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The Best of 2020. Le serie TV

Il 2020 è stato indubbiamente l’anno di Michaela Coel con la sua “I May Destroy You”, ma anche dell’adattamento televisivo di “Normal People”, di “We Are Who We Are” di Luca Guadagnino e della conclusione di “Homeland”. Ecco le serie TV che abbiamo amato di più nell’anno appena trascorso.

WE ARE WHO WE ARE

di Luca Guadagnino (HBO/Sky Atlantic)

Gli opposti si attraggono, si dice. Ma a volte si somigliano anche, si ribaltano l’uno nell’altro, sono indistinguibili. È il caso dei due protagonisti di quello che, più che una serie, è il film in otto episodi di Luca Guadagnino. Ambientato in una base militare statunitense a Chioggia, l’effetto di straniamento è duplice, perché la realtà è filtrata attraverso lo sguardo di due adolescenti che, se da un lato la subiscono, dall’altro, più che adattarvisi, provano a reinventarla secondo le loro esigenze. Fraser è l’ultimo arrivato, è figlio della nuova comandante della base e della di lei compagna, relegata, secondo il rigido binarismo imposto dalla cornice militare, nel ruolo di “moglie di”. Fraser sembra lo stereotipo dell’adolescente newyorkese: gay, intellò, ribelle e modaiolo. Caitlin è il suo opposto in molti sensi. Madre nigeriana e padre afroamericano machista e trumpiano, fratello segretamente musulmano, il mondo da cui proviene è un concentrato di contraddittori fondamentalismi e di incontrovertibile inferiorità di classe. Da questo humus desolante però emerge lei, che forse è la principessa di papà, forse è transgender, forse transgender proprio per compiacere e somigliare a papà. Nel frattempo, anche il mondo apparentemente più progressista e privilegiato di Fraser non è esente da cliché soffocanti, abusi di potere e un senso di claustrofobia insopprimibile. Scaraventato nella provincia veneta, quello della base militare è un microcosmo che riproduce con precisione le scissioni degli Stati Uniti, estremizzandole e complicandole allo stesso tempo. La rete di competizione e complicità che si intreccia tra queste due famiglie non è che il preludio alla fantasia di composizione incarnata dal rapporto tra Fraser e Caitlin. Composizione che non è una ri-composizione, perché Fraser e Caitlin non sono due anime che si riconoscono come gemelle: quello che realmente accade in questo film è un processo di avvicinamento e modellamento reciproco, di rispecchiamento e crescita comune. La conclusione, in cui sembrano scegliersi, non è trionfale, ma consolatoria. È un inno all’amicizia, più che all’eros come era invece Call me by your name. E però, se lì il desiderio era propedeutico alla scoperta dell’identità, qui l’identità viene messa in crisi, decostruita attivamente dal rapporto con l’altro, perché i punti di vista, appunto, sono due, e sono sia opposti che identici, ma mai perfettamente simmetrici. La loro perfetta composizione resta possibile solo per un attimo, come sempre accade in Guadagnino, che (nonostante la profondità di scrittura raggiunta stavolta), rimane invariabilmente, e fortunatamente, più interessato a catturare istantanee che a stilare un programma. (Elisa Cuter)

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I MAY DESTROY YOU

di Michaela Coel (HBO/BBC One)

