ITALIA

Surawa, 18 anni: nel ghetto di San Ferdinando si muore ancora

Un’altra morte annunciata nella Piana di Gioia Tauro, dove si continuano a costruire tendopoli nonostante l’alto numero di case vuote presenti sul territorio. Il corpo carbonizzato di Suruwa segue a un anno di distanza quello di Becky Moses, costretta ad abbandonare Riace perché irregolare, e quello di Soumaila Sacko, ucciso nella stessa zona da un colpo di fucile. Una tragedia senza fine i cui mandati politici sono da trovare nel ministero dell’Interno e nella politica di apartheid razziale che costringe i migranti a vivere in condizioni di marginalità assoluta al limite dell’emergenza umanitaria

È successo ancora. Sabato sera un altro incendio ha infiammato il ghetto di San Ferdinando, nella Piana di Gioia Tauro. Nel giro di pochi minuti hanno preso fuoco otto baracche. A scatenare il rogo, probabilmente è stato un braciere lasciato accesso per combattere una nottata troppo fredda. Quando le fiamme hanno smesso di bruciare le travi in legno a sostegno di questi ripari coperti da teloni in plastica, la cenere ha restituito un corpo senza vita. Giovane. Molto giovane. È Suruwa Jaithe, un ragazzo gambiano di appena 18 anni che viveva a Gioiosa Ionica, in uno Sprar gestito da Re.Co.Sol. (Rete dei Comuni Solidali). «Non sappiamo perché si trovasse lì», ha raccontato fra le lacrime il coordinatore del progetto Giovanni Manolo in un’intervista rilasciata al Corriere della Calabria. «Adesso dovrò chiamare una madre per dirle che suo figlio è morto bruciato».

Forse Suruwa era andato in baraccopoli per trascorrere il fine settimana con qualche amico. Qualunque sia la ragione che lo abbia portato a San Ferdinando, poco importa: ognuno ha il diritto di percorrere le proprie mappe della libertà. E Suruwa ci stava riuscendo. Qualche settimana fa, Jaithe aveva partecipato a un torneo di calcetto ed era stato anche premiato. Giovedì scorso, invece, il ragazzo si era sperimentato in un laboratorio teatrale, mentre a breve avrebbe iniziato un tirocinio formativo.

 

Era. Avrebbe. Aveva. È triste dover parlare al passato di una vita finita così presto. È triste raccontare, di nuovo, che nei ghetti si muore e le speranze riposte in uno zaino in cerca di una vita migliore finiscano in cenere.

 

Non è la prima volta che le fiamme distruggono la baraccopoli. Era già accaduto nel 2017: a luglio e a dicembre. Proprio l’incendio estivo era risultato abbastanza grave. Buona parte del ghetto abitato dai nigeriani era stato divorato dalle fiammate. Non c’erano stati morti ma l’odore acre sprigionato dalla legna dopo una breve pioggia si mescolava a un clima umido e a una temperatura percepita di oltre 40°, rendendo l’aria irrespirabile. Nemmeno un mese dopo, ad agosto, alcuni migranti venivano trasferiti in una nuova tendopoli montata a soli 500 metri dai vecchi casotti.
L’ultimo incendio, terribile, si è verificato all’inizio di quest’anno. A perdere la vita era stata una ragazza nigeriana di soli 26 anni, Becky Moses; finita in quell’inferno dopo che un diniego alla richiesta di asilo non le permetteva più di restare a Riace. Anche in quel caso, i rifugi bruciati erano stati sostituiti con una trentina di tende collocate in uno spiazzo fra il ghetto e la nuova tendopoli.

 

CASE, NON TENDONI

Ieri mattina, mentre un gruppo di migranti protestava in corteo chiedendo dignità e giustizia per la propria vita, il Prefetto di Reggio Calabria- Michele Di Bari- convocava un vertice con il Comitato Provinciale per l’Ordine e la Sicurezza presso il comune di San Ferdinando. Al termine della riunione, un comunicato stampa illustrava le solite soluzioni: sgombero del ghetto e allestimento di nuove tende in un’area limitrofa.
Occorre ricordare che l’attuale accampamento di baracche da sgomberare altro non è se non la tendopoli di Stato montata nel 2012. Non è difficile trovare qualche tenda sbiadita dal sole targata “Ministero dell’Interno” o “Protezione Civile”. Tendoni costati migliaia di euro (l’ultima ha un costo superiore alle 300 mila euro) e divenuti fatiscenti non appena i fondi destinati alla manutenzione del luogo sono finiti.

Eppure una soluzione più durevole, ma soprattutto umana, sarebbe possibile. Secondo quanto riportato in un report dell’Osservatorio sul disagio abitativo in Calabria, nella Regione fra le più povere di Italia è presente il 40% degli alloggi vuoti o scarsamente utilizzati. Un’analisi della Società dei Territorialisti, invece, stima che soltanto nella Piana di Gioia Tauro ci siano 35 mila case vuote.
E di nuovo le istituzioni si apprestano al montaggio dei campi come se ci fosse stato un terremoto?

