ROMA

Taxiwriter 5. Classe 1928

Tra una corsa e l’altra alla guida del suo mezzo, Andrea Panzironi riflette, discute e osserva gli angoli di città in cui la storia ha lasciato delle tracce. Il quinto racconto per dinamopress

Curva, poggiata sul suo bastone di legno nodoso si avvicina con brevi e frettolosi passi. L’ho vista spuntare all’improvviso, incuneandosi tra pance di turisti gonfie di hamburger e bibite gassate e file serrate di scolari in gita. Sono in attesa di clienti, primo della fila dei taxi in servizio, godendo dell’ombra secolare che l’edificio del Pantheon stende su via della rotonda a metà del mattino. La vecchietta mi punta alzando lo sguardo spigoloso come fosse un cane da tana a caccia della sua preda.

“È libero?”, mi chiede. Sorridendo scendo dall’auto per aprirle lo sportello. “Magari … moglie e due figli” , le rispondo. Solleva lo sguardo, ma non usa parole per replicarmi. Ha gli occhi vivi e scuri, che mi trafiggono, giudicando altezzosamente la mia insulsa spiritosaggine. Getta con un lancio deciso il bastone sul sedile e sale. Chiudo lo sportello, deglutisco come non mi sarei aspettato, sento la mia sicumera vacillare.

“Santa Prisca”, sento la sua voce sottile eppure ancora agile, ma non riesco a scorgerla nello specchietto retrovisore, sembra essere stata inghiottita dal sedile. Sposto con un rapido gesto lo specchietto e finalmente la inquadro. Mi viene in mente “Capannelle” nella scena della fuga in macchina nel film “L’audace colpo dei soliti ignoti”, quando lui e “Ferribot” cercano di tenere sveglio “Piede amaro” Manfredi intonando con voce atona “tua, solamente tua”. Le somiglia incredibilmente, senza più denti ma con in testa ancora una folta capigliatura di capelli ancora grigi, non del tutto bianchi. “Quindi all’Aventino…” , accenno per avere conferma della destinazione.

“E certo, Santa Prisca, al convento, devo andare lì”. “Ah.. quindi abita lì, replico come inebetito rendendomi conto della stupidaggine che ho appena detto. “Chi io? Macché, io abito qui in centro, lì ci sta una mia amica suora. La vado a trova’ !”, mi dice, mentre con lo sguardo riflesso nello specchietto mi analizza, come per sfidare la mia crescente curiosità. E infatti già all’altezza della Bocca della verità le mie domande e le sue pronte risposte contribuiscono a descrivere il personaggio ancora pieno di vita e curiosità che sta seduto dietro di me: classe 1928, novantuno anni, già maestra elementare e attualmente studentessa di teologia.

Mi racconta di come ami ancora studiare e di come ancora impartisca lezioni di italiano e latino ai giovani, persino ai nipoti dei suoi ex alunni. Almeno tre generazioni sono state formate dai suoi insegnamenti. Mentre la salita che costeggia il roseto comunale, sovrastante il Circo Massimo, si fa più ripida, la osservo come un cercatore d’oro che abbia appena scoperto una miniera. La Memoria, penso. La memoria con la emme maiuscola in carne e ossa è seduta nel mio taxi e senza alcuna ritrosia ed anzi con entusiasmo le dico di come sarebbe importante che le sue parole, i suoi ricordi, le immagini di tutta la sua lunga e larga vita possano essere registrate, fermate, scritte e che non debbano andare perse per il bene di tutti, per un futuro migliore di quello che sembra riservarci questo “smemorato” presente.

“È il potere che vuole questo” , mi dice . “Ma io non mollo, aggiunge alzando il tono della voce. E subito la immagino giovane antifascista, pensando a ciò che mi aveva detto poco prima, quando lei e la sua famiglia furono costretti alla clandestinità dopo che il padre in un alterco in osteria aveva mandato a quel paese un gerarchetto dell’epoca per divergenze di opinioni politiche. E quell’epoca sembra essere ritornata, penso. Squadracce di giovani che rivendicano quel passato si aggirano per la città, cercando di occuparla, cercando di sottrarle quella memoria.

Arriviamo al convento, ad attenderla, poggiata alla porta del grande portone c’è la sua amica suora. La maestra mi paga la corsa, lasciandomi il resto. Scendo e la aiuto a scendere dandole il braccio. Vorrei che quel contatto come in un vecchio film di fantascienza del quale non ricordo più il titolo, servisse a trasmettermi tutta la memoria vissuta dalla sua inestimabile vita, perché poi io a mia volta la potessi tramandare ancora ai miei figli, per renderla viva ogni volta come unica ed invincibile arma contro l’oblio.

E mentre con un cenno la saluto, salgo in auto e ridiscendo le pendici dell’Aventino, illudendomi che ciò sia avvenuto; in qualche modo mi sento migliore, forse sarà per il tramonto di un sole che oggi sembra intramontabile su tutta Trastevere, dove so per certo che batte il cuore di un’altra città, che resiste con altri giovani che cercano con fatica ed entusiasmo di far vivere il territorio, di ridarle il diritto ai sogni, magari iniziando da quelli in celluloide dei film sotto le stelle.

Illustrazione di Marisa Dipasquale