MONDO
#StolenHomes. Dalla Palestina una prima vittoria contro Airbnb
Airbnb ha annunciato che cancellerà gli annunci provenienti dai territori occupati della Cisgiordania, ma dietro questa decisione c’è il successo di una campagna di mobilitazione internazionale diretta proprio contro l’azienda di San Francisco
Da qualche giorno circola in rete la notizia della decisione di Airbnb di cancellare i circa 200 annunci provenienti dai territori occupati della Cisgiordania. Da più parti questa iniziativa viene salutata come una presa di posizione quasi rivoluzionaria del colosso americano dell’Holiday rental in merito alla questione palestinese, spingendo alcuni – come Gideon Levy dalle pagine di Haaretz (ripreso in Italia da Internazionale – a parlare persino di un «metodo Airbnb contro l’occupazione». Secondo Levy, infatti, l’azienda«ha realizzato da sola più di quanto tutta la sinistra sionista abbia mai fatto per porre fine all’occupazione».
Ma siamo sicuri che la compagnia di San Francisco possa essere considerata un modello di attivismo, tutto sharing e community friendly? Nel suo pacatissimo comunicato stampa, Airbnb si premura di dichiararsi non esperta del conflitto israelo-palestinese e consapevole del fatto che la sua decisione provocherà lo scontento di molti, per le cui posizioni continua a nutrire «un profondo rispetto». Nella dichiarazione della compagnia, tra entusiastiche dichiarazioni di affetto verso Israele e i suoi 20.000 hosts che pubblicano sulla piattaforma, non si troverà alcuna valutazione di merito sulla questione. L’unica motivazione addotta per giustificare la propria – pur importante – presa di posizione, è un vago riferimento ad alcune prese di posizione di quella “global community” che con i suoi viaggi e le sue proprietà produce quotidianamente la ricchezza di Airbnb, stimata ormai attorno ai 31 miliardi di dollari.
Facciamo quindi un passo indietro, all’origine dei turbamenti della global community. Nel 2016 972 mag pubblica un inchiesta in cui si scoperchia il caso dei listings negli insediamenti illegali: «sweet welcoming neighborhood with helpful people» che si rivelano essere appartamenti con piscina vista checkpoint su terre sottratte ai palestinesi. Per pungolare le policy antidiscriminazione dell’azienda californiana, il giornalista crea inoltre il profilo fittizio di un sedicente turista americano di discendenza palestinese che tenta di affittare uno di questi appartamenti: ad Haled (questo il nome del profilo-fake) viene sistematicamente negata la possibilità di prenotare «a causa della situazione politica», tranne in un unico caso, in cui però viene avvisato che sarà sottoposto a un particolare “security check” all’ingresso del villaggio.
L’inchiesta suscita un certo clamore, e viene ripresa da molti giornali internazionali. Nelle settimane successive il movimento per il boicottaggio BDS lancia, assieme a numerose altre associazioni, la campagna #stolenhomes, che arriva a raccogliere ormai oltre 150.000 firme a suo sostegno. Lo slogan della campagna – «We can’t live there, so don’t go there» – supportato da un video in cui compare anche Ahed Tamimi, si diffonde rapidamente, e porta anche ad azioni di solidarietà internazionale come questa, in cui un gruppo di attivisti occupa a Chicago la sede della Fidelity Investment, un fondo speculativo multinazionale con forti investimenti in Airbnb.
La campagna internazionale inoltre evidenzia il fatto che Airbnb causa l’espulsione di abitanti autoctoni su scala mondiale, «da San Francisco alla Palestina», compiendo l’essenziale operazione di collegare i movimenti anti-gentrification americani ed europei con quelli palestinesi, a partire certo dalla specificità della lotta palestinese, ma allargando il piano ad un conflitto comune contro la speculazione sull’abitare operata dalle compagnie di short rental.
I materiali prodotti dalla campagna, su questo, sono eloquenti: (vedi foto)
Airbnb viene dunque messa in difficoltà dal fatto che, prendendo il 3% sulle transazioni derivanti dagli annunci, di fatto trae profitto da situazioni illegali secondo la legge internazionale, quali sono per l’appunto le colonie israeliane in territorio palestinese. Ed è così che si trova costretta a innestare la parziale marcia indietro di cui leggiamo in questi giorni, che fa comprensibilmente andare su tutte le furie l’establishment israeliano: il ministro del turismo Yariv Levin minaccia ritorsioni e parla di una scelta «discriminatoria, vergognosa e miserevole», mentre il titolare del dicastero degli affari strategici Gilad Erdan la definisce una «posizione razzista» nei confronti dei cittadini israeliani (fonte: Nena News). Alcuni coloni nel frattempo decidono di intentare una class action.
Per il BDS è una vittoria, ma parziale. Airbnb dichiara infatti che sono ancora disponibili tutti i suoi annunci provenienti da Gerusalemme Est e dalle alture del Golan, territori anch’essi occupati illegalmente dallo stato di Israele. È per questo che la campagna continua, tanto in Palestina quanto nel resto del mondo. Se da un lato infatti si ribadisce che «there is no tourism as usual with Israeli apartheid», dall’altro il BDS sottolinea «il ruolo globale di Airbnb nel mettere in pericolo il diritto alla casa e i diritti sul lavoro degli impiegati nell’industria turistica», annunciando la propria solidarietà a tutte le mobilitazioni su questi temi.
Se l’hashtag #stolenhomes dovesse continuare a crescere, diventerebbe più difficile poter affermare, come fa Levy, che Airbnb «non ha bisogno di trarre profitto da terre dalle quali sono state cacciate persone», perché è semplicemente quello che l’azienda fa quotidianamente su scala globale e non solo nei 200 appartamenti della Cisgiordania, come mostrato dal lavoro dell’Anti-Eviction Mapping Project e da una miriade di altri collettivi e progetti di resistenza in tutto il mondo. Questa prima vittoria contro il colosso dell’home sharing è certamente una prima vittoria per tutti, tanto per la lotta palestinese quanto per i movimenti anti-gentrification. Ci auguriamo che non sia l’ultima.