PRECARIETÀ

Sul disprezzo per la classe docente

Ottava puntata di ST.O.P. (Storie di Ordinaria Precarietà). Le Cattive Maestre e il primo giorno di scuola.

Settembre: 7 milioni di studentesse e di studenti tornano in classe, nella Scuola pubblica. Scuola ferita a morte nel lontano agosto 2008, con i tagli imposti dalla Legge 133 (7,5 miliardi), e mai curata. Semmai spinta nel baratro con maggior forza (vedi la “Buona Scuola”). Colpiti gli studenti, colpiti dalla stessa furia neoliberale anche i docenti, precari senza sosta e vessati da tutti: dai media e dal Governo, dal senso comune e, spesso e volentieri, dalle famiglie. Con l’introduzione delle CattiveMaestre, due racconti sull’immissione in ruolo nella provincia di Roma.   

Le/gli insegnanti, si sa, sono tra le categorie di lavoratrici/lavoratori più bistrattate di questo paese. In merito però, oltre ai dati oggettivi ultranoti – lo stipendio è, a parità di tempo di lavoro impegato, di gran lunga inferiore a quello dei colleghi e delle colleghe europei, il precariato dura in media una decina d’anni e non vi sono prospettive certe di stabilizzazione, il titolo abilitante si consegue a pagamento (2500 euro circa) e chi più ne ha, più ne metta – crediamo sia il caso di soffermarsi su un aspetto che, in un certo senso, ci appare forse più grave e lesivo della dignità di lavoratrici e lavoratori che, teoricamente, svolgerebbero un ruolo sociale fondamentale: il disprezzo.

Certo, da un paese che investe solo il 4% del proprio PIL, pari a 65,1 miliardi, per gli investimenti in formazione – quasi un punto percentuale al di sotto della media europea (4,9%) e poco più della metà di quanto investito da Danimarca (7%), Svezia (6,5%) e Belgio (6,4%)1 – non ci si aspetta niente di buono, ma il disprezzo è un’altra cosa. Disprezzare – dal lat. volg. dispretiāre composto dal prefisso -dis, che rovescia il senso buono o positivo della parola a cui si prefigge e dal sostantivo neutro pretĭum , che nella sua accezione più tarda indica ‘valore’, ‘stima’, ‘pregio’ – significa, appunto, considerare qualcuno o qualcosa indegno/a di stima e, addirittura, di considerazione.

Facciamo ordine. La costruzione di un sentimento, socialmente diffuso, di disprezzo nei confronti delle/degli insegnanti s’inscrive in una più ampia strategia che ha come obiettivo ultimo la distruzione delle capacità critiche degli individui e la denigrazione del lavoro intellettuale – in qualsiasi forma esso si dia – al fine di rendere la forza lavoro sempre più manipolabile e ricattabile, sempre più ‘al servizio del capitale’. Questa strategia, costruita a partire dall’inizio degli anni 2000 da governi di ogni colore e orientamento, ha seguito un diabolico iter che è passato per la costruzione dell’immagine dell’insegnante parassita (che abusa della legge 104, che si assenta a ridosso del week-end e dei periodi di chiusura della scuola per allungarsi le vacanze – storica fu in tal senso l’iniziativa di Brunetta che introdusse l’obbligo della visita fisicale obbligatoria per ‘la malattia’ fruita a ridosso dei festivi), seguita da quella dell’insegnante privilegiato (lavora solo 18 h a settimana, gode di tre mesi di ferie – si ricorderà il criminale Ddl Aprea che ha eliminato le ‘ore di disposizione’ degli insegnanti per ‘eliminare gli sprechi’ e il tentativo di portare da 18 a 24 le ore frontali di lezione per le/gli insegnanti della Secondaria), per finire con l’insegnante somaro o inetto (contro l’inettitudine e l’ignoranza della massa indistinta dei docenti il Pd, in particolare, ha costruito una vera e propria crociata all’insegna del merito, architettando concorsi alla stregua di ‘giochi senza frontiere’).

