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OPINIONI

Sul posto delle scienze nella pandemia globale

Con questo contributo Alain Supiot, celebre giuslavorista e teorico del diritto, contribuisce al dibattito avviato dal Collège de France sul ruolo delle scienze alla luce della crisi sanitaria in corso. Mettendo in guardia contro i pericoli dello “scientismo”, ci ricorda come la biologia e l’economia abbiano non solo fondato l’”arte moderna di governare” ma contribuito in modo decisivo alla costruzione degli ordinamenti giuridici dello Stato moderno. Il movimento di idee che si è costruito attorno a queste scienze ha contribuito a rappresentare le società e gli uomini come oggetti misurabili. Una vera e propria governance attraverso i numeri e il calcolo si è imposta, rintracciabile non solo nell’“organizzazione scientifica del lavoro” di marca “taylorista”, ma anche nelle riforme della sanità pubblica improntate al New Public Management. La crisi in corso mette in stallo queste forme di razionalità, mostra l’utilità sociale di molti lavori manuali o di esecuzione e chiama a una rivalorizzazione generale del lavoro, tema che ha percorso in Francia tutto il movimento dei Gilets Jaunes e quello degli scioperi contro la riforma delle pensioni.

Nel fermento di idee e analisi provocato dalla pandemia globale, c’è una questione che interessa particolarmente il Collège de France: quella del posto delle scienze nella comprensione delle sue origini, della sua portata e delle lezioni da trarre da essa.

È evidente in effetti che questa pandemia fa parte di quelli che Mauss chiamava «fatti sociali totali», fenomeni che «mettono in moto la totalità della società e delle sue istituzioni» e la cui comprensione richiede di non scomporli o selezionarli nelle loro differenti dimensioni (biologica, storica, politica, giuridica, geografica, demografica, psicologica, economica etc.), perché «è percependo l’insieme che [possiamo] percepire l’essenziale». Con il suo motto Docet omnia per riunire tutti gli ambiti del sapere, il Collège de France non può ignorare l’invito di uno dei suoi membri più illustri a «percepire il tutto insieme».

È ancora necessario accordarsi sul luogo specifico della ricerca scientifica nel contesto della pandemia e nel confronto con essa, poiché la natura stessa di un fatto sociale totale è quella di coinvolgere non solo i fenomeni osservati, ma anche coloro che li osservano e i prodotti delle loro osservazioni.

Tuttavia, riflettere sulla propria condizione, interrogarsi sui propri limiti e sulle proprie responsabilità non è un esercizio facile per i ricercatori, abituati a occupare una posizione che sovrasta i fatti che osservano. Questa naturale inclinazione si è accentuata da quando i leader politici o economici, non potendo più fondare il governo degli uomini sull’autorità religiosa, pretendono di amministrarli scientificamente come delle cose.

Diverse scienze, prima fra tutte la biologia e l’economia, sono state così promosse fin dal XIX secolo a riferimenti normativi, con lo scopo di guidare il potere politico e di imporsi all’ordinamento giuridico. L’attuale regime di eccezione offre un’illustrazione caricaturale di questo gioco di vasi comunicanti: il governo fa riferimento alle istruzioni del suo Consiglio scientifico per restringere drasticamente le libertà fondamentali, mentre il Consiglio costituzionale si astiene per il momento dal censurare le violazioni alla Costituzione (decisione n. 2020-799 DC del 26 marzo 2020).

 

Questa inversione di ruoli mette in pericolo non solo la democrazia, ma anche le scienze stesse. Esse hanno infatti bisogno di tempo e di polemiche metodologiche per comprendere un fenomeno inedito, perché il loro contributo al progresso delle conoscenze presuppone che rinuncino alla Verità con la ‘V’ maiuscola.

 

Il meglio che possono fornire è un servizio di “fari e segnalatori”, indicando a chi occupa ruoli di potere le insidie e i pericoli da cui deve guardarsi. Esse possono quindi fornire dei chiarimenti al potere politico, ma non possono fondarlo. Quando sono promesse alla posizione dogmatica di istanza del Vero, una volta occupata dalla religione, la scienza feticizzata degenera nello scientismo, che è il peggior nemico della scienza, così come il biologismo o l’economismo sono i peggiori nemici della biologia o dell’economia.

