rende impossibile la condivisione di un discorso. La scelta di Anne, discusso Leone d’oro a Venezia, è un film che non resta mai fermo sul posto ma mostra una lotta cruda con e contro il proprio corpo, che si distacca dalla narrazione del soggetto debole per diventare la storia di un percorso attivo che vuole con prepotenza uscire dal privato. «Farai l’insegnante?», chiede ad Anne il suo professore di letteratura francese. «No, farò la scrittrice», risponde lei alla fine del film. Anne non si racconterà più solamente all’interno di quelle stanze che non le permettono di desiderare liberamente o di disporre del proprio corpo come crede. Anne si scriverà, d’ora in poi, perché la sua esperienza possa essere condivisa e possa diventare di tutte e di tutti. Del resto il film è tratto dal libro omonimo di Annie Ernaux, una scrittrice che nei suoi romanzi ha sempre cercato di connettere l’intimità delle sue esperienze personali al bisogno collettivo di una nuova narrazione che parta dal femminile e dal femminista. [Perla Sardella]

SESSO SFORTUNATO O FOLLIE PORNO

di Radu Jude

Il film vincitore dell’Orso d’oro alla Berlinale comincia con un video porno amatoriale in cui Emi, insegnante di scuola, si riprende in camera da letto con il marito. Il problema è che il video finisce accidentalmente online e a nulla servono tutti i tentativi di farlo rimuovere: dopo poco tempo è su tutti i cellulari e i gruppi WhatsApp di studenti e genitori della scuola dove Emi lavora. Si tratta di una storia di revenge porn? Per nulla, o quanto meno solo in modo superficiale. L’operazione di Radu Jude va ben oltre la buona norma del cinema a tema sociale contemporaneo, riuscendo ad essere sia una commedia assolutamente divertente, sia una delle riflessioni più sofisticate e teoriche sulla contemporaneità capitalistica e su come essa investa, al pari di ogni merce e discorso, anche le immagini. In una Bucarest che mostra apertamente i segni della pandemia, Sesso sfortunato o follie porno è diviso in tre capitoli: il primo è un lungo attraversamento della città da parte della protagonista; nel terzo vediamo finalmente l’incontro a scuola con un’assemblea di colleghi e genitori (che ha tutto l’aspetto di un dibattito da social network e di un comico processo sommario dove il piano del discorso perde ogni consistenza logica o razionale). Il secondo, denominato “Short dictionary of anecdotes, signs and wonders” (piccolo dizionario di aneddoti, segni e prodigi), è una rassegna in ordine alfabetico in forma di film-essay di una serie di eventi tra i più disparati, che spesso hanno a che fare con le ipocrisie della storia rumena recente mentre altre volte sono di nessuna apparente importanza: alla C di Cinema, il regista ripercorre brevemente la storia di Medusa, una delle tre Gorgoni che aveva il potere di pietrificare chiunque incrociasse il suo sguardo e che venne sconfitta da Perseo solo grazie a uno specchio riflettente donatogli da Atena. La morale – dice Jude – è che noi non possiamo mai vedere gli orrori direttamente «perché ci paralizzano con una paura accecante»: siamo costretti a vederli solo attraverso le immagini che riproducono la loro apparenza. Lo schermo cinematografico è come lo scudo riflettente di Atena: mentre le merci si definiscono proprio per rendere invisibili le mediazioni e la portata degli orrori che ci stanno attorno, il cinema, come riflessione sullo sguardo, può invece essere capace di guardare la storia in filigrana, provando ad agire di contropelo sulle immagini nelle quali siamo immersi. Il cinema non si fa inventando le immagini dal nulla, ma facendosi largo in mezzo a quelle che ci stanno attorno. La denaturalizzazione del mondo della merce parte semplicemente da una disciplina dello sguardo. [Pietro Bianchi]

