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Sundown

Dopo il successo di Nuevo Orden, Michel Franco torna per il secondo anno consecutivo in concorso con Sundown, un film che ruota attorno alla figura di un turista inglese ad Acapulco, interpretato da uno straordinario Tim Roth

Già Leone d’argento a Venezia 77, Michel Franco torna in Concorso con Sundown, un film che incarna la dicotomia turista-straniero nel corpo stanco e malandato di un milionario inglese il cui viaggio, però, non è niente più che una passiva attesa della fine, o di un più generale tramonto come dice il titolo stesso. Il protagonista è Tim Roth, già attore per Franco nel suo premiato Chronic (2015), che questa volta veste i panni di Neil Bennett, un ricchissimo britannico con un impero nell’industria alimentare.


Mentre Roth si spoglia da ogni tipo di vezzo, riducendo ai minimi termini la recitazione, Franco gli si avvicina, accompagnandolo scena dopo scena senza mai abbandonarlo, se non in favore di rari montaggi alternati necessari alla narrazione. Sono sempre gli altri che irrompono nella sua scena, la famiglia dal vecchio continente, le persone che incontra lungo la strada, mentre beve e si lascia vivere.

Il risultato è un personaggio che nella sua trasformazione trascina la preoccupazione dello spettatore. La vicenda è semplice eppure il pubblico per l’intera durata del film tende a essere disorientato, non riesce a mettere a fuoco la struttura del comportamento del protagonista e, come questo, resta in attesa di un finale. Sundown, infatti, costruisce una suspense rarefatta che trova le sue ragione nella scoperta della natura organica e simbolica del personaggio.

Le prime sequenze, quelle in cui questo (anti)eroe contemporaneo viene presentato, sono un tuffo nell’omologato lusso dei resort esotici. Neil è in compagnia della sua famiglia ad Acapulco trascorrendo le ore a bere margarita, mangiare picanha e capesante, nuotare e prendere il sole. Non sappiamo molto su di loro poiché le scene vengono montate senza principio di continuità, come istantanee di una routine che descrive un certo standard e una precisa disposizione turistica.

Quando improvvisamente, raggiunti dalla notizia di un lutto, sono costretti a fare tempestivamente ritorno a Londra, Neil accampa una scusa e resta in città, facendosi portare, questa volta, in hotel qualsiasi. Entra così in scena Acapulco, finora localizzata grazie al cocktail sour a base tequila e dallo spettacolo dei tuffatori professionisti de La Quebrada, celebri per lanciarsi da decine di metri d’altezza in un fiordo stretto e poco profondo, vera attrazione locale.

La città messicana della costa pacifica viene adesso ripresentata come paesaggio pulsante in cui un bianco si lascia vivere sulla spiaggia attrezzata poco distante dalla sua stanza, affittata per mille pesos al giorno.

La famiglia lo cerca, lo reclama, lo mette di fronte ai suoi doveri etici e materiali ma Neil sembra voler rinunciare ai suoi privilegi (continuando a percepire una pensione a vita di diecimila sterline al mese, beninteso), così come ai suoi legami affettivi. Sembra volersi sbarazzare del mondo, alla ricerca dell’oblio in un’ambiente che non gli appartiene.


Franco gioca innanzitutto sul repentino cambio nello sguardo del turista, nei suoi codici così come nelle sue interpretazioni, ricercando quel sentimento di estraneità tra soggetto e mondo che, a ben vedere, è il vero nodo tematico del film.

Sundown allora si presenta come il contraltare del precedente Nuevo Orden, ambientato in una Città del Messico tumultuosa e sconvolta dalla violenza di classe. Alla coralità delle rivolte, alle passioni forti come la rabbia o il disprezzo, alle chiare dicotomie oppositive del paesaggio sociale del film precedente – e che venne accolto in Messico in modo tutt’altro che caloroso – Franco sostituisce un lavoro maggiormente introverso, alleggerito anche nella sua macchina produttiva, costruendo un’altra via per osservare la società e il suo paese.

L’immagine della violenza resta però centrale, non solo quella degli spari, del sangue, della morte, ma quella secondo cui, per qualcuno, ogni luogo è come se fosse casa propria.


Se il film appare didascalico a tratti è perché l’ultra-capitalismo che implode può solo generare immagini di altre immagini.

Tutte le immagini: TEOREMA