A partire dal XVIII secolo, un potente movimento di idee ha condotto a rappresentare gli uomini e la società come oggetti misurabili e gestibili, le cui “vere leggi” di funzionamento potevano essere scoperte, indipendentemente dalla loro (presunta falsa) consapevolezza.

 

È questa immaginazione che ha ispirato l’”organizzazione scientifica del lavoro” dell’era industriale. È nota la famosa risposta di Taylor alla domanda di un lavoratore sulla definizione del suo lavoro: «Non ti si chiede di pensare. Ci sono persone che sono pagate per pensare, quindi mettiti al lavoro».

 

Con la globalizzazione, questa “organizzazione scientifica” ha assunto la forma di una divisione globale del lavoro tra “manipolatori di simboli” e “lavoratori di routine”. Dovuta a Robert Reich, questa distinzione aiuta a cogliere le radici della crisi attuale. Nel mondo dei simboli, i numeri occupano un posto d’eccezione. Lontani dalla polisemia e dalla diversità dei linguaggi, fin da Pitagora sono stati presentati come un linguaggio divino, senza tempo e universale, capace di esprimere le leggi profonde dell’universo.

L’esperienza del comunismo reale ha segnato un passo importante in questa tendenza a basare le istituzioni sulla scienza invece di fondare la libertà scientifica sulle istituzioni. Negli ultimi quarant’anni circa, tale inversione è stata il risultato della combinazione tra l’immaginazione cibernetica (che vede le persone e le società come esseri programmabili) e la fede in un “ordine spontaneo” del Mercato (che la Legge avrebbe la funzione di attuare e mai di ostacolare).

Tutte le forme di resistenza all’estensione di questa governance attraverso i numeri sono quindi squalificate in anticipo. E prima di tutto le forme democratiche, che mirano a garantire il diritto all’esperienza infinitamente variegata delle persone ordinarie.

La democrazia sociale ed economica è diventata il bersaglio privilegiato di questa squalifica, evidente in Francia nel disinteresse per i sindacati e nel trattamento dei conflitti sociali. Rompere la resistenza di coloro che usano la loro esperienza di fatti sociali per opporsi all’avvento dell’armonia attraverso il calcolo è diventata una priorità politica in sé, che si tratti di riforme del diritto del lavoro, della sicurezza sociale o dei servizi pubblici. Tale è stata la sorte di chi ha obiettato che un ospedale pubblico non è un’impresa e ha denunciato gli effetti disastrosi di una gestione che consiste, secondo le parole di André Grimaldi, nel «curare gli indicatori piuttosto che le persone».

 

Perché il più umile dei lavoratori sa cose sul proprio lavoro che il suo superiore ignora. Ogni malato ha un’esperienza di malattia che il suo medico non ha e ciò fa parte della conoscenza della malattia.

 

Tutti coloro – operatori sanitari, fattorini, cassieri, guardie di sicurezza, spazzini; camionisti, elettricisti… che lavorano oggi a diretto contatto con cose o persone hanno esperienza dell’attuale pandemia che generalmente manca a coloro il cui lavoro riguarda esclusivamente i segni. Rivalorizzando il senso e il contenuto del lavoro di tutti, la crisi dissipa per un momento l’illusione economica di trattare il lavoro come una merce e di conoscerne il valore tramite il prezzo di mercato. Alla luce del tema dell’utilità sociale, il vertiginoso divario di reddito tra un trader finanziario e un’infermiera si rivela ingiustificabile e solleva quindi ancora una volta le questioni della giustizia sociale, della solidarietà e della democrazia economica, che non riguardano la Scienza, ma l’arte di governare.

 

Traduzione italiana di Federico Puletti per DINAMOpress

Il testo è comparso nella sua versione originale in francese sul sito del Collège de France

Foto di Chokniti Khongchum (Pexels)