Risultato: ‘la politica’ distrugge il sistema d’istruzione pubblica dal punto di vista strutturale e lascia alla ‘società civile’ (?), alle tanto citate ‘famiglie italiane’, il compito di finire il lavoro (sono all’ordine del giorno episodi di violenza e minacce nei confronti dei/delle docenti da parte di genitori e genitrici), asfaltando definitivamente ogni possibilità di ‘riconscimento’ del ruolo e del valore sociale del ‘mestiere di insegnare’ e aggredendo violentemente la dignità stessa di lavoratori e lavoratrici.

Ora, nel tempo della barbarie in cui viviamo, la categoria del disprezzo, dell’odio sociale, assume sempre più centralità, poiché è funzionale alle dinamiche di espulsione, emarginazione ed erosione dei diritti fondamentaliagite oggi dalle élites neoliberali fattesi Stato che provvedono in tal modo alla difesa dei propri interessi; lampante è, in tal senso, la parabola dei rifugiati e l’attacco alle ONG. Allo stesso modo, con i dovuti distinguo, ‘le famiglie’ scaricano sui docenti, invece che sul sistema d’istruzione pluririformato, kafkiano e totalmente inadeguato, le inefficienze e le difficoltà della scuola di ogni ordine e grado (‘mio figlio ha già cambiato tre insegnanti di matematica dall’inizio dell’anno, l’ultima non si è neanche degnata di salutare la classe prima di andar via, che maleducata!’, vai a sapere che quella docente era stata sostituita a sua insaputa ‘dall’avente diritto’ e che durante la stessa mattina si era dovuta scapicollare in un’altra scuola per non restare senza incarico per tutto l’anno….).

Ora, crediamo che vada iscritto a tale clima di odio per gli/le insegnanti, il trattamento riservato alle docenti e ai docenti di lettere immessi in ruolo quest’anno nella provincia di Roma. L’immissione in ruolo costituisce la tappa conclusiva del percorso a ostacoli che le/i docenti debbono affrontare per conquistare, finalmente, il tanto agognato contratto a tempo indeterminato. A circa quarant’anni -questa è l’età media dei docenti di cui parliamo-, con appena un decennio di precariato alle spalle, dopo aver conseguito l’abilitazione e dopo aver superato un concorso ‘a ostacoli’ durato circa un anno, arriva il fatidico momento: il ruolo.

Prima di essere immesso in ruolo e assegnanto finalmente ad un ambito territoriale però, l’insegnante è chiamato a indicarne tre, tra quelli rimasti, in cui preferirebbe lavorare per i successivi tre anni; provveditorato, graduatorie e posti effettivi permettendo. Ora, questa operazione, che ha riguardato circa 600 docenti di lettere nella regione Lazio, è avvenuta tra il 31 luglio e il 1 agosto scorsi, giornate fresche, come ricorderete, in una scuola della ridente città di Latina. Le operazioni sono andate avanti per 24h ininterrottamente, senz’acqua, senza aria condizionata né ventilatori e senza la possibilità per i docenti di allontanarsi dallo stabile per la necessità di monitorare continuamete la situazione.

Questa barbara situazione poteva essere facilmente evitata calcolando i tempi effettivi che una tale operazione richiederebbe e immaginando uno scaglionamento, ad esempio, oppure, più civilmente, tale compito poteva svolgersi on line a mezzo di sistema informatico. No? Era inevitabile far attendere, stipate in un edificio di Latina, a 40 gradi, 600 persone, tutte assieme, senza avere a disposizione nemmeno un consono numero di sedie? No che non era necessario, bastava pensarci. Ma per pensarci però, bisogna che gli insegnanti siano considerati, almeno un pò, di qualche pretĭum.

Riportiamo qui il racconto di due insegnanti che hanno vissuto in prima persona quest’esperienza, non per rispondere col vittimismo alle offese subite, ma perchè speriamo così, all’inizio del nuovo anno scolastico che si preannuncia caotico e pieno di bataglie da combattere, di stimolare una riflessione politica adeguata alla complessità della fase, che vada nella direzione di costruire nuove e speriamo inedite alleanze sociali.

