MONDO
Take A Knee: la protesta che fa infuriare Donald Trump
Le star dello sport USA si mettono in ginocchio durante l’inno americano per protestare contro razzismo e marginalizzazione . E dall’NFL (footbal americano) la mobilitazione potrebbe dilagare anche nell’NBA (basket).
Tra il 17 e 18 ottobre inizierà il campionato professionistico di pallacanestro negli USA, l’NBA. Tra le ginocchia di Derrick Rose e i Golden State Warriors, destinati a vincere il secondo titolo consecutivo, le attenzioni maggiori guardano oggi all’inizio della partita. Il Take A Knee, lo stare in ginocchio durante l’inno americano è diventata consuetudine nella stagione NFL con oltre 200 giocatori che regolarmente preferiscono segnalare le violenze di polizia e il razzismo della società contro gli afroamericani, che stare mano sul cuore durante “stars and stripes”. I “boo” dei tifosi accompagnano spesso la protesta. L’amministrazione Trump versa benzina sul fuoco e gli alti livelli della NFL hanno chiesto alle società di tenere in panchina i giocatori che non rispettano l’inno americano.
Chi ha iniziato la protesta, da solo il 26 agosto 2016 – durante la scorsa stagione – è Colin Kaepernick. Il giocatore ora è senza squadra. La sua vicenda è complessa, ma la leggenda dice che non ha messo il casco e lanciato palloni per la stagione 2017/2018 per un post twitter della sua compagna, Ness Nitty. Essenzialmente i Baltimora Ravens erano pronti ad acquistare il free agent ma la compagna di Colin ha twittato l’immagine di un giocatore (Lewis) abbracciato al proprietario del team Steve Bisciotti affiancata alla foto di Samuel L. Jackson e Leonardo di Caprio nel film Django, aggiungendo che l’ex giocatore fosse uno schiavo fedele. Se la leggenda fosse realtà mostrebbe la profondità e il radicamento di contenuti che la coppia Nitty–Kaepernick vive, se non fosse veritiera aggiungerebbe comunque del pepe alla lotta del quarterback. Sicuramente
Colin paga il suo coraggio, per tutta la scorsa stagione è stato seduto durante l’inno nonostante minacce, insulti ed esclusione dalla rosa dei titolari. Ed è proprio da qui che parte l’attesa per la stagione NBA, perchè nell’infuocata fine estate del football americano il presidente degli USA Trump ha deciso di attaccare tutte e tutti. Ha dato dei «figli di puttana» ai giocatori NFL che protestavano, ha chiesto che venissero licenziati e quando alcuni giocatori NBA hanno patteggiato con i compari si è scatenato l’inferno: Il Tycon ha deciso di ritirare l’invito alla casa bianca a Stephen Curry, star dei Golden State Warriors. Curry è diventato bersaglio di Trump dove aver solidarizzato con i giocatori NFL insultati dal presidente. Ma già qualche me fa i Golden State, campioni NBA, avevano fatto trapelare una volontà dello spogliatorio critica nell’onorare la tradizionale visita al presidente USA, quando sarebbero passati da Washington, causa posizioni razziste di Trump.
Il tweet del Tycoon con cui attacca Curry ha scatenato l’ira delle star NBA. LeBron James, uno dei più forti e famosi giocatori di basket al mondo, dopo aver risposto al presidente USA via twitter, è tornato ad attaccare Donald Trump, con un video: «Mi sento frustrato, perchè questa persona che abbiamo messo al potere dopo quello che è successo a Charlottesville sta tentando di usare lo sport per dividere ancor di più il popolo americano. E non è una cosa che posso tollerare, non è una cosa su cui posso tacere».
Dopo James, a scendere in campo in difesa di Stephen Curry è stata una leggenda dell’NBA, Kobe Bryant. «Un presidente degli Stati Uniti il cui solo nome crea divisioni e rabbia» – twitta l’ex star dei Los Angeles Lakers – «Le sue parole generano dissenso e odio che rendono impossibile rendere l’America di nuovo grande», ha aggiunto Bryant riferendosi allo slogano del predidente repubblicano «Make America Great Again».
Michael Jordan e Magic Johnson non hanno aspettato a solidarizzare con i giocatori afroamericani in protesta e difeso la libertà d’espressione. Alla fine, è arrivata anche la posizione ufficiale dei Golden State Warriors campioni NBA in carica, la principale lega professionistica mondiale: non andranno alla Casa Bianca. In una nota il team si dice «deluso». »Non c’è niente di più americano della possibilità che ogni cittadino possa esprimere liberamente le sue opinioni», si legge. I Warriors annunciano comunque che saranno ugualmente a Washington a febbraio e, invece della programmata visita alla Casa Bianca, troveranno il modo per «celebrare l’uguaglianza, la diversità e l’inclusione. Tutti valori che la nostra organizzazione» – si legge ancora – «sostiene da sempre». Questa la cronaca. In più, dopo l’omicidio di Eric Garner, moltissimi giocatori NBA avevano fatto riscaldamento con la maglia I can’t breathe, riprendendo le parole del giovane prima di morire.
Trump è riuscito a spostare tutta l’attenzione su di lui. E non è un caso: Trump non vuole occuparsi delle tematiche sollevate dal Black Lives Matters, non vuole mettere in discussione la sua volontà di difendere i bianchi ricchi americani e certamente non è interessato a democratizzare la società. Il governo Trump ha l’ambizione di settare l’orologio indientro nel tempo di 25/30 anni, in ogni aspetto della società USA, dall’economia ai diritti civili e sociali. Per questo, meglio una protesta anti-Trump che una protesta che fa parlare giornali, radio e tv del razzismo e della marginalizzazione dei non bianchi americani. Dal punto di vista del presidente lo spostamento dell’attenzione e del clima generale della prostesta contro di lui potrebbe rappresentare colpo di genio politico.
Lo sport USA non è nuovo a proteste eclatanti, ma forse mai come oggi è presente nello sport professionistico a stelle e strisce. Riempie le televisioni. Obbliga a dibattiti televisivi e i grandi media a prenderne atto. E spesso racconta anche di come i giocatori, troppo spesso considerati solo uomini e donne che devono e sanno correre dietro a un pallone, hanno introiettato valori e identità sociale, oltre che politica. Un vento nuovo, diverso dal Black Panthers. Il Black Lives Matters è forse un qualcosa che gli afroamericani statunitensi vivono, sanno spiegare e declinare. L’alba di una nuova società che spaventa la componente bianca, sempre più minoritaria, che ha in Trump il colonnello dell’ultima battaglia.
Il mix è scoppiettante, il clima abbastanza teso e le star NBA, come i colleghi di NFL e MLS (Baseball), pronte a mettersi in ginocchio contro il razzismo e la discriminazione: difficile pensare che il vento targato Black Lives Matters non spiri anche nei palazzetti del basket. La scommessa ora sta nel vedere se la profondità dei contenuti della protesta saprà battere la capacità comunicativa di The Donald e così riuscire nuovamente a mettere a fuoco l’obiettivo del Take A Knee.