MONDO
“Thank you for your service”. Lavoratori dei servizi negli Usa e Covid-19
Nel mezzo dell’emergenza ospedaliera statunitense prende corpo un nuovo protagonismo dei lavoratori dei servizi che, per una volta, vengono riconosciuti nel loro ruolo sociale di produttori della ricchezza collettiva.
È una delle immagini più emblematiche della follia della crisi in corso: sono infatti ormai più di 100 gli ospedali che negli Stati Uniti nelle ultime settimane hanno licenziato medici e operatori sanitari, o li hanno messi in furlough, una sorta di aspettativa senza stipendio (dato che in USA non esiste la cassa integrazione) in attesa di tempi migliori. Sembra incredibile: durante la più grande crisi sanitaria della storia recente, in cui gli ospedali non riescono a sopperire alla domanda di posti letto in terapia intensiva e di cure sanitarie specializzate, il settore della sanità riesce persino a espellere lavoratori e a diminuire la propria capacità di risposta.
È l’assurdità di un mercato della salute inefficiente, costoso, tra i più arretrati del mondo occidentale ma che è soprattutto irrazionale dal punto di vista della gestione delle risorse.
L’ha spiegato al giornale locale “The Daily Sentinel” Gary Stokes, amministratore delegato del Nacogdoches Memorial Hospital, in Texas a metà strada tra Dallas e Houston, presentando il piano di taglio del personale: «Come tutti gli ospedali del paese abbiamo seguito le indicazioni dei Centers for Disease Control and Prevention (l’organismo di controllo americano sulla sanità pubblica, ndr) e abbiamo sospeso tutti gli interventi chirurgici non urgenti in vista dell’aumento del flusso di pazienti per Covid-19. Abbiamo anche fatto una scorta di attrezzature e forniture in previsione del picco. Questo ha comportato un aumento delle spese straordinarie e quindi al contempo siamo stati costretti a ridurre il volume delle prestazioni di oltre il 50%».
Gli ospedali negli Stati Uniti funzionano come delle imprese private – anche se spesso sono proprietà di Stati, università, enti locali o fondazioni no-profit – e il picco della pandemia, nonostante abbia messo sotto pressione la capacità di risposta e di intervento di molti di essi, ha anche causato paradossalmente una diminuzione delle entrate, portando molti di questi istituti in sofferenza finanziaria. Questo perché la maggior parte dei ricavi si producono proprio grazie alle prestazioni chirurgiche non urgenti, che giustamente il Governo Federale ha in questo momento proibito. Inoltre, come spiega il sito d’informazione sindacale “Labor Notes”, si prevede anche un crollo delle coperture mediche assicurative, che per il 55% della popolazione attiva sono legate al proprio datore di lavoro.
Dato che in questo momento sono tantissimi quelli che hanno perso il proprio posto di lavoro, soprattutto nelle aree più povere (i dati sono ancora incerti, ma sono già 30 milioni le persone che hanno chiesto il sussidio di disoccupazione) è molto probabile che la capacità di pagare le prestazioni sanitarie subisca nei prossimi tempi una brusca frenata (anche se i costi vengono scaricati sugli ospedali che non possono rifiutarsi di non accettare delle emergenze).
A questo si aggiunge la speculazione sui prezzi di ventilatori e Ppe (il Personal Protective Equipment, che medici, infermieri e addetti ai servizi ospedalieri dovrebbero sempre indossare) dovuta alla disorganizzazione del sistema sanitario che, come è stato già fatto presente da diversi governatori, in mancanza di regia federale ha provocato una competizione tra Stati ed enti locali per accaparrarsi le scarse attrezzature disponibili sul mercato facendo schizzare in alto i prezzi.