I May Destroy You è la storia di un corpo. Un corpo violato che prende coscienza della sua esistenza e del suo posizionamento nel mondo. Il corpo è quello di Arabella, scrittrice londinese di origini ghanesi che, dopo una serata con gli amici, si risveglia con la memoria annebbiata: I May Destroy You è la storia di come quel blackout viene ricostruito e colmato di senso anche oltre il suo contenuto concreto, oltre la violenza subita. Il corpo al centro di questa co-produzione BBC/HBO, però, è anche quello della sua interprete, creatrice, sceneggiatrice, co-regista e produttrice: Michaela Coel, già autrice di Chewing Gum (su Netflix). Un corpo di donna messo a nudo, nelle sue funzioni e secrezioni, senza rappresentazioni patinate, senza narrazioni romanticizzanti né distanziamento ironico. In questo senso, la struttura parzialmente “poliziesca” di I May Destroy You, che di puntata in puntata fa procedere l’indagine di Arabella per ricostruire i fatti della notte in cui è stata aggredita, non è solo un escamotage narrativo; è anche l’espressione della volontà di Coel di dipanare il malinteso mistero che circonda il corpo della donna, il suo funzionamento, il suo desiderio, disinnescando l’aura di affascinante indecifrabilità all’origine di rappresentazioni limitanti. Intorno a quel corpo, però, c’è una spiccata componente corale, con i due amici di Arabella, l’aspirante attrice Terry e il personal trainer Kwame, ad allargare lo sguardo su altre e differenti forme di trauma. I May Destroy You è infatti una serie sul consenso, declinato in numerose sfumature e in contesti anche distanti: con sguardo più acuto e problematico di altri prodotti nati nell’era del #MeToo, Coel tratta il tema nella sua complessità, dimostrando la difficoltà di riconoscere una violazione del patto consensuale e di sentirsi legittimati nel denunciarla. Questo racconto corale palesa come la serie sia informata dal femminismo intersezionale: la presa di coscienza di Arabella e la sua lotta contro il sessismo non può sussistere se non accogliendo le istanze delle altre minoranze che il suo percorso intercetta. Nella dolorosa, esilarante, grottesca elaborazione del suo trauma, Arabella è costretta a ricordarsi di non essere sola; la sua militanza si sposta dal campo di gioco tutto hashtag e slogan vacui dei social a quello di una riflessione inclusiva e corale. Lasciandosi alle spalle le arguzie usa e getta da social; i meme, i tormentoni, l’ironia a tutti i costi sono un filtro da applicare sulla realtà. I May Destroy You li fa a brandelli, per guardare quella realtà in faccia. (Ilaria Feole)

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THE PLOT AGAINST AMERICA 

di David Simon e Ed Burns (HBO)

Il racconto di Philip Roth da cui la serie è tratta si presentava come un’allarmata ucronia o contro-storia, ma è diventata quasi cronaca attuale con le manovre di Trum0m per disconoscere preventivamente e durante il processo elettorale la validità del voto in Usa, come minacciosamente annuncia il finale aperto della mini-serie, con il rogo delle schede sottratte. The Plot against America, realizzato dagli autori di The Wire, David Simon ed Ed Burns, narra come nel 1940 il colonnello Charles Lindbergh, il primo trasvolatore solitario dell’Atlantico e ancor più popolare per il tragico rapimento e uccisione del figlio nel 1932, isolazionista e antisemita, si candida per i repubblicani allo scadere del secondo mandato di Roosevelt e vince a sorpresa, con la parola d’ordine (ripresa da Trump) America first!, grazie all’appoggio degli stati rurali del Sud e del Midwest, in ticket con il feroce senatore reazionario Burton K. Wheeler, nominando ministro degli Interni Henry Ford, il grande imprenditore filo-nazista. Morto misteriosamente il troppo tiepido Lindbergh, gli subentra Wheeler che trascina il paese quasi alla guerra civile, fa assassinare gli oppositori, scatena pogrom e cerca di truccare le elezioni. Anche lui come Trump, 80 anni più tardi, potrebbe dire: «I’m not a good loser. I don’t like to lose». Tutto è vissuto attraverso la storia della famiglia Levin, che assiste incredula all’ascesa di un regime suprematista, che dichiara la neutralità dell’America e di fatto sostiene i piani espansivi del Terzo Reich, adottando una politica di discriminazione anti-ebraica anche negli Usa. I Levin decidono di resistere sul posto, da bravi patrioti americani, mentre molti altri ebrei emigrano in Canada per sottrarsi al clima persecutorio e il cugino Alvin si arruola addirittura nelle truppe d’assalto canadesi che combattono in Norvegia a fianco degli Alleati, rimettendoci una gamba e finendo perseguitato dal Fbi per “comunismo”. Ma anche la comunità ebraica e la stessa famiglia Levin si spacca, seguendo alcuni la tattica compromissoria del rabbino conservatore Bengelsdorf (uno straordinario John Turturro) che si mette alla corte di Lindbergh e della sua più liberale first Lady, ma è travolto dal colpo di mano di Wheeler. Storia e contro-storia sono vissuti attraverso un microcosmo familiare e di gruppo, come in The Wire e The Deuce – ma stavolta l’impatto con l’attualità è davvero impressionante e la voluta indeterminazione del finale (diversamente dal più ottimista Roth, che si confrontava con Bush jr.) crea la giusta suspense. (Augusto Illuminati)