CattiveMaestre

Se in passato mi avessero chiesto di quantificare i confini della mia pazienza, sicuramente la mia risposta avrebbe sottovalutato l’effettiva capacità di sopportazione che ho affinato negli undici anni di precariato, periodo che si è concluso martedì primo agosto alle 05:39 del mattino, con l’ultima grande prova di resistenza fisica e psicologica, quella della firma per l’immissione in ruolo. Un momento che non dimenticherò mai, perché non sono riuscita a godermelo pienamente, ad esultare come meritavo, a festeggiare brindando con i miei affetti; non ho potuto, perché ero talmente provata dallo sforzo di sopravvivere dignitosamente allo strazio del caldo e delle ore che scorrevano lente, che l’unico pensiero dopo la firma, era di tornare a casa, di percorrere quegli 80 e più km, che separavano soprattutto mio marito, spettatore coatto, dal nostro letto.

Siamo arrivati a Latina, pieni di scartoffie e con solo due panini, alle 9:30 di lunedì 31 luglio, con una buona mezz’ora di anticipo rispetto all’orario di inizio riportato sulle convocazioni. Migliaia di persone, tra cui molte future mamme, migliaia di ingenui accompagnatori, bambini che non sapevano cosa li aspettasse e genitori, ormai anziani, ignari del fatto che sarebbe stata chiesta loro una prova di forza iniqua secondo ogni geriatra, così come per ogni medico con un minimo di sale in zucca. Perché nessuno di noi mai avrebbe immaginato di rimanere là dentro per quasi 21 ore, perdendo lentamente onore, freni inibitori, igiene e, purtroppo, barattando la sana indignazione, con la speranza di concludere lo strazio che sembrava non avere mai fine. Abbiamo smarrito un giorno nel computo della settimana e me ne accorgo, perché non riesco a fare mente locale sul tempo trascorso seduta su una sedia: sono entrata di mattina e sono uscita di mattina. Sarà la stanchezza che mi inebetisce, ma nelle ore successive al rientro, non ho mai pensato che potesse essere martedì; ed il foglio che ho tra le mani, la firma più attesa della mia vita, l’ho pagato ad un prezzo disumano.

Eppure i segnali della sofferenza c’erano tutti ed io non li ho interpretati: una desolata Latina, il caldo di fine luglio, un parcheggio improvvisato, una scuola con tutte le caratteristiche tipiche dei posti a cui la stagione estiva crea inospitalità: afa opprimente, una sala/serra con poche sedie rispetto ai presenti, assenza di condizionatori, bagni fatiscenti e miasmi ovunque; a quest’ultimi, nel corso delle ventuno ore che mi hanno tenuto inchiodata là dentro, non solo mi sono abituata, ma ho contribuito a produrne. Si, perché in quelle condizioni, in un posto del genere, l’abbrutimento è assicurato, tanto del fisico, quanto dell’animo. Ma cosa avrei dovuto fare? Intorno a me c’erano solo visi speranzosi e mani che si tenevano strette la propria carta d’identità, chi se lo sarebbe aspettato di vivere questo calvario?

Con l’otturazione di buona parte dei bagni, per molte persone è iniziata la fine della civiltà, un “Signore delle mosche” formato pontino.

Nel corso delle ore la pazienza oscillava con il rifornimento di caffè e snack del bar, unico ad aver tratto un reale e sicuramente meritato vantaggio aureo dal protrarsi del tempo; ma qualcuno deve aver bevuto troppi eccitanti, perché focolai di litigi spuntavano ovunque ed erano di varia natura: tra coniugi, tra parenti, tra colleghi, con i sindacati, per telefono o scrivendo mail al vetriolo e leggendole ad alta voce. C’è stato anche un sindacalista che, nel cuore della notte, ha mal visto il poggiarsi di un paio di natiche sulla sua scrivania, avendo una reazione spropositata, la stessa che però non ha sentito il dovere di tirar fuori, di fronte al maltrattamento che subivamo. Da qui la differenza tra un culo e l’andare a fare in culo.

