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MONDO
Terrore a Teheran: la mattanza non si ferma. Ma le donne non rinunciano a lottare
A un anno dalla morte di Jina Mahsa Amini, il parlamento iraniano approva una nuova legge per controllare e limitare in modo ancora più drastico la libertà delle donne. Il regime dei mullah intensifica inoltre la repressione del dissenso a Teheran e nelle province più remote del paese, lontano dai riflettori e dalla risonanza mediatica.
Golrokh Ebrahimi Iraee, scrittrice e attivista recentemente condannata a sette anni di carcere in Iran per collusione contro la sicurezza nazionale e propaganda contro il sistema, racconta di donne incontrate in prigione e accusate di omicidio, successivamente giustiziate. Donne che, nella maggior parte dei casi, uccidono mariti violenti per legittima difesa dopo anni di abusi, angherie e torture. Quelle stesse donne le hanno detto che non avrebbero mai ucciso i loro partner, se lo stato avesse accolto le loro richieste di divorzio e garantito questo diritto.
Il modo in cui il regime utilizza sistematicamente la pena di morte per punirle è diventata un’ulteriore forma di discriminazione in Iran, che ha portato all’esecuzione di 221 donne nelle prigioni a partire dal 2007 (dati aggiornati all’1 novembre 2023). A queste vanno aggiunte le morti di migliaia di altre, arrestate e giustiziate con accuse di matrice politica. Numerose sono inoltre le esecuzioni perpetrate segretamente dal regime, in molti casi senza che le prigioniere fossero informate sulle accuse a loro carico, né potessero avvalersi di un legale al momento dell’arresto.
La narrazione mainstream sull’Iran si è molto – a ragione – focalizzata sulle proteste che hanno lacerato il paese a partire dalla morte di Jina Mahsa Amini, il cui anniversario è stato celebrato con manifestazioni di solidarietà in tutto il mondo il 16 settembre 2023. Molti sono infatti i resoconti e le immagini di una Teheran attraversata da mesi di proteste e rivoluzione, mesi in cui il regime dei mullah si è distinto per la ferocia con cui ha affrontato e cercato di reprimere le persone che si sono riversate sulle strade, in molti casi sparando sulla folla, utilizzando lacrimogeni, fucili ad aria compressa con proiettili di metallo e torturando e incarcerando illegalmente persone intervenute in manifestazioni per lo più pacifiche. Molte di queste persone, inoltre, non hanno cercato cure ospedaliere temendo rappresaglie.
In un comunicato dello scorso 2 novembre, un team di esperti ed esperte dell’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite ha espresso profondo sconcerto per le rappresaglie condotte in Iran specialmente a carico delle donne, chiedendo che vengano condotte delle indagini indipendenti sulle loro morti e sugli arresti illegali degli ultimi mesi. Il comunicato condanna inoltre in modo esplicito le nuove misure contenute nella legge sulla castità e l’hijab approvata a settembre dal parlamento iraniano, contrarie a ogni principio di uguaglianza e volte a imprimere un ulteriore giro di vite sulle libertà fondamentali delle donne.
Ma cosa accade lontano da Teheran?
È il 15 novembre a Kerman, capitale dell’omonima provincia a più di mille chilometri a sud-est di Teheran, verso il confine con il Pakistan. Zarkhatoun Mazarzehi è stata appena impiccata nella prigione centrale della città. Zarkhatoun è l’ennesima donna di etnia baluchi la cui esistenza è stata soppressa dalle autorità iraniane nel silenzio della stampa, dei media, dell’opinione pubblica. Quella baluchi è infatti una minoranza sunnita in un paese sciita, per questo sottoposta a una sistematica persecuzione da parte del regime di Teheran. Quando, inoltre, alla repressione su base confessionale si aggiunge la violenza di genere, lo scenario è ancora più agghiacciante: Mazarzehi è solo l’ultima di una serie di donne baluci giustiziate in carcere, per motivi apparentemente legati al contrabbando di droga.
«Il regime iraniano […] ha impiccato una donna beluchi con delle accuse false associate al contrabbando di droga e a seguito di un processo ingiusto dominato dal sistema giudiziario shia-fascista centrista e patriarcale iraniano. Il suo nome era Zarkhatoon Mazarzehi. Zarkhatoon era una donna vedova sui 45 o 46 anni, con una figlia da sostenere, della regione del Beluchistan. Una regione sottoposta alla polverizzazione sistematica da decenni, dove non ci sono scuole, ospedali e dove i bambini non vengono neanche registrati all’anagrafe perché per il sistema e per la classe dominante non sono esseri umani e non esistono. Se poi sei una donna, ancora peggio, perché sei sottoposta alla discriminazione sia dal patriarcato di stato che da quello strutturale sociale», si legge su un post del movimento romano “Donna, vita, libertà”, che raccoglie molte donne della comunità iraniana della capitale impegnate nella lotta contro il regime dei mullah e nel sostegno alle persone che animano le proteste nella madrepatria e all’estero. Le parole delle compagne iraniane ci offrono il quadro di una situazione di continue persecuzioni e repressioni portate avanti da decenni in una zona di confine con il Pakistan e l’Afghanistan, nelle cui prigioni le persone di etnia baluchi continuano a essere giustiziate sistematicamente, con la scusa di aver contrabbandato droghe, dopo mesi, se non anni, di detenzione in condizioni disumane. Il picco delle esecuzioni si è registrato nell’agosto 2023, quando 11 persone appartenenti alla minoranza baluchi sono state giustiziate nell’arco di 48 ore, come riporta Agence France-Presse.
A nord di Teheran, d’altro canto, le donne non sembrano trovarsi in una condizione migliore (il mancato riferimento alle persecuzioni contro persone non binarie e LGBTQIA+ non è dovuto a una distrazione di chi scrive, ma alla grande difficoltà di reperire fonti che ne diano notizia, vista la chiusura verso l’esterno del regime). Almeno due sarebbero gli arresti di donne in massa condotti a Gilan, a circa 300 chilometri dalla capitale, di cui l’ultimo la settimana scorsa. Attiviste, giornaliste e avvocate avevano invaso le strade a seguito della notizia della morte di Armita Garavand, la sedicenne morta a fine ottobre dopo settimane di coma. Il caso della giovane ricorda molto quello di Jina Mahsa Amini, poiché anche Garavand è giunta in ospedale dopo essere stata fermata dalla polizia morale per non aver indossato il velo correttamente. La società civile non ha certo creduto alle autorità iraniane, le quali hanno prontamente declinato ogni responsabilità. Nuove proteste sono esplose nel paese, con conseguenti arresti e detenzioni arbitrarie, soprattutto ai danni delle donne. Troviamo traccia del secondo arresto di massa a Gilan proprio in una news datata 15 novembre. Al momento, le famiglie non hanno notizie circa le condizioni delle detenute, che non hanno potuto ricevere alcuna assistenza legale.
Oltre ai luoghi già citati, diversi sono stati gli arresti anche a Isfahan e Tabriz. Inoltre, almeno 62 donne sarebbero state arrestate durante i funerali di Armita Garavand, il 29 ottobre. Al momento attuale, l’unica notizia che hanno le famiglie è che sono detenute della guardia rivoluzionaria del regime.
Immagine di copertina da Openverse – United4Iran