DIRITTI
Testamento biologico: questa legge è solo un primo passo verso la libertà di scelta
Approvato ieri il disegno di legge sul così detto testamento biologico. Un passo in avanti nella normativa sul fine vita, ma una legge incompleta frutto di un compromesso e che lascia ampia libertà di ‘obiezione di coscienza’ ai medici, perpetuando l’anomalia già in essere nella 194 sull’interruzione di gravidanza.
Il testo sul fine vita, risultato di un gioco di equilibrismi e conquista della maggioranza in cambio della rinuncia all’approvazione dello Ius Soli, è stato approvato in tutta fretta come promesso da Renzi durante l’ultima Leopolda. Il lavoro di labor limae fra le diverse posizioni ideologiche (o come si dice in parlamento: ‘di coscienza), ci consegna una legge incompleta. Stralciato ogni riferimento all’eutanasia, il testo approvato tenta però di regolamentare il rapporto fra l’azione professionale del medico e le volontà del paziente, garantendo per quest’ultimo la possibilità di rifiutare anticipatamente anche le cure che ne garantirebbero la sopravvivenza.
Con una ventina d’anni di ritardo rispetto all’analogo caso Cruzan, che negli Usa. portò al “Patient Self Determination Act”, nel 2006 i casi riguardanti le richieste di eutanasia di Piergiorgio Welby e Eluana Englaro divennero oggetto di dibattito sia mediatico che politico. Soprattutto la battaglia legale condotta dal padre di Eluana (vittima di un incidente stradale che la ridusse in stato di incoscienza e ne causò la paralisi completa), affinché ne venissero rispettate le volontà più volte espresse in vita sul non accanimento terapeutico, rivelò un grande vuoto normativo. Divenne evidente, a questo punto, il problema del grande campo grigio in cui i medici e gli operatori sanitari si trovano ad agire in caso di interventi d’urgenza per i pazienti impossibilitati ad esprimere le proprie volontà sui trattamenti. In questi casi, infatti, la decisione viene lasciata al parere del medico che si trova a agire in ragione della deontologia professionale e della legge che obbliga a intervenire anche laddove sarebbe molto più umano lasciar morire il paziente. Questo avviene spesso per ragioni difensive (per paura di cause per negligenza), altre volte perché la morte non è accettata come atto conclusivo e naturale della vita. Fra vuoto legislativo e necessità emotive dei familiari, ci si trova ad assistere a drammi di cui gli operatori sanitari sono esecutori ma allo stesso tempo vittime.
Le ragioni di questa situazione sono molteplici: in termini semplicistici potremmo spiegarla con la lettura di “iatrogenesi sociale” di cui parla Ivan Illich, ovvero il danno medico che viene inflitto sulla salute individuale per ragioni socio politiche, dato che non si è mai trovato un accordo legislativo (le prime proposte di disegno di legge sul tema risalgono addirittura al 1985) a causa delle implicazioni morali, religiose e culturali. Lasciate sole alle proprie decisioni ma con il compito sociale di impedire nuove morti per mezzo di interventi terapeutici, le corporazioni mediche hanno scelto di proseguire la via dell’approccio paternalista standardizzando il fine vita in linee guida frutto di lavori scientifici, quindi tramite la mera analisi dei dati di outcome, lasciando un certo livello di autonomia decisionale al medico ma tagliando del tutto fuori la volontà del singolo paziente, il suo vissuto, la sua eventuale richiesta di autodeterminazione. Allo stesso tempo non è secondario un altro aspetto: la morte viene interpretata nella chiave di qualsiasi altro atto sanitario, come merce. Il paziente che si avvicina alla morte, o entra in stato vegetativo, tetraplegico o incorre in altre patologie altamente invalidanti, smette di essere un cittadino produttivo e diventa un consumatore long-term di presidi medico-chirurgici, in un processo che spesso porta all’ipermedicalizzazione e all’impiego di terapie volte unicamente a ritardare l’inevitabile ma che causano grande sofferenza al paziente e alle persone che lo attorniano.
Il testo approvato oggi in Senato prova a mettere ordine in questo nebuloso campo d’azione in cui i pazienti, che fino a poco prima dell’atto traumatico erano persone senzienti e con delle volontà, sono tagliati fuori da ogni decisione e i medici vengono lasciati soli sobbarcandosi spesso delle decisioni con grosse implicazioni sul futuro dei pazienti stessi.