Personalmente ho mantenuto una calma pressoché inquietante ed ho capito di esser prossima a perdere la lucidità quando, verso le 4 del mattino, nonostante quaderni e fogli, ho cominciato a scrivere i contingenti degli ambiti territoriali sul mio braccio.

Comunque mi sono fatta una cultura non indifferente sulla mia regione: so che per arrivare ad Affile da casa ci impiego quasi un’ora e che l’inverno è meglio lavorare a Sutri e non a Valentano. Frosinone è comodamente raggiungibile con la Casilina, ma Monte San Giovanni Campano, è troppo in alto e la strada da percorrere ad un certo punto è piena di curve.

E giù a segnare sul braccio…

Quando è giunto il mio momento mi sono alzata, lucida per il sudore, con i capelli unti e le mutande bagnate per le ore rimaste schiacciate tra il sedere ed il legno. 

Nonostante tutto, ero emozionata: i segretari di Latina sono stati gentili e forse, con i raggi dell’alba che penetravano dalle porte finestre, anche loro vedevano la fine di qualcosa.

Io vedevo un inizio, anche se sofferto.

Nell’andare via con mio marito e le mie colleghe, camminando piano come fanno i sopravvissuti nei film, ci siamo accorti che per terra c’era un mare di bottiglie di plastica, mozziconi di sigarette e fazzoletti ovunque: nessun professore danneggerebbe mai una scuola, il vandalismo non ha mai fatto parte della nostra cultura, ma non dovevano privarci dei mezzi elementari per mantenere il dovuto decoro.

Siamo lo strumento di lavoro del ministero, eppure sembra che quest’ultimo pratichi il luddismo…

Piroci

Latina. Via Reno. 31 luglio, ore 10:00. La sede è quella dell’Istituto superiore Guglielmo Marconi, dove circa 600 docenti vincitori di concorso sono stati convocati per la tanto sudata immissione in ruolo. I corpi avanzano, si incontrano, si salutano. Si riconoscono i volti incrociati durante gli anni passati, nelle sedi delle università, delle scuole, per i percorsi abilitanti, per le prove concorsuali, per le supplenze brevi o annuali. Corpi, sì, perché lorganizzazione della giornata, memorabile per molti di noi, non è stata pianificata secondo il benché minimo criterio etico della salvaguardia dei lavoratori. Ma procediamo con ordine.

Ci raduniamo nell’aula magna della scuola. Ci sono donne incinte, neo mamme con prole e nonni coraggiosi al seguito, fidanzati che troppo presto si spazientiscono. Sono presenti i rappresentanti delle sigle sindacali, solerti nella profusione di consigli e di guide d’istruzione per gli adempimenti del nuovo incarico a chi ne faccia richiesta. La commissione deputata agli incarichi burocratici comunica a tutta la platea che per le ore 18:00 intende concludere le operazioni di assunzione.

Si comincia. Lentamente. Tutta la mattinata viene dedicata alle classi di concorso A013 e A011. Inevitabile è la pausa per il pranzo. Mancano i condizionatori; ci sono solo porte aperte, ma siamo tanti. Se non esci dall’aula neanche ti rendi conto che fatichi a respirare. Quando le operazioni riprendono e la commissione ritorna al suo lavoro è tardi. È tardi perché noi delle classi A012 e A022 siamo troppi: più di 500. Mi osservo e osservo gli altri. Tutti con le teste chine sugli elenchi a depennare nomi che vengono man mano assunti, a sottrarre i posti occupati dagli elenchi degli ambiti territoriali. Intanto l’ossigeno viene pian piano sostituito dall’anidride carbonica che tutti emettiamo e che intanto sortisce i suoi effetti: pallore sui visi, sensazione che la capacità percettiva – soprattutto quella uditiva – stia subendo dei veri e propri attacchi. Ci confrontiamo, sbirciamo nelle liste dei compagni seduti accanto a noi. Cedere alla distrazione e alle ciance significa poi aggiornare velocemente le carte. Si perdono i conti, non corrispondono a quelli dei colleghi più meticolosi. A sera l’adrenalina dei presenti cede il posto alla stanchezza. Alle 22:00 firmo io finalmente, ma sono solo la duecentotrentaseiesima della graduatoria. I convocati sono 580. Ne mancano solo 350…