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NORMAL PEOPLE

di Lenny Abrahamson e Hettie Macdonald (Hulu)

Cosa significa desiderare l’altro ancor prima di potergli rivolgere la parola? Cosa accade se quando lo si guarda, quando si posano gli occhi sul suo corpo, sul suo stare nel mondo, si ha già la sensazione di comprenderne ogni parte? Impossibile definire uno stato emotivo che, specialmente quando corrisposto, viene attraversato dall’adrenalina della proverbiale chimica: ma siccome il punto più in ombra si trova sempre sotto alla lampada, quella tensione irresistibile verso un preciso tu, quella fiducia fantasticata verso la carnalità dell’altro, si rivela presto la forma con cui il desiderio rincorre se stesso, lasciando che tutto il mondo, declinato in infinite volute di dolori e accidenti, possa finalmente collassare nell’astrazione del sentimento amoroso. È solo l’inizio di un lungo viaggio, fisico e insieme interiore come il legame che unisce Marianne Sheridan e Connell Waldron, giovani protagonisti di Normal People, l’acclamato secondo romanzo di Sally Rooney e oggi omonima serie televisiva di cui Rooney è co-sceneggiatrice. Compagni di liceo a Sligo, città strategica ma impersonale nell’omonima contea irlandese, Marianne e Connell si annusano, si intuiscono, fino a precipitare all’unisono nella reciproca attrazione. La loro storia nel tempo (dal liceo all’università, spesso attraversata da un’inversione dei ruoli), pur nelle finestre delle rispettive solitudini, è quella di una coppia che sperimenta a poco a poco la crisi dell’immagine simbiotica del proprio amore e, per quanto possibile, si apre alla reciproca conoscenza dell’altrui emotività come naturale condivisione degli abusi subiti o paventati. All’idea astratta del sentimento si sostituisce gradualmente la cura dell’immagine dell’altro, non più fantasma idealizzato o temuto, ma figura tridimensionale, colta nella sua contingenza di vita e di percorso, nella convergenza di forze e strategie contrastanti. Scrive Barthes nei suoi Frammenti che «il soggetto amoroso riconosce l’essere amato come “atopos” (qualifica attribuita a Socrate dai suoi interlocutori), cioè inclassificabile, dotato di una originalità sempre imprevedibile», che travalica il linguaggio stesso. Normal People riesce nell’impresa di raccontare le trasformazioni del sentimento fra due giovani esseri umani, i quali comprendono come l’originalità non appartenga né all’uno né all’altro, ma alla storia della loro stessa relazione. Scrive ancora Barthes: «Ciò che bisogna conquistare è l’originalità della relazione». (Marco Longo)

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ETHOS

di Berkun Oya (Netflix)