 

Ma la storia si ripete e le condizioni di vita dei braccianti vengono equiparate a una “situazione straordinaria”. Un’emergenza. Ma così non è affatto.

 

Fin da prima della rivolta di Rosarno, tutti gli anni,  all’apertura della stagione delle arance, a raccogliere gli agrumi e le clementine marchiate IGP nelle campagne calabresi arrivano almeno 3.500 braccianti.

Una situazione ancor più sconcertante se pensiamo che buona parte dei migranti sia in possesso di un regolare permesso di soggiorno.
Lo scorso maggio, a conclusione del progetto “Terra Ingiusta” (che ripartirà per la Piana fra qualche settimana), Medu (Medici per i Diritti Umani) ha ben descritto chi vive negli insediamenti informali della Piana, che per il 92,65%  risulta regolarmente soggiornante. Di questi il 45% ha ottenuto un permesso umanitario; il 41,4% ha presentato domanda di asilo (il 33% è ricorrente in primo o secondo grado contro una decisione negativa della Commissione Territoriale) e il 7% è titolare di protezione internazionale (asilo o sussidiaria). Per quanto riguarda la questione lavorativa invece, meno di 3 persone su 10 è in possesso di un contratto di lavoro.

 

ESSERI UMANI, NON CLANDESTINI

Chi vive nel ghetto non è soltanto il bracciante impiegato nei lavori agricoli. Come la maggior parte degli insediamenti informali, la baraccopoli di San Ferdinando rappresenta un luogo di transito. Un posto in cui si giunge quando la vita non offre nessun altra alternativa. E sarà fra i posti che “grazie” al Decreto Sicurezza approvato dal governo giallo- verde, accoglierà un numero crescente di persone.

L’abolizione della protezione umanitaria prevista dalla nuova legge porterà almeno 40 mila “irregolari” a vivere in strada. E i primi effetti si stanno vedendo proprio sul territorio calabrese.

Lo svuotamento dei centri di accoglienza dai titolari del permesso umanitario -–oggi, dunque, “clandestini”– è già stato avviato a fine ottobre nella provincia di Vibo Valentia.

 

«Si mandano ragazzi di 18 anni in mezzo alla criminalità di strada o nelle tendopoli di Stato. In nome della sicurezza», commenta Sergio Pelaia nel suo articolo  su Il Corriere della Calabria.

 

E in nome della sicurezza è stato smantellato il modello Riace, cercando capi espiatori da trasformare in accuse rivolte al sindaco Mimmo Lucano; oggi “in esilio” dalla sua città. Settimana scorsa,  Il Fatto Quotidiano ha filmato la “disfatta di Riace”. Perché Riace adesso è questo: un paese fantasma, con le strade che al mattino non si riempiono più delle grida gioiose dei bambini e delle bambine mentre vanno a scuola. Asilo ed elementari hanno dovuto chiudere per un numero insufficiente di alunni e alunne. E 80 giovani hanno perso il lavoro. In Calabria, in cui la disoccupazione giovanile tocca il 55% e negli ultimi 15 anni ben 180 mila ragazzi e ragazze hanno abbandonato la propria terra per cercare altrove un futuro migliore (dati Demoskopika, novembre 2018).  Oggi il modello Riace, a cui guardava tutto il Mondo, non esiste più. Famiglie intere sono state mandate via. Una donna, madre di tre bambini, è stata allontanata dal paese che da otto anni era diventata la sua seconda casa. Si era poi ritrovata in un centro del vibonese a dover condividere una stanza con altre persone. Giustamente, non aveva la minima intenzione di subire quel trattamento ma se rifiuterà la nuova collocazione, non avrà diritto a ottenere i documenti necessari per restare in Italia.

E, sempre in Calabria, durante lo scorso fine settimana, dal Cara di Crotone sono state espulse 26 persone. Fra loro si trovavano una donna incinta e una pericolosa“irregolare” di appena sei mesi.

Quale sicurezza potrà mai portare un decreto improntato ad alimentare le marginalità sociali?

Quanti Suruwa, Becky e Sacko, invece morto per alcuni colpi di pistola mentre cercava delle lamiere con cui costruire la sua casa nel ghetto, dovremo ancora contare?

Quante volte dovremo narrare ancora, con le lacrime agli occhi, queste morti di Stato?

Perché la morte di Suruwa non deve essere vana. Non più. E non possiamo restare indifferenti davanti a disumani provvedimenti rivolti a chi viene considerato come una “vita di scarto”. Perché nessun essere umano è illegale. Nessun essere umano dovrebbe essere “un ultimo fra gli ultimi”.

 

Foto di Nadia Lucisano