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“Tempo sospeso” o tempo multiplo?
Il tempo della pandemia è un tempo sospeso solo soggettivamente. Nel proseguimento delle attività produttive durante il lockdown e nella sovrapposizione delle varie “fasi” irriducibili alla linearità cronologica si scopre un tempo multiplo e stratificato in cui affiora un principio di solidarietà sociale
La funzione che il ritornello occupa nella scrittura musicale è istintivamente nota. Esso si associa a una frase orecchiabile con lo scopo di restare impresso nella memoria e invitare, in questo modo, alla ripetizione. Proprio quest’ultima svolge il ruolo più importante dell’intera operazione: poiché il ritornello è pressappoco l’unica costante in un sistema di variabili (le strofe), esso può diventare metonimicamente la sola cosa realmente importante della composizione. Ma il ritornello è in grado di svolgere anche la funzione ben più sottile della reductio ad unum. Quante volte ci sarà capitato di cantare a squarciagola quella specifica parte di una canzone insieme ad altre persone, sentendo che una comunanza si trasmetteva attraverso le vibrazioni emesse dalle nostre corde vocali?
Nel contesto pandemico in cui ci troviamo, il ritornello ha la forma di una frase semplice, a effetto e, forse, pure un po’ poetica: «il tempo sospeso». Questa presunta interruzione iperuranica corrisponderebbe alla situazione che stiamo vivendo a causa della diffusione nel mondo di SARS-CoV-2. Secondo questa formula («il tempo sospeso della pandemia»), l’intervento del Coronavirus nelle nostre vite avrebbe significato un arresto temporale non solo da un punto di vista soggettivo, ma oggettivo. È tutto fermo, dicono i cantori del “tempo sospeso”, in attesa di una cura, un vaccino, o di politiche sulla sanità che non prevedano lo sterminio come soluzione econometrica alla contrazione del “benessere” negli Stati occidentali.
Eppure, fin dall’antichità la definizione di cosa sia “il tempo” rimane una delle sfide più intriganti della conoscenza umana. Da Aristotele fino alla fisica quantistica, passando per Einstein, le domande sulla natura del tempo e sulla sua effettiva esistenza hanno trovato risposte disparate, talvolta aporetiche, e che spesso sono confluite in un rassicurante «a prescindere dalla sua oggettività, esso è importante soggettivamente, come esperienza». Se, dunque, si può essere disposti ad affermare che a livello soggettivo questa crisi ha prodotto un effetto di “sospensione” del tempo (tesi, comunque, fortemente opinabile), dichiarare lo stesso sul piano oggettivo risulta ben più arduo. Non siamo in grado di definire esattamente cosa sia il tempo, ma possiamo arrogarci il diritto di proclamarne l’arresto, seppur momentaneo, a causa del Covid-19?
Conviene forse recuperare la lezione di Lucrezio, secondo cui «in uno tempore, tempora multa latent». A prescindere dalla possibilità di una definizione conclusiva sul tempo, il filosofo romano invita a guardare alla sua pluralizzazione, alla moltiplicazione dei tempi che intercorre «dentro lo stesso tempo» (uno tempore). Questa prospettiva ci permette di osservare più da vicino il “tempo sospeso” della pandemia. A quale livello il tempo è sospeso? Certo, nelle relazioni sociali e interpersonali “ludiche” (leggasi: che non fanno profitto), ma si può parlare di “tempo sospeso” per quel 52% di attività produttive che, secondo l’Istat, ha continuato a operare durante il lockdown? È “sospeso” il tempo di lavoro, che esso sia svolto in presenza o tramite il famigerato smart-working?