Qualcosa di diverso (Bir Başkadır) è all’incirca il titolo originario della serie Tv turca creata da Berkun Oya (in collaborazione con Ali Farkhonde) e resa internazionalmente come Ethos – e stavolta con la traduzione ci si può stare. Ethos e infatti il luogo abituale che però non è così sicuro, la casa dove non ci si sente a casa propria. I ponti che scavalcano il Bosforo e l’immaginario autobus 24 non ricuciono le contraddizioni fra Beyoğlu e Tokatkoy, Beykoz, fra convulsa sponda europea e semi-rurale sponda asiatica di Istanbul, fra i corruschi tramonti con i profili di Aghia Sofia e della torre di Galata e le edgelands dove periferia abusiva, campagna alberata, nebbie padane e greggi si mischiano. L’unheimlich trionfa fra le donne velate anatoliche, le famiglie curde espiantate (e che, inaudito, parlano in curdo), a casa dell’hodja e nelle dimore dei borghesi insoddisfatti e le curatrici psicologiche che dispensano il “treatment” sono le più stravolte. Intorno al filo conduttore, Meryem, una domestica religiosa e (inizialmente) sottomessa, afflitta da svenimenti di origine psicosomatica e che avvia un tormentato rapporto terapeutico con un’odiosa e molto più fragile analista occidentalizzata, Peri (Defne Kayalar), intorno a cui si dispongono coralmente e con rapporti trasversali altri personaggi, che rappresentano la borghesia laica di Istanbul e la campagna anatolica che gravita ai suoi margini – quella che finora ha fatto le fortune elettorali dell’AKP di Erdoğan. Una rete di relazioni e scontri che sono estranei non tanto alla nostra esperienza quotidiana quanto alle tematiche correnti nelle serie Tv e tuttavia sono estremamente comprensibili in quanto tuttora irrisolte anche nella cultura occidentale del terzo millennio. Il finale della prima stagione è conciliante e provvisorio: analista e paziente finalmente si intendono, la moglie malata elabora il trauma e ritorna a casa, la figlia lesbica e rockettara dell’hodja se ne va di casa con la sua amica e la tacita accettazione da parte del padre. Al di là delle differenze di stile di vita, la logica del sequel è universale… (Augusto Illuminati)

 

THE LAST DANCE

di Michael Tallin e Jason Hehir (Netflix)

The Last Dance è la docu-serie televisiva distribuita da Netflix che racconta la grande epopea sportiva dei Chicago Bulls di Michael Jordan, concentrandosi in particolar modo sulla loro ultima, trionfale stagione (1997-98). Al di là delle esaltanti vicende narrate, è il suo attestarsi come racconto anzitutto epico ad affascinare. Da una parte, gli straordinari successi dei Bulls degli anni Novanta vengono raccontati attraverso una narrazione che procede per conflitti, opponendo le ragioni dei singoli “protagonisti” a quelle del mondo circostante, con l’«antagonista» che viene volta per volta individuato dall’«eroe» Jordan; dall’altra, allargando invece il punto di vista a una polifonia di eventi, spazi che sembrano schiudere sempre nuovi mondi, microcosmi che creano un sedimento di storie, reali o possibili. Provocatoriamente, si potrebbe dire che la componente puramente documentaria o “giornalistica” della serie è decisamente meno interessante della sua evidente natura di manifestazione mitica. A contare davvero, infatti, è la sua struttura profonda che ricolloca simbolicamente gli eventi in un orizzonte collettivo e condiviso. L’epos di The Last Dance si allarga a una platea di “attori”: il “maestro Zen” Phil Jackson, guida tecnica e spirituale della squadra, l’”aiutante” Scottie Pippen, spalla taciturna e irrequieta, il “deus ex machina” Jerry Krause, stratega geniale e malvisto dalle proprie “truppe” e così via. Il quadro totale si scorpora in un turbine di prospettive differenti. The Last Dance si dispiega come un aggregato polifonico, dove il singolo si fonde con il molteplice. Allo stesso tempo, però, si pone anche come emblema dell’esperimento opposto e complementare: restituire un quadro complessivo, far convergere i diversi piani prospettici verso un centro. Così, vero e proprio collettore di tutti i racconti, “reali” o adulterati, effettivi o anche solo possibili, diventa la figura quasi mitica di Michael Jordan: Achille capriccioso e quasi invincibile, inconsapevole prosecutore della figura archetipica dell’eroe americano. (Alberto Libera)