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TITANE

di Julia Ducournau

Alexia è in macchina con il padre alla guida e continua a battere i piedi sul sedile anteriore per sfidarlo e fargli perdere la pazienza, quando lui si gira, urlando, e fa un incidente quasi mortale. Alexia sopravvivrà solo con l’innesto di una placca di titanio conficcata nel cranio e una spessa cicatrice esposta con orgoglio, come una rasatura. A questa scena primaria, se ne affianca un’altra, quando ormai adulta si esibisce come ballerina in un salone d’auto, mimando un atto sessuale, e al termine della performance rischia uno stupro. Dopo aver ucciso il violentatore con un punteruolo (sempre di titanio) usato come forcina per i capelli, torna nel salone – ormai buio – e segue il richiamo della macchina sulla quale di solito si esibisce e con la quale avrà un rapporto sessuale: a quel punto è incinta. Julia Ducournau era andata a fondo al tema della carne e del cannibalismo già con Raw, con il quale si era aggiudicata l’attenzione della Semaine de la Critique di Cannes, per vincere con questo secondo film, in cui il tema del corpo si traslittera nella combinazione corpo-macchina, la Palma d’Oro nel 2021. La protagonista interpretata da Agathe Rousselle, con la sua figura androgina e le sue immedesimazioni, non è uomo né donna, non è umana né macchina – e non è solo il titanio a dirlo, ma l’olio nero spesso che le fuoriesce al posto del sangue – e, soprattutto, è al di là del bene e del male – è desiderio puro, di sesso, di morsi, di morte. Ispirato all’onda cyberpunk di David Cronenberg, Ridley Scott e James Cameron, risalendo indietro nel tempo fino a Metropolis, il film espone compiutamente lo spirito di un tempo gender fluid, che supera il binarismo dei generi e il dualismo umano-macchina e umano-animale. Una prova cinematografica che sembra all’apparenza seguire alla lettera l’insegnamento di Donna Haraway quando a metà degli anni Ottanta esce su “Socialist Review” con A Cyborg Manifesto, dichiarando contro il femminismo marxista (e il marxismo più in generale) la fine di tutte le dicotomie che sanciscono l’opposizione tra natura e cultura: in una singola espressione corporea o simbolica è sempre possibile trovare l’intera “poesia” di quel continuum che unisce i due mondi (Haraway, Situated Knowledges). Così l’Alexia di Julia Ducoruneau incarna tutto, compreso un desiderio sessuale e omicida liberato al suo massimo, oltrepassando corporalmente e visivamente il confine con l’animalità – come quando tutti esplodono in una danza, in una scena epocale, durante un rave party improvvisato con una musica che ormai è già techno-hardcore. E, tuttavia, è proprio nell’incontro con Vincent (Vincent Lindon), che la regista sconfessa il testo su cui fonda il proprio approccio: il mostro, compresa la maternità mostruosa di quest* donna-macchina e donna-uomo, riscrive il suo desiderio all’interno di un paradigma che, alla fine, è familiare, persino trinitario. Come se nel tentativo di rappresentare cinematograficamente il flusso (del vitalismo, del genere), il film si scontrasse con un ordine simbolico che non riesce a superare. [Tania Rispoli]

THE TSUGUA DIARIES

di Maureen Fazendeiro e Miguel Gomes

Presentato alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes, il film di Maureen Fazendeiro e Miguel Gomes, legati da anni nella vita e per la prima volta coautori dello stesso progetto, potrebbe rivelarsi l’idea cinematografica più brillante e catartica dell’era pandemica, meditazione lieve e insieme arguta sulla percezione alterata del tempo, il vuoto di senso e il bisogno di relazione che l’esperienza del lockdown ha messo di fronte a ciascuno di noi. Un film sulla realizzazione di un film, in un set blindato e sanificato nella campagna portoghese dove gli attori Crista, Carloto e João improvvisano senza mai diventare del tutto altro da sé, mentre la troupe presto scivola in campo con le sue domande, i suoi dubbi, le sue crisi. Come il titolo suggerisce, questo diario agostano è divertitamente costruito a ritroso, mettendo in fila gli eventi dal ventiduesimo giorno di set a quello inaugurale: tutto ciò che accade non può dunque che essere “riavvolto” dagli occhi dello spettatore, soluzione geniale non solo per evidenziare (e far saltare) la convenzione logico-causale che domina il nostro rapporto con le immagini, ma soprattutto per restituire un senso pieno anche ai cosiddetti momenti morti della vita, improvvisamente più interessanti e “luminosi” di qualsiasi piano di lavorazione o ordine del giorno. The Tsugua Diaries è in questo senso un vero e proprio film sul piacere che manca, che è mancato e sta mancando in questi anni di pandemia ma che ancora può essere raggiunto imparando a godere di ogni singolo dettaglio della vita, in una giostra di segni, suoni, colori e sfumature emotive che riguarda anche il cinema, trascendendo il semplice desiderio di produrre esiti chiusi e rivendicando al contrario il primato felice dei processi, creativi, poetici, umani. [Marco Longo]

Menzioni speciali

WHAT DO WE SEE WHEN WE LOOK AT THE SKY? (Alexandre Koberidze)

ANNETTE (Leos Carax)

BENEDETTA (Paul Verhoeven)

IL POTERE DEL CANE (Jane Campion)

SULL’ISOLA DI BERGMAN (Mia Hansen-Løve)

THE FRENCH DISPATCH (Wes Anderson)

ARIAFERMA (Leonardo Di Costanzo)