La riflessione lucreziana sulla pluralità dei tempi aiuta anche a osservare il modo in cui si sta sviluppando la gestione politica e socio-sanitaria. Fino a oggi, nella storia del pensiero il tempo è stato rappresentato in due modi: il cerchio, proprio degli antichi, e la linea orientata, invenzione cristiana poi secolarizzata nella modernità. È evidente che la divisione sequenziale di stadi – pardon, di fasi – operata da governo, comitato tecnico scientifico e task force risponde alla seconda rappresentazione temporale: in una freccia direzionata verso il futuro esistono così una “fase 1” in cui vige il lockdown più stretto come risposta alla diffusione del virus, una “fase 2” rappresentata dall’allargamento delle maglie e dalla ripresa produttiva di buona parte dei settori, una “fase 3” in cui a riaprire i battenti saranno altre attività ancora, una “fase 4” in cui si potranno riottenere i diritti di mobilità sul territorio nazionale e così via fino a una “fase X” in cui, presumibilmente, si potrà “tornare alla normalità” (qualunque cosa questo voglia dire). Addirittura, secondo alcuni esisterà “un tempo” (che non è “questo”) per le inchieste giudiziarie sulle responsabilità della strage che si sta consumando al nord Italia, secondo altri ora è “il tempo” della coesione nazionale e le critiche vanno posticipate al “dopo”.
Eppure, esiste ed è esistito uno sfondamento della “fase 2” già nella “fase 1”, come dimostrato dalle migliaia di aziende che hanno ricominciato a produrre tramite autocertificazione di essenzialità ai prefetti italiani. Ed esisterà una “fase 1” dentro la “fase 2”, con un aumento della curva dei contagi che è già data per scontata, vista la continua circolazione del virus nei nostri territori. E la “fase 3” sarà parzialmente anticipata nella “fase 2”, mentre la sola cosa certa è che la famosa “fase X” del “ritorno alla normalità” (quale?) viene costantemente posticipata ora per motivi politici, ora per ragioni tecnico-scientifiche. Inoltre, spazi diversi vivono tempi e modi differenti della circolazione del virus, ma si assiste a una reductio ad Lombardiam, un tentativo di riduzione al tempo unico e lombardo di tutte le differenti articolazioni territoriali esistenti. La stessa capacità di azione del virus si sviluppa secondo una pluralità temporale: tra il tempo del contagio e il tempo della saturazione dei posti letto negli ospedali (che ormai abbiamo imparato essere il vero termometro della crisi) si snoda una latenza di svariati giorni entro cui la sovrapposizione delle “fasi” è palese. È, insomma, il virus stesso a dimostrarsi temporalmente multiforme. In questo gioco di anticipi e ritardi, proprio nell’articolazione delle diverse “fasi” (cioè, delle differenti temporalità) consiste oggi da una parte il cuore della decisione politica (si pensi al continuo tira e molla tra governo centrale e amministratori regionali o locali), dall’altra il fulcro della produttività economica (in cui, mentre al tempo di non lavoro è applicata la “fase 1”, il tempo di lavoro vive pienamente nella “fase 2”).
Come spesso accade, la rappresentazione stadiale e orientata al futuro rischia di oscurare la complessità temporale del presente. Abbandonare tale rappresentazione richiede uno sforzo considerevole, ma aiuta per non lasciarsi andare alla rassegnazione in cui sembrano volerci spingere i continui spostamenti in avanti a cui siamo costretti dal 25 marzo, data della scadenza del primo DPCM. Analizzare la realtà con la lente della pluralità temporale, infatti, significa anche osservare che diverse realtà su tutto il territorio non hanno atteso la “fase X” per riprendersi il posto che si sono scelte nello spazio pubblico. Esse, pur tra mille difficoltà materiali, si sono attivate da subito per stare dentro e contro la “fase 1” e diffondere solidarietà sociale. Questo non significa che ciò sia di per sé sufficiente, né esaurisce la discussione sul “che fare”, ma indica una disposizione d’animo orientata tutt’altro che all’immobilità o all’attesa.
La funzione del ritornello, si diceva all’inizio, è quella di produrre ripetizione. Ma, soprattutto, esso nasconde la differenza delle strofe – che spesso conoscono solo i più esperti conoscitori della canzone – e agisce così da collante tra l’alto e il basso. A chi invita a cantare il ritornello del «tempo sospeso nella pandemia» occorrerebbe ricordare che quel tempo è multiplo e che, prima o dopo, anche il coro può stancarsi e voler scrivere le strofe.