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SEARCH PARTY (terza stagione)

di Sarah-Violet Bliss, Charles Rogers e Michael Showalter (HBO Max)

Quattro millennials di Brooklyn – benestanti, narcisisti, ironici, distratti, autocentrati – e la loro vita che si consuma tra brunch, progetti imprenditoriali o artistici, e una costante rappresentazione di sé sui social network e nella vita reale. Tutto sembra andare avanti in modo prevedibile, quando arriva la notizia della scomparsa di una vecchia conoscente del gruppo dai tempi dell’università. Nessuno le era davvero amico ma per la protagonista Dory (Alia Shawkat) si tratta comunque di uno shock e un nuovo motivo attorno a cui iniziare a far gravitare la propria intera esistenza che era in attesa di una svolta. La prima stagione di Search Party – uscita nel 2016 – usava il registro del mystery spruzzato di commedia per parlare di un’ossessione dai tratti fortemente soggettivi. E tuttavia il finale cambiava completamente le carte in tavola e un evento inaspettato (il coinvolgimento involontario in un omicidio) apriva la seconda stagione a un registro e a una struttura narrativa diversa, anche se speculare. Se la prima stagione mostrava l’attaccamento appassionato a una svolta, nella seconda si trattava di cancellare le tracce di un evento inaspettato per poter tornare alla normalità. Ma è la terza stagione, uscita quest’anno su HBOMax, che riesce a elevare questa serie a una delle riflessioni più sorprendentemente inquiete della televisione contemporanea. Il registro cambia ancora, questa volta siamo dalle parti della dramma processuale: Dory e il suo gruppo di amici sono accusati di un omicidio efferato e inchiodati da prove che sembrano schiaccianti. Tuttavia la rappresentazione pubblica del loro personaggio è ormai completamente mediatizzata e ha fatto un salto di qualità passando dai social network alla televisione: più le prove a loro sfavore diventano indubitabili e più la narrazione prende il sopravvento sulla realtà. E persino quando arriva una prova finalmente oggettiva che sembrerebbe riportare tutto nei binari della realtà – un nastro con una confessione pronunciata dei diretti interessanti – l’opacità e ambiguità delle parole non fa che aumentare invece che diradarsi. La narrazione e la costruzione del sé iniziano a diventare così potenti e manipolatorie da intaccare perfino l’immagine che i personaggi hanno di loro stessi e delle loro azioni passate. La verità – problema attorno a cui ruota tutta la serie – è una questione di prospettivismo, di performatività o ci sarà finalmente prima o poi il momento della resa dei conti? Non arriverà alla fine di tutto un’oggettività reale che riporterà le cose al loro fondamento indubitabile? Negli anni della “crisi epistemica” (Luca Celada) dell’amministrazione Trump, dove diversi regimi della verità e del senso sembrano ormai creare diversi mondi che coesistono ed entrano in conflitto tra loro, la risposta sembra essere tutt’altro che scontata. (Pietro Bianchi)

 

BABYLON BERLIN (terza stagione)

di Tom Tykwer, Achim von Borries e Hendrik Handloegten (Sky/ARD)

