cult

CULT

Sussistenza e riproduzione

Cosa significa la frase engelsiana e marxiana secondo cui: «I costi che genera l’operaio si limitano perciò quasi solo ai mezzi di sussistenza di cui egli abbisogna per il proprio sostentamento e per la riproduzione della sua razza»? Come la si può reinterpretare e stravolgere da un punto di vista femminista?

È questo il primo riferimento – gli altri si troveranno nel secondo capitolo, infra, p. 32, nell’ultimo paragrafo relativo al salario dell’operaio, e p. 36, nei paragrafi dedicati alla famiglia – alla sfera della riproduzione. Un riferimento, come si evince già dall’espressione in cui viene racchiuso, «costi dei mezzi di sussistenza», evidentemente parziale, perché cieco rispetto al lavoro e alle attività produttrici di questi stessi mezzi. Marx ed Engels fanno infatti coincidere la possibilità della riproduzione della forza lavoro con la sola capacità di acquisto, tramite il salario, dei beni di prima necessità, non cogliendo così l’esistenza di altri «costi», anteriori ai primi e imprescindibili per la produzione dei suddetti beni: il lavoro che trasforma le merci in effettivi elementi di sussistenza per l’operaio salariato; il lavoro riproduttivo appunto, domestico e di cura.[1] L’intento critico del Manifesto non rende cioè conto di come, prima ancora del «lavoro salariato», sia quello riproduttivo svolto dalle donne la «condizione» di esistenza del capitale[2], perché condizione della riproduzione della forza lavoro. L’«arcano dell’accumulazione» capitalistica[3] presuppone allora, come la critica femminista ha mostrato, l’«arcano della riproduzione»,[4] vale a dire quell’operazione di occultamento, naturalizzazione e svalutazione di quest’ultima, al fine di renderla materia di un’ulteriore, per quanto indiretta, estrazione di plusvalore. Limitando la propria analisi al rapporto di lavoro salariato, Marx ed Engels, per dirla con Silvia Federici, non colgono che «la casa e il lavoro domestico non […] [sono] l’‘altro’ dalla fabbrica ma […] il suo fondamento».[5]

Si potrebbe pensare che la dimenticanza di Marx ed Engels sia dovuta al massiccio ingresso in fabbrica delle donne (e dei bambini) che in quel momento risaltava ai loro occhi, come il testo stesso in parte testimonia. In realtà, anche negli anni successivi, la specifica divisione sessuale del lavoro imposta agli albori della modernità come premessa, non meno essenziale delle enclosures, della transizione al capitalismo, rimane questione inevasa nell’elaborazione di entrambi. Il «contratto sessuale»[6] che sta dietro i nuovi modi e rapporti di produzione non viene cioè mai analizzato nella sua determinatezza storica, bensì taciuto e dunque indirettamente assunto nella sua versione naturalizzata, nonché mistificata: la riproduzione come «lavoro da donne», insieme «vocazione» e «destino biologico». Di qui a considerarla priva di qualsiasi valore economico – e sociale –, in quanto ascritta alla sfera delle risorse naturali piuttosto che del lavoro vero e proprio, il passo è breve.

La separazione stessa tra ambito della riproduzione e ambito della produzione, dunque, non è un dato immutabile, al contrario ha una storia, che culmina con l’invenzione della casalinga a tempo pieno nella seconda metà del XIX secolo. In altre parole, l’atto di fondazione del capitalismo ha coinciso con l’istituzio- ne di un «nuovo ordine patriarcale», quello definito, sempre da Silvia Federici, «patriarcato del salario».[7] Il capitale ha infatti utilizzato il salario maschile come strumento di regolazione e disciplinamento del lavoro femminile: come strumento di appropriazione e accumulazione di un’enorme fetta di lavoro non pagato. In questo modo le donne non solo sono state costrette tra le mura domestiche come madri, mogli e figlie, ma sono state rese enormemente più dipendenti dagli uomini: dai mariti, dai datori di lavoro, dallo Stato che, a partire dal XVI secolo, inizia a esercitare il controllo sulle nascite, sulla sessualità non procreativa, quindi sui loro corpi.[8]

