ROMA
Taxiwriter 4. Lo stratega finanziario
Tra una corsa e l’altra alla guida del suo mezzo, Andrea Panzironi riflette, discute e osserva gli angoli di città in cui la storia ha lasciato delle tracce. Il quarto racconto per dinamopress
Lo strillone alla radio annunciava l’arrivo del salvabanche, mentre lo stratega finanziario al telefono, seduto dietro di me, annuiva innalzando il mento appuntito nel pronunciare parole di miele, soffiate all’orecchio del suo incauto cliente. Dalla radio l’esperto intervistato all’uopo rispondeva rassicurante, le banche erano salve, così come le anime ansiose all’ascolto. Lo stratega finanziario seduto alle mie spalle aveva intrapreso tra un semaforo e l’altro una nuova conversazione, stavolta era un confronto tra pari; un suo fido collega all’altro capo del telefono lo ascoltava mentre lui brandiva parole taglienti contro il governo e i soliti venduti alla politica, che così facendo gli avrebbero fatto perdere tutto, tutti i soldi che i suoi ignari clienti gli avevano affidato, perché era ovvio, tutti lo sapevano, tutti avevano puntato sul fallimento, anche i sassi avrebbero saputo cosa fare. E invece… Il telefono dello stratega finanziario frigge. La fila dei clienti telematici in attesa di sapere si allunga, lo stratega finanziario è una maschera di cera ed acciaio insieme, assecondando le sue parole perfette con la mimica del volto, prima sereno come la linea d’orizzonte del mare d’agosto, poi improvvisamente spigoloso e grigio come una lama di dirlindana.
Le chiamate non avevano soluzione di continuità ed il flusso continuo di risposte ampiamente consolidate aveva avvolto anche la mia mente. Ascoltarlo aveva lo stesso effetto del camminare sull’orlo di un precipizio, quando il fascino perverso della paura ti attira verso il salto nel vuoto. Gli avrei certamente affidato i miei risparmi, se solo ne avessi avuti, e forse anche quelli dei miei familiari, e dei miei più cari amici se solo si fossero affidati a quell’uomo così convincente, col suo naso adunco e i suoi occhi affossati da faina del deserto. Un nuovo uomo politico d’opposizione alla radio annunciava che opporsi era il loro unico senso di esistenza, e che quindi anche non volendo si sarebbero opposti, a costo di far saltare il banco e le banche, banchieri e banchisti compresi, e che si! Anche quelli del primo banco, di solito i più bravi, dovevano saltare! Tutto doveva saltare! Il giornalista cercando di rassicurarlo gli fa notare che stanno parlando di banche, non dello scibile universale. Il nuovo politico riprende fiato, e nell’attimo di sospensione prima del nuovo diluvio di parole violente e vuote tipiche dei tossicodipendenti da opposizione permanente, squilla il telefono dello stratega finanziario. Alza il sopracciglio e dallo specchietto mi manda un segnale inequivocabile. Abbasso il volume mettendo a tacere l’oppositore di professione (sapessero tutti che basta una manopola della radio …). Lo stratega finanziario svela adesso il suo tono di voce più autentico, quello del verme strisciante. Il filo esile che esce dalla sua bocca rinsecchita dal troppo parlare riesce a malapena a comporre monosillabi utili a confermare la sua presenza al telefono. È completamente privo di opinione. La moglie lo sta cazziando di brutto. Forse ha sbagliato un acquisto o forse ha dimenticato di prendere qualcosa dal bottegaio sotto casa o chissà che altro di enormemente grave poteva aver commesso? Il colore del volto in un attimo volge al verde bottiglia. Un travaso di bile stava avvenendo all’interno del suo ventre. Gli occhi ruotano fino a fermarsi fissi nel vuoto. La schiena del suo corpo sfinito sbatte sul sedile mentre la conversazione con l’amata moglie volge alla fine. Ok, sarà fatto, dice chiudendo il telefono. Tutti gli affidamenti finanziari di sua moglie e dei suoi parenti saranno restituiti. Stai tranquilla dice e chiude la telefonata. Mi chiede con il residuo scarto della voce rimasta di cambiare destinazione, non più la stazione. Andiamo ad Ariccia.
Spegne definitivamente il telefono. Il silenzio ingombrante dell’imbarazzo e della disperazione riempie l’abitacolo. Cambio canale radio. La musica di un adagio del settecento ci conduce sulla via Appia durante la dolce e lunghissima salita verso i castelli. Il ponte del diavolo è una lingua sottile che unisce il paese al palazzo imponente della famiglia Chigi, superando con un’unica arcata l’immenso vuoto verde che a perdita d’occhio si stende nella gola sottostante. Fermo l’auto, accostandola proprio al centro del ponte. Lo stratega finanziario non ha più occhi, ma solo due piccolissime pozzanghere di lacrime ai lati del naso ancora più adunco. Mi allunga un’unica banconota, senza dire alcunché. Prendo il resto, mi volto per darlo all’uomo dietro di me. Non c’è più nessuno. È uscito silente dall’abitacolo come un filo di fumo. Il suono dello sportello che si chiude riempie in un attimo il silenzio denso del posto. Il cielo grigio e blu sembra essersi abbassato di colpo. Voglio solo andarmene prima di rimanere incastrato anch’io tra quel ponte diabolico e quel cielo di piombo. Metto la prima e avvio l’auto e dallo specchietto retrovisore riesco a scorgere la sagoma dell’uomo fermo in piedi sul parapetto del ponte che immobile guarda nel vuoto in attesa del primo colpo di vento…
Illustrazioni di Marisa Dipasquale