Si esulta e ci si commuove per i colleghi che hanno già apposto la firma. Si scattano foto che ritraggono volti sfatti ma sorridenti nonostante l’attesa, mentre si tenta di nascondere all’obiettivo l’alone di sudore che ha marchiato le nostre magliette. Intanto la notte avanza e l’impazienza aumenta. Ma come ha potuto il ministero non procedere a una diversa organizzazione? Perché non ci ha scaglionati in gruppi? Questi i dilemmi che più tormentano i docenti.

Alle 1:00 di notte la voce di uno dei commissari, amplificata dal microfono, ha il coraggio di proporre ai convocati di rimandare le operazioni al giorno seguente. La folla si scaglia e si leva all’unisono un unico “no” di risposta. L’idea di tornare di nuovo a Latina, in quella landa desolata, allarma tutti. Si decide di procedere a oltranza. L’unico intervento eclatante dei sindacati si riduce alle urla di uno dei loro rappresentanti, che inveisce contro una docente, in attesa di sbrigare le pratiche burocratiche e che, vinta dalla stanchezza, si appoggia al banchetto del sindacalista. Questi non accetta l’affronto di quel sedere che schiaccia la sigla. La invita più volte ad allontanarsi, ma niente. Allora, solleva il banco nel tentativo di catapultarla altrove. Un gentiluomo interviene in difesa della donna, le voci si fanno grosse. La commissione minaccia di chiamare il 118. Un climax di borbottii, pugni minacciosi e insulti che piano piano si placano e le operazioni riprendono. Le 2:00, le 3:00, poi le 4:00. Crollo. Mi addormento sulla sedia nelle posizioni più impensate: anche china con il volto sullo zaino appoggiato sulla sedia davanti alla mia. Arriva finalmente anche il turno delle mie colleghe, amiche e compagne di una serie di avventure e sventure che ci unisce ormai da anni. L’ultima di noi firma alle 6:00 del mattino e con lei la commissione termina il suo lavoro. Ultime esaltazioni, foto d’obbligo in cui si tenta di mettere in evidenza l’ora in cui è stata apposta la firma.

Poi guardiamo fuori dalle porte. Con stupore ci accorgiamo che albeggia, l’aria è pungente. È piacere e stilettate insieme. Ci dirigiamo verso l’auto. Fortunatamente, il marito di un’amica ha aspettato con noi. È riuscito a riposare un po’ nell’abitacolo ed è pronto ad affrontare la Pontina per fare ritorno a Roma. Noi, neoimmesse, cerchiamo di partecipare al tentativo di condividere ancora commenti ed emozioni, ma crolliamo dal sonno con le bocche spalancate e le teste chine da un lato. Il nostro uomo ci porta a destinazione a una a una. Grandi abbracci e una riconoscenza che si esprime più a gesti che a parole. Apro la porta di casa mia alle 8:00 del 1 agosto. Sono esattamente 25 ore che manco da casa. 25 ore per apporre una firma. Fa caldo, ma la frescura dell’alba mi ha lasciato un dolore alla bocca dello stomaco. “Dovrei gioire” penso fra me e me, ma ancora non riesco. L’ennesimo sberleffo a una classe di lavoratori di cui si dice spesso male. Mi avvolgo nelle lenzuola e mi comprimo lo stomaco. Finalmente chiudo gli occhi per un po’.

Dalila Calma

1  Dati tratti dall’articolo di A. Magnaghi, pubblicato lo scorso 30/08 sull’on-line del Sole 24 ore. Questo il link: http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-08-29/italia-terzultima-europa-spesa-istruzione-germania-spende-doppio-190050.shtml?uuid=AE8jEVJC.

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