Babylon Berlin, che Tom Tykwer ha molto liberamente tratto da un cicli di romanzi di Volker Kutscher, narra le avventure del commissario Gereon Rath (Volker Bruch) sullo sfondo del passaggio drammatico dalla repubblica di Weimar al Terzo Reich, Un’epopea della divisa polizia berlinese, che si destreggia fra socialdemocratici, comunisti e nazisti e dove la vera eroina è l’aiutante di Rath, Charlotte Ritter, figlia illegittima di un pugile zingaro e simbolo frech della ragazza berlinese. All’accuratezza storica e iconografica (che in patria le è valso un documentatissimo libro di O. Guerck) la serie unisce una riflessione sul passaggio dal cinema muto al sonoro, sottolineato dalla produzione nella storica sede di Babelsberg. Qui alla fine degli anni ’20 Berlino aveva sognato di essere Los Angeles, anche se gli angeli ancora non si libravano nel suo cielo. Il resto c’era: il grande crimine (qui la banda dell’Armeno è il riflesso del Mackie Messer brechtiano messo allora in scena), le ondate migratorie (non i messicani, ma i russi in fuga, stalinisti e trotskisti), la produzione di sogni in Hollywood sulla Spree, dove un tuttora esistente cinema Babylon, in un edificio espressionista di Poelzig in fondo alla Babelsbergerplatz (oggi Rosa-Luxemburg-Platz), equivaleva alle scenografie babilonesi della griffithiana Intolerance. Nelle prime due serie si intrecciano in contrappunto la sanguinosa repressione socialdemocratica delle manifestazioni comuniste per il 1 Maggio 1929 (il Blutmai), lo scontro fra agenti sovietici, esuli trotskisti e militari monarchici per impadronirsi di un presunto carico d’oro e la cospirazione della Reichswehr “nera” per rovesciare il governo repubblicano, mentre la terza chiama in causa il crollo borsistico e finanziario del 1929 e la complicità fra grande industria e nazismo rampante. Si attende – Covid permettendo – la produzione della quarta stagione. (Augusto Illuminati)

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RAMY (seconda stagione)

di Ramy Youssef, Ari Katcher e Ryan Welch (Hulu)

Dopo una riuscitissima prima stagione, la serie di Ramy Youssef, Ari Katcher e Ryan Welch alza la posta in gioco con dieci nuovi episodi ancor più controversi (e divertenti), ma conferma il proprio centro nello sguardo con cui il giovane musulmano del New Jersey, figlio di padre egiziano e madre palestinese, accosta il mondo che lo circonda, nell’incessante desiderio di diventare un fedele esemplare. Potremmo però dire che la serie racconta quanto vorremmo essere salvati dagli altri mentre siamo troppo impegnati a convincerli della nostra piena integrità. Se nella prima stagione Ramy si trovava smarrito di fronte al binarismo farsesco della sua vita quotidiana – la preghiera in moschea e i party del venerdì sera, la fascinazione per le donne musulmane e il terrore di scoprirle soggetti desideranti, fino al rigore con cui vuole vivere il ramadan, precipitando presto nel letto di una donna sposata –, quello che ora più pesa è il vuoto che il giovane porta con sé al ritorno dal suo disastroso viaggio in Egitto alla ricerca delle proprie radici. Per poter convincere gli altri di quello che non è, si attiva in lui una crudele forma di menzogna inconsapevole, una scissione interiore che è la vera cifra della sua auto-narrazione: ormai incapace di contenere la disgregazione sostanziale del suo rapporto con la realtà e l’Altro, Ramy si persuade che sia il valore formale delle sue esternazioni a poterlo mantenere intatto, o a farlo percepire tale. In questo quadro prossimo alla patologia, l’ostinazione che mostra nel volersi assumere responsabilità sempre più complesse diventerà anche la sua maledizione, conducendolo a un finale privo di catarsi. Anche per queste ragioni è curioso osservare come la serie, che porta nel titolo il nome del suo personaggio, metta sul tavolo la contestazione di un’identità incontaminata, suggerendo l’importanza di indebolire i “nomi” che diamo alle cose: quei nomi che tutelano un sapere o un sentire tutto votato alla manutenzione di un rapporto rassicurante con il mondo e con Dio. È accettando l’impurità di un costante divenire, espressione del proprio tempo e capace di liberare le caselle formali cui si ascrive l’identità, che forse è davvero possibile trovare se stessi ed essere amati. Significa, senza dubbio, imparare a convivere anche con quel paradosso che – come ha scritto Deleuze – «è innanzitutto ciò che distrugge il buonsenso come senso unico, ma anche ciò che distrugge il senso comune come assegnazione di identità fisse». (Marco Longo)