L’aver portato alla luce la questione della riproduzione come questione centrale, non solo dal punto di vista della ricostruzione storica e dell’economia politica, ma anche e soprattutto sul piano delle lotte, è merito dell’elaborazione femminista, in particolare di quella nata, negli anni Settanta, dal movimento per il Salario al lavoro domestico.[9]

Un nodo oggi più che mai decisivo. In primo luogo perché la produzione contemporanea assume sempre più, per lo meno in alcune zone del mondo, i tratti delle attività riproduttive. È il fenomeno della «femminilizzazione del lavoro», facendosi quest’ultimo relazionale, affettivo, linguistico, segnato dalla piena disponibilità del tempo, dall’intermittenza, da paghe bassissime o nulle; là dove, quando pure è retribuito, viene monetizzato secondo la misura salariale tradizionale che conteggia la prestazione in astratto e non i concreti bisogni soddisfatti.[10] In secondo luogo perché, a fronte dell’attuale fase di ristrutturazione capitalistica, le istituzioni attraverso cui, nel corso del XX secolo, si è parzialmente esternalizzata e regolata la riproduzione sociale – welfare state e servizi – sono in via di dismissione a mezzo di tagli e privatizzazioni. Così la quota di lavoro gratuito estorto riprende ad aumentare: i costi della riproduzione vengono nuovamente scaricati verso il basso e i rapporti sociali subiscono in alcuni casi un vero e proprio processo di ri-familizzazione di cui le donne pagano il prezzo maggiore – in termini di disparità salariale, di disoccupazione forzata, di segregazione lavorativa che passa, oltre che per la linea del genere, anche per quella del colore, di maggiore esposizione al rischio della violenza domestica.

È così che la riproduzione sociale è tornata al centro delle lotte femministe internazionali contemporanee di Ni Una Menos Non Una di Meno: la riappropriazione della ricchezza prodotta, decisiva per ogni processo di liberazione dal ricatto della violenza capitalistica e patriarcale, passa necessariamente, infatti, per un recupero del controllo sui mezzi della riproduzione. In questa prospettiva Non Una di Meno reclama oggi un «reddito di autodeterminazione», un reddito di base, incondizionato e universale, slegato dalla prestazione lavorativa e dalle condizioni di soggiorno, come forma di redistribuzione della ricchezza e garanzia materiale di autonomia. Al tempo stesso, la rivendicazione di un welfare universale e gratuito si accompagna a un ragionamento più ampio sulla costruzione di nuove infrastrutture autonome della riproduzione sociale, capaci di liberare i tempi di vita invece di costringere una volta di più tra le mura domestiche o al lavoro sfruttato, capaci di rovesciare gerarchie e ruoli di genere, di consolidare rapporti solidali e mutualistici contro l’individualismo e il comando neoliberale.[11]

 

[1]Per la distinzione tra i tre cfr. A. Del Re, infra, pp. 228 ss.

[2]Ivi.

[3]Cfr. Marx, Il capitale, cit., vol. I, pp. 777 ss.

[4]L. Fortunati, L’arcano della riproduzione. Casalinghe, prostitute, operai e capitale, Marsilio, Venezia 1981.

[5]S. Federici, Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riprodu- zione e lotta femminista, Ombre corte, Verona 2014, p. 21.

[6]Cfr. C. Pateman, Il contratto sessuale, Editori Riuniti, Roma 1997.

[7]S. Federici, Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis, Milano-Udine 2015, p. 105 e p. 92.

[8]Cfr. ivi, p. 105 e pp. 122-133.

[9]Cfr. per esempio M. Dalla Costa, A. Del Re, S. Federici, L. Fortunati, S. James.

[10]Cfr. C. Morini, Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo, Ombre corte, Verona 2010; F. Giardini e A. Simone, Reproduction as Paradigm. Elements Toward a Feminist Political Economy, in M. Hlavajova e S. Sheikh (a cura di), Former West. Art and the Contemporary after 1989, M.I.T. Press, Cambridge (MA) 2017.

[11]Cfr. Non Una di Meno, Abbiamo un piano. Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere, 2017, pp. 27-30.