La prima novità che si prova ad introdurre è proprio l’uscita da quest’approccio paternalista in cui il medico è l’unica persona con potere decisionale in merito alle terapie perché si suppone che sappia a prescindere cosa è meglio per il paziente in quanto unico depositario della conoscenza. Questo tipo di approccio, eredità di un sistema sociale fondato sul patriarcato, continua ad essere largamente utilizzato in molti campi della sanità italiana, nonostante diversi studi medici abbiano ampiamente dimostrato come un maggiore coinvolgimento del paziente, la presa in carico delle sue necessità e volontà abbiano un ruolo determinante nella compliance e di conseguenza nel successo terapeutico. Viene, quindi, messa a valore la relazione di fiducia fra il medico e il paziente tramite una maggiore disciplina dell’atto del consenso informato, (attualmente atto di “autorizzazione del paziente” a sottoporsi a procedure mediche di qualsiasi tipo) in cui l’autonomia e la volontà del paziente e l’autonomia e la responsabilità del medico si dovrebbero incontrare. In altre parole, il medico è tenuto ad illustrare ogni tipo di opzione diagnostica e terapeutica e il paziente è libero di rifiutarla, anche laddove queste procedure fossero necessarie alla sopravvivenza, assicurandosi comunque il divieto di “abbandono terapeutico” da parte dell’operatore sanitario: il testo infatti procede offrendo maggiori linee guida per operare in casi di cure palliative e terapia del dolore. Inoltre, vieta l’accanimento terapeutico, regolamenta l’operato nei confronti di minori (di cui bisogna sentire il parere, tenendone conto proporzionalmente con l’età), rende obbligatoria la pianificazione delle cure in caso di malattia cronica, invalidante o con evidente prognosi infausta a cui il medico è strettamente obbligato ad attenersi.
Ma veniamo al core del provvedimento: le Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT), con le quali da oggi sarà possibile dare indicazioni sulle proprie scelte terapeutiche in caso di futura incapacità a renderle manifeste. Nel testo queste vengono definite come “l’atto in cui ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere può, in previsione di una eventuale futura incapacità di autodeterminarsi, esprimere le proprie convinzioni e preferenze in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto a scelte diagnostiche o terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari, comprese le pratiche di nutrizione e idratazione artificiali”. Inoltre, viene data possibilità di nominare un fiduciario, ovvero una persona che è incaricata di far rispettare le volontà e prendere decisioni in luogo del paziente, di concerto col medico, quando le DAT siano apertamente in opposizione con lo stato clinico del paziente o esistano nuove terapie efficaci ma non esistenti all’atto di scrittura delle DAT. Le DAT possono essere iscritte per atto pubblico (alla presenza di un notaio o del medico di base) o privato, in forma scritta o videoregistrata, e sono modificabili in qualunque momento.
Pur riconoscendo l’avanzamento sociale e il tentativo di rendere norma quello che fino a ieri era lasciato alla discrezione professionale del medico, restano delle grosse criticità: la prima, l’elefante nella stanza, è l’assoluta mancanza di ogni riferimento, anche solo a livello di dibattito, all’eutanasia e al suicidio medicalmente assistito, sebbene si sancisca a chiare lettere, probabilmente sull’onda del caso Englaro, che idratazione e nutrizione non siano un trattamento vitale ma una procedura rifiutabile come qualsiasi altra, e la cui sospensione non è ascrivibile agli atti commissivi, ovvero quelli direttamente volti a procurare la morte di una persona. La seconda è la mancata istituzione di un registro delle DAT (attualmente in discussione in commissione bilancio), che rende aleatoria e spesso difficile l’esecuzione delle volontà del paziente, soprattutto nei Pronto Soccorso in cui le decisioni vengono prese in tempi ristretti e andare alla ricerca delle volontà per iscritto o del fiduciario che le riporti è pressoché impossibile. La terza, la più grave di tutte, è che, seppure in maniera indiretta e fra le righe, viene lasciata possibilità di obiezione di coscienza, sollevando il medico dagli obblighi professionali. Ovvero, ci si può rifiutare di “staccare la spina”. Qui si aprirà il vero e proprio campo di battaglia sociale, con medici che si rifiuteranno testardamente di applicare le esplicite volontà del paziente in ragione della propria morale, calpestando, come per la legge 194 sull’aborto, il diritto all’autodeterminazione.