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HOMELAND (ottava stagione)

di Howard Gordon e Alex Gansa (Showtime)

È difficile non vedere in Homeland la classica costruzione di guerra totale tra i protagonisti e gli antagonisti con una linea di separazione netta tra i buoni e i cattivi, varcabile solo dai primi per aggregarsi ai secondi e rendere ancora più titanica l’impresa del bene. Il plot è quello egemone (con variazioni sul tema) nel genere spionaggio dopo il crollo delle torri gemelle, ovvero gli Stati Uniti contro i terroristi musulmani, preferibilmente mediorientali. Non c’è alcun dialogo tra i due schieramenti. Tanto è forte questa condizione che dalla finzione è strabordata nella realtà: durante le riprese della quarta stagione la produzione ha chiamato degli artisti arabi per graffitare le pareti del set per girare una scena; questi, offesi per l’immagine che la serie dà del mondo musulmano, hanno scritto sui muri “Homeland razzista” o “Homeland non esiste” e la produzione completamente disinteressata al loro lavoro se n’è accorta solo con la messa in onda del promo dell’episodio. Nonostante tutto, la scrupolosa raccolta di informazioni da parte della produzione (come fosse un servizio di Intelligence) ha permesso alla serie di raccontare con la finzione questioni di geopolitica spesso mentre avvenivano nella realtà: il terrorismo in Europa, il conflitto tra Stati Uniti e Iran, quello con la Russia, il processo di pace con i talebani fino alla produzione delle fake news (con un’apparizione del tanto caro a QAnon 4chan). Ma soprattutto Homeland, in particolare l’ultima stagione, è uno fulgido esempio di quanto l’ambiguità riesca a circuire anche narrazioni che si vogliono cristalline. Il contraddittorio percorso, che porta Carrie Mathison a prendere l’unica decisione inaccettabile per una spia, ovvero tradire (mentre per uccidere sappiamo esserci la licenza), è una lunga danza sui terreni opachi del bene e del male che si chiude con Carrie nel “ruolo” di nemica di Stato e allo stesso tempo principale stratega della salvezza di quest’ultimo. (Jacopo Favi)

 

P-VALLEY

di Katori Hall (Starz)

P-Valley. Stato del Mississippi, per la precisione Delta del Mississippi, zona depressa, esondazioni del grande fiume americano. Chucalissa, paese immaginario ma con dinamiche molto reali, lo strip club The Pynk rischia la chiusura per grossi debiti, ma soprattutto per una gigantesca speculazione edilizia, la costruzione di un casino che cambierà la vita di questo posto attraendo turisti da tutto il sud degli Stati Uniti. La gentrification arriva anche nei paesi immaginari. Seguiamo in otto episodi asciutti e notturni (con tante luci sparate da club) la vita del gruppo delle spogliarelliste che lavora nel locale, tra traumi passati, figli recenti, rivalità, questioni razziali, complesse relazioni genitoriali, e la Storia – passato schiavista, piantagioni di cotone – che senza preavviso appare qua e là. Uncle Clifford, personaggio larger than life, proprietaria del Pynk, supervisiona e dirige il tutto. Tanti i motivi di interessi, dalla musica (un notevolissimo sottofondo soprattutto di rap dentro e fuori dal locale), alla vita restituita dall’interno di un club, fino al racconto di una zona degli USA che non vediamo spesso al cinema o in TV. Creata dall’artista e attivista Katori Hall, P-Valley sono circa otto ore che scorrono come un trip, tutti gli episodi diretti da donne, un’immersione in un altro mondo. Su Starz, che non è forse il migliore dei portali, ma sicuramente con questa serie ha colto nel segno. (Luca Peretti)