Ma anche gli ospedali che non sono stati investiti dallo scandalo delle riduzioni d’organico hanno visto negli ultimi giorni crescere le proteste di molti lavoratori i cui protocolli di sicurezza per la Covid-19 sono stati sistematicamente violati: non solo la mancanza di protezioni (Ppe), ma anche l’impossibilità ad accedere ai test che hanno impedito di monitorare chi fosse stato esposto al virus e chi no, oltre che in generale una mancanza sistematica di materiale medico adeguato che potesse permettere di svolgere il proprio lavoro in una condizione di sicurezza. Impossibilitati a scioperare, molti lavoratori infermieristici (negli Stati Uniti di solito differenziati tra nurses, Cna, Certified Nursing Assistants e Nca, Non-certified Nursing Assistant), personale medico, ma anche addetti alle pulizie, alle lavanderie, alle mense, impiegati hanno manifestato fuori dagli ospedali, spesso in piccoli gruppi, al termine dei turni ricevendo moltissimi attestati di solidarietà da pazienti e gente comune. Organizzati dal Service Employees International Union (Seiu), una delle più dinamiche e interessanti esperienze sindacali degli ultimi anni, hanno lanciato la campagna #ProtectAllWorkers per sensibilizzare alle condizioni spesso estreme in cui hanno lavorato negli ultimi due mesi i lavoratori degli ospedali.
Per molti constatare come i lavoratori in questo momento in prima linea nella lotta contro la Covid-19 vivano in condizioni di precarizzazione e insicurezza estrema (per altro da ben prima dell’emergenza, come da anni sta denunciando Seiu) è stato uno shock.
È come se improvvisamente ci si fosse resi conto di come una figura essenziale per la sopravvivenza di una comunità – ovvero chi si occupa della salute in un momento in cui la stessa sopravvivenza non solo dei più vulnerabili, ma di tutti, è messa in pericolo – fosse squalificata, marginalizzata, messa letteralmente in pericolo di vita (mettendo a sua volta in pericolo qualunque paziente). E la cosa ovviamente non ha riguardato solo i lavoratori degli ospedali, ma anche una lunga serie di figure che spesso lavorano per salari da fame (in molti Stati il minimo salariale è ancora attorno ai 7-8 dollari l’ora) in quell’enorme settore del mercato del lavoro che sono i lavoratori dei servizi, che improvvisamente sono diventati fondamentali per la sopravvivenza di chiunque: commessi e magazzinieri dei supermercati, addetti alla raccolta della spazzatura e alle pulizie, camionisti, ferrotranvieri, benzinai, lavoratori dalla filiera agroalimentare, lavoratori delle case di riposo ecc. Si tratta di figure, nella stragrande maggioranza nere e latinx, per le quali sarebbe interessante ripercorrere le vicende sindacali degli ultimi due-tre decenni fatte di attacchi padronali e progressiva erosione di diritti sindacali e salariali, che tuttavia oggi, improvvisamente, grazie alla Covid-19 diventano per tutti heroes.
Può fare sorridere e persino irritare la retorica un po’ ipocrita con la quale vengono oggi incensati da media e senso comune figure del lavoro che fino a poco tempo fa erano invisibili, anche per molti di sinistra. Eppure fa un certo effetto vedere persone normali e clienti dei supermercati che si rivolgono a un magazziniere immigrato dicendogli «Thank you for your service», ovvero l’epiteto con il quale vengono di solito salutati per la strada i militari in servizio, secondo la tipica retorica nazionalista americana di esaltazione dell’esercito.
È come se per una volta fosse diventato chiaro a tutti che la ricchezza sociale viene creata dal lavoro. Soprattutto da quello dequalificato e poco visibile, fatto in modo preponderante da donne, persone di colore e immigrati.
Con buona pace di tutti quelli che si fanno incantare dall’ultima versione dell’automazione totale come promessa di scomparsa del lavoro e di avvento di un luxury communism prossimo venturo.
Come ha detto la sindacalista Stacy Davis Gates, vice-presidente della Chicago Teachers Union e una delle leader della recente renaissance del sindacalismo dei servizi negli Usa: non basta ringraziarli, bisogna dare priorità a questa nuova composizione della classe lavoratrice americana; bisogna cioè dare a queste categorie di lavoratori il potere di fare scelte strategiche all’interno del movimento sindacale americano. I momenti di crisi sono storicamente momenti di riproduzione e ridefinizione dei rapporti sociali e di potere all’interno del conflitto tra capitale e lavoro. È importante in questo momento sfruttare la visibilità che ha acquisito il lavoro all’interno delle rappresentazioni ideologiche della produzione di ricchezza nella società, per dare una nuova veste e una forma